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Michelangelo a Roma

Vita e opere

Palazzo Farnese
Palazzo Farnese

1. BASILICA DI SAN PIETRO -

Piazza San Pietro

Progetto della Cupola

La Pietà

2. MUSEI VATICANI:CAPPELLA SISTINA -

Viale Vaticano 100

Giudizio Universale

3. CAPPELLA PAOLINA visitabile con permesso speciale

Crocifissione di San Pietro

4. CASTEL SANT'ANGELO -

Lungotevere Castello

Cappella dei Santi Cosma e Damiano

5. PALAZZO FARNESE -

Piazza Farnese

Prospetto della facciata

Piano nobile

Parte del cortile interno

6. CHIESA DI SANTA MARIA SOPRA MINERVA

- Piazza della Minerva 42

Cristo portacroce

7. PIAZZA DEL CAMPIDOGLIO

Progetto della piazza

Progetto di Palazzo dei Conservatori

Base della Statua del Marco Aurelio

8. CHIESA DI SAN PIETRO IN VINCOLI -

Piazza di San Pietro in Vincoli

Monumento funebre di Giulio II con il Mosè

9. BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE - Piazza di Santa Maria Maggiore

Cappella Sforza

10. CHIESA DI SANTA MARIA DEGLI ANGELI

- Piazza della Repubblica

Progetto

11. PORTA PIA -

Piazzale di Porta Pia

Progetto del Portale esterno

Quando si dice che Michelangiolo è un genio non si esprime soltanto un apprezzamento sulla sua arte, ma si formula un giudizio storico. Genio, nel pensiero del Cinquecento, è una forza extra-naturale (angelica o demoniaca) che agisce sull'animo umano; è ciò che in epoca romantica si chiamerà ispirazione. Leonardo è un formidabile "ingegno", ma non è, in questo senso, un "genio" perché tutta la sua opera insiste sull'area dell'esperienza e della conoscenza; Michelangiolo è un "genio" perché la sua opera è ispirata, animata da una forza che si direbbe soprannaturale e che la fa nascere dal profondo e tendere al sublime, alla trascendenza pura.

Il messaggio che l'artista sente giungergli da Dio è individuale: per udirlo, deve chiudersi nella solitudine e nella meditazione. Michelangiolo, nella storia dell'arte, è il primo caso di artista isolato, quasi avverso al mondo che lo circonda ed a cui si sente estraneo, ostile. Raffaello a Roma vive come un principe, tra una corte di discepoli e di ammiratori: il suo studio è un organismo complesso e attivissimo, dove una scelta squadra di collaboratori variamente specializzati esegue, elabora, sviluppa, applica i disegni del maestro. Michelangiolo vive solo, poveramente malgrado le ricchezze che accumula; superbo con gli altri e sempre scontento di sé; assillato, specialmente da vecchio, dall'ansia della morte e della salvezza. "Non ho amici e non ne voglio", scrive al fratello: non ha neppure collaboratori e discepoli, affronta da solo imprese gigantesche. Un solo grande affetto, per Vittoria Colonna: un rapporto pura mente spirituale, che influisce profondamente sulla sua vita religiosa.

Scultore, pittore, architetto (e poeta), per tutta la vita mira ad un arte che sia la sintesi delle tecniche particolari e, superandole, realizzi il puro disegno, l'idea. Benché presenti periodi o cicli ben definiti, tutta l'opera di Michelangiolo appare concatenata: ogni singola opera riprende, rielabora, supera le esperienze delle precedenti. Per la prima volta l'arte è identificata con l'esistenza stessa dell'artista: come l'esistenza, è un'esperienza che si compie e non potrà dirsi compiuta che col compiersi dell'esistenza, con la morte. Perciò il pensiero della morte è presente in tutta la sua opera. Il sentimento, l'inquietudine del non-compiuto hanno anche una causa diretta: l'opera in cui l'artista voleva esprimere tutto se stesso, la tomba di Giulio II, non fu mai compiuta. Per trent'anni e più le contrastate vicende della tomba sono la tragedia della sua vita. L'aveva concepita, nel 1505, come il "monumento" classico della Cristianità: sintesi di architettura e scultura, fusione dell'"eroico" antico e dello "spirituale" cristiano, espressione del potere esercitato sul mondo e della sublimazione dell'anima in Dio, ma anche del ciclo storico che, aperto da Pietro al tempo dell'impero di Roma, culmina nell'impero spirituale, nell'autorità che Giulio II ha assicurato alla Chiesa. Il papa si entusiasmò del progetto, ma per vari motivi, ne differì l'attuazione (per la "invidia di Bramante et di Raffaele da Urbino", scrive Michelangiolo); dopo la sua morte, durante le complicate trattative con gli eredi, il progetto fu più volte modificato o interamente rifatto, finché l'artista stanco, ormai quasi vecchio, volto ad altri problemi, non si rassegnò alla soluzione minima del sepolcro che si vede in San Pietro in Vincoli: al cui centro è la statua del Mosè che l'artista aveva ideato e in gran parte eseguito molti anni prima per il mausoleo di San Pietro.

Michelangiolo accetta contro voglia l'incarico di decorare a fresco la volta della Sistina, che Giulio II gli affida nel 1508: sarà lui stesso, tuttavia, a sostituire a quello che gli era stato dato, il programma ben più complesso, tematicamente e figurativamente, dell'attuale decorazione. Per la prima volta la concezione dottrinale è dell'artista; per la prima volta l'architettura dipinta non è soltanto cornice, ma parte integrante dell'opera, con un proprio significato; per la prima volta tutti gli elementi figurativi si fondono in una sintesi voluta di architettura, pittura e scultura. La diversa grandezza delle figure nei riquadri al sommo della volta dimostra che l'artista non cerca un'unità prospettica e un effetto illusivo: probabilmente, da principio, non aveva neppure un progetto completo e l'opera è cresciuta col precisarsi del concetto nel corso del lavoro.

L'architettura non è soltanto riquadratura della superficie: incatena la volta con una successione di archi e, con i pronunciati sporti delle membrature, stabilisce diversi livelli di profondità per l'inserzione delle figure. Si ha il senso di una spinta verso l'alto perché la fascia con i Profeti e le Sibille pare il prolungamento delle pareti laterali; ma, al di sopra, lo spazio non sfonda, anzi si contrae nella stretta degli archi trasversali. Michelangiolo si propone di dare una struttura architettonica al vano della cappella; ma invece di svilupparla dal basso con un sistema di piedritti, la impone dall'alto, facendo così della volta, del cielo, la determinante dello spazio architettonico.

E il cielo non è, qui, lo spazio infinito oltre l'orizzonte terreno, ma è una costruzione dottrinale, il luogo ideale della genesi delle idee e del principio della storia. È sostenuto dai Profeti e dalle Sibille, che rappresentano i momenti dell'intuizione del divino. Gli Ignudi sui plinti non vedono il cielo, a cui volgono le spalle, ma, nell'agitazione che li anima, ne intuiscono la presenza: sono "geni", e probabilmente (come i nudi del tondo Doni) rappresentano il mondo pagano. Nel dipingere, al sommo, le storie della Genesi, Michelangiolo inverte l'ordine cronologico: comincia con l'Ebbrezza di Noè per giungere all'immagine solitaria dell'Essere Supremo, ma segue un ordine ideale perché il divino "appare prima abbozzato nella forma imperfetta dell'uomo imprigionato nel corpo (Noè) per poi progressivamente assumere una forma sempre più perfetta fino a divenire un essere cosmico" (Tolnay). "Al senso biblico della sua opera - nota sempre il Tolnay - volle sovrapporre un nuovo significato, un'interpretazione platonica della Genesi". Neoplatonico è infatti il pensiero dell'ascesa dell'anima all'intuizione del divino dai due fondamenti dottrinali del pensiero ebraico e del pensiero cristiano.

L'antitesi con gli affreschi che negli stessi anni e per lo stesso pontefice dipingeva Raffaello è evidente. Per Raffaello umanità e natura riflettono ugualmente la forma mentis del Dio creatore; per Michelangiolo la natura non esiste o è avversa come nel Diluvio, insidiosa come nel Peccato . La creazione stessa è un atto violento, lacerante: separa la luce dalle tenebre, la terra dalle acque. All'uomo (Creazione di Adamo) Dio comunica la propria potenza creativa: solo l'uomo, diceva Ficino, può decidere della propria natura. Il bello, come forma unica e immutabile, non esiste per Michelangiolo: dalle trecento e più figure della volta non può desumersi un canone. Sono tutte in atto di compiere un movimento che richiede uno sforzo, ma che non è azione, non ha uno scopo. Mirano semplicemente a contrastare il peso fisico delle masse, a trasformare la gravità in spinta. Naturalmente questi moti determinano forti contrasti di parti sporgenti e rientranti, illuminate e in ombra. Ma, per evitare una giustificazione "naturale", non v'è una condizione uniforme di luce: ogni figura ha la condizione di luce che determina col proprio scorcio: e lo scorcio non inserisce la figura in uno spazio comune, ma la chiude in un proprio bozzolo di spazio, la isola.

L'antico non è più il "classico", ma il "sublime". È antico tutto ciò che precede il cristianesimo storico: l'umanità antica è eroica e "sublime" perché, non avendo la rivelazione, ma solo un'oscura ispirazione divina, ha dovuto lottare e salvarsi da sé. Non è dunque un'umanità felice, ma tragica: com'è tragica la solitudine di Dio nello spazio vuoto del mondo non ancora creato. "Sublime" è appunto questo prendere coscienza senza o contro il mondo: una suprema grandezza che si paga con la suprema disperazione. Noè ebbro è un gran dio fluviale, l'immagine della forza impotente; i figli sono "genî"; il tino, la figura dello stesso Noè che pianta la vite sono temi georgici. È ancora una mitografia, come quelle di Piero di Cosimo; nelle figure nude si sente il ricordo del Pollaiolo. Poiché la dimensione è ancora quella classica del mito, la figurazione è concepita come un rilievo: il primo piano con le figure a sbalzo, un piano di fondo su cui la figura di Noè che zappa la terra si schiaccia e profila, un raccordo prospettico (il tino, la soglia della capanna) tra i due piani. Come nel rilievo, il risalto plastico della forma è dato, più che dal chiaroscuro leggero, dalla forza incisiva dei contorni. Anche il Sacrificio di Noè è, come un bassorilievo, composto su piani paralleli, la cui distanza è suggerita dal volume in iscorcio dell'ara cubica. Ma già nel Diluvio il mito dilegua ed emerge il tema eroico dell'umanità sola contro l'ira degli elementi scatenati dallo sdegno di Dio. Non c'è più uno spazio unitario, ma una quantità di frammenti disgiunti, corrispondenti ad altrettanti gruppi o nodi di figure avvinghiate. Il ritmo è spezzato, fatto di violente strappate tra pause dominate dalla tonalità livida e uniforme del grigio delle acque e del cielo. Nei gruppi l'intensità non è soltanto della linea, ma del chiaroscuro che si addensa, dei colori che spiccano con note stridenti, volutamente dissonanti. Michelangiolo non cerca l'unità o la fusione, ma l'urto e la contraddizione dei valori; non l'equilibrio ma la brusca dissociazione, quasi il reciproco negarsi di figure e natura. Troveremo l'ultima traccia della natura nell'albero del Peccato originale, sulla sinistra; ma dall'altra parte, dietro le figure degli scacciati, l'orizzonte è piatto e desolato, il deserto. Il peccato ha rotto il sodalizio tra l'uomo e il resto del creato; l'uomo è ormai solo nella sua impresa di riscatto; ma la causa della sua disgrazia, la superbia davanti a Dio (la übris classica) è anche la sua grandezza.

Terminata nel 1512 la volta, Michelangiolo riprende, alla morte di Giulio II, le sculture per la tomba; ma, come si vede nel Mosè o negli Schiavi, non cessa di meditare sul tema sistino dei Profeti e dei Nudi.

L'esperienza che si porta dentro non è soltanto tematica: dipingendo, ha trovato che il colore è una materia che può sublimarsi, diventare spazio e luce, senza tuttavia distruggersi, anzi esasperandosi. I legacci che avvincono gli schiavi sono deboli, ma un legame più profondo li unisce alla materia, alla pietra. Sui blocchi ruvidi dei sostegni la luce è trattenuta, immedesimata alla pietra; sulle superfici levigate, invece, la materia si assottiglia, si sublima in luce. Da un lato, dunque, la materia imprigiona nella propria fisicità il principio spirituale, la luce; dall'altro, il principio spirituale si libera dalla materia. Sono due momenti di un processo, il processo dell'esistenza: uno degli schiavi, il ribelle, si torce nello sforzo di liberarsi; l'altro, il morente, ha toccato la soglia della liberazione, e i muscoli si rilasciano, le membra si ricompongono. La soglia, s'intende, è la morte. Non soltanto la scultura rappresenta in immagine, ma attua nel processo del suo farsi questo trapasso dal materiale allo spirituale. Le parti scabre, non-finite, legano la figura allo spazio e alla luce naturale; le parti levigate, finite, partecipano di una luce e di uno spazio trascendentali.

Ecco perché Michelangiolo non vuole aiuti: l'arte è un'esperienza che deve essere personalmente, dolorosamente vissuta. Lo scultore non si serve del blocco per trarne una immagine che manifesti un concetto; attraverso l'immagine, ma soprattutto attraverso il proprio lavoro, redime il blocco dalla sua inerzia di materia, e così facendo compie un esercizio, un'esperienza ascetica, redime simbolicamente se stesso.

Ultimo soggiorno romano di Michelangiolo

Nel 1534 torna a Roma e, due anni dopo, dà principio al Giudizio universale, che sarà terminato nel 1541.

Per capire quest'opera, che riflette la crisi di una grande coscienza, bisogna pensare all'estrema intensità con cui Michelangiolo vive le situazioni storiche, e all'angoscia con cui vede avverarsi nella storia il destino tragico dell'umanità disgiunta da Dio e anelante al "ritorno". Ha veduto la fine di Firenze e, con essa, la fine dell'ideologia umanistica della libertà. La Roma che trova non è più quella che aveva lasciato, illusa nel sogno di restauratio classica di Leone X. Il "sacco" del 1527 ha dissipato il mito dell'immunità storica della città delle rovine e delle reliquie e dimostrato che la lotta religiosa è ben altro che una disputa dottrinale. Paolo III è il papa della Controriforma, sul piano del domma, ma anche della riforma della morale cattolica; e Michelangiolo è ora legato a Vittoria Colonna e al suo circolo di sostenitori della "riforma cattolica" secondo le idee del mistico spagnolo Juan de Valdés.

Il Giudizio è l'opera della crisi: ricapitola tutta l'opera precedente dell'artista, anticipa la successiva. Il nòcciolo tematico è quello della giovanile Centauromachia: un movimento di masse suscitato dal gesto divino; la tesi concettuale è l'identità di autorità e giustizia; il motivo tragico dominante è il destino dell'umanità, l'esito della storia. Dio giudice, nudo, atletico, senza alcuno degli attributi tradizionali di Cristo, è l'immagine della suprema giustizia, che neppure la pietà o la misericordia, rappresentata dalla Madonna implorante, può temperare. Rompendo con la tradizione iconografica, che collocava nel cielo Dio e la sua corte ed in basso, a destra e a sinistra, gli eletti e i reprobi, Michelangiolo concepisce la composizione come una massa di figure rotanti intorno a Cristo, la cui figura emerge isolata, in un nimbo di luce. Le figure nella parte alta sono santi e martiri; in basso, alcuni dannati lottano invano per sfuggire alla stretta dei diavoli, altri si pigiano sulla barca di Caronte, altri ancora si gettano sgomenti nel gorgo, e sulla sponda li attende Minosse. In alto, nelle lunette, angeli-genî recano i simboli della Passione, quasi invocando vendetta. Lo sgomento invade anche i beati: la giustizia divina è diversa dall'umana, solo Dio ne conosce i motivi; e ne è arbitro, come della grazia. E già in questo si nota come nella coscienza di Michelangiolo contrastino i motivi ideali dell'ortodossia e della riforma.

Malgrado l'estrema delicatezza del tema, non ha avuto consiglieri; il solo punto di riferimento è, specialmente per l'Inferno, Dante. Del resto, più che un conflitto dottrinale, il Giudizio è l'espressione dell'esperienza religiosa, della filosofia dell'artista. Nessuna facile morale del bene e del male, ma il contrasto tragico e sublime della colpa e della grazia: tutti sono colpevoli, tutti possono essere salvati. Tra Dio e umanità v'è una tensione inevitabile: l'umanità non è piccola e umile, ma gigantesca ed eroica, quasi superba, anche nella colpa e nella pena.

Dal punto di vista strettamente figurativo, si trattava di sostenere le grevi masse delle figure in uno spazio vuoto: bisognava dunque sviluppare entro le masse stesse una forza di spinta, un impeto di moto che le sottraesse all'inerzia, e riunire poi tutti i moti in unico ritmo, continuo, che legasse in un vortice rotante le cadute e le spinte. A sinistra tutto è faticosa salita, a destra discesa frenata; ma il giro è continuo, come il moto di una ruota, intorno allo spazio vuoto al centro. Ed è già la concezione dello spazio senza ordini di piani e di grandezze, quasi un gran vuoto generato da una forza centrifuga, che Michelangiolo realizzerà nell'ultima e più "sublime" delle sue opere, la cupola di San Pietro. Da questo momento comincia ad allontanarsi dalla scultura; nell'ultimo tempo della sua vita l'arte ideale è, per lui, l'architettura, la cui forma non esige la mediazione della figura umana e non implica la mimesi. Nei due affreschi, la Conversione di San Paolo e la Crocifissione di San Pietro, che dipinge nella cappella privata di Paolo III subito dopo aver terminato il Giudizio (1542-50), si ha appunto la crisi finale della "rappresentazione", cioè della figura (come natura e storia) e per conseguenza dell'entusiasmo per l'antico. Sono, apparentemente, due figurazioni "di storia"; in realtà raffigurano per exempla i due momenti essenziali della vita religiosa: la conversione e il martirio. L'anima che aspira all'incontro diretto con Dio si converte: rinuncia non solo alle vanità mondane e al peccato, ma anche a tutto ciò che si dà come manifestazione della volontà divina (la natura, la storia) e agisce quindi come mediazione tra l'anima e Dio. La mediazione, infatti, esclude il rapporto diretto. Per l'anima religiosa, poi, la morte è sempre martirio: non effetto di legge naturale, ma compimento consapevole dell'esperienza della vita, offerta di sé a Dio.

Negli affreschi della Paolina non v'è natura ma soltanto dietro le figure, un ripetersi di linee d'orizzonte: uno spazio senz'aria, pieno di una luce arida e quasi sabbiosa. E non v'è una storia raccontata con ordine, ma solo un infittirsi e diradarsi dei gruppi in uno spazio innaturale, dove anche la forza di gravità ha cessato di valere, dato che non v'è divario tra le figure in terra e quelle sospese nel vuoto. Sono quasi tutte in scorcio, ma la funzione dello scorcio è invertita: non inserisce le figure nello spazio dando loro una maggiore profondità, ma quasi le sottrae allo spazio, le restringe nei contorni contratti. Tipici esempi: lo scorcio teso, quasi una fuga all'orizzonte (ma vi corrisponde in alto lo scorcio del Cristo) del cavallo della Conversione; la figura rattrappita dell'uomo che scava il terreno per porvi la croce di San Pietro della Crocifissione. Lo scorcio, infine, è qui l'equivalente del non-finito della scultura: le figure non si inseriscono nello spazio, ma neppure si isolano come cose-in-sé, anzi si confondono, sbiadiscono in quell'aria senza tempo tinta: più che rappresentate sono evocate, ridotte a un contorno con una parvenza di colore. A loro volta i colori "stingono": ora esangui ora aspri e stridenti, formano un concerto pieno di dissonanze volute, e il loro ritmo è irregolare, fatto di pause e riprese improvvise, come il movimento delle figure lungo le diagonali divergenti. Per trovare un precedente a questa nuova metrica michelangiolesca, tutta tensioni e cadute, ed imposta ad un eloquio volutamente disadorno, bisogna risalire, molto più che alle precedenti opere pittoriche e plastiche, alle poesie: che sono appunto, nella maggior parte, di questi anni.

I due affreschi della Paolina rappresentano, insomma, il momento della lirica religiosa di Michelangiolo; cioè il momento in cui la poesia, verbale o visiva che sia, gli appare come un esercizio spirituale, una vera e propria pratica ascetica. È il momento di quella che, di lì a poco, Giordano Bruno chiamerà contractio animi. Ma è quanto mai significativo che anche Michelangiolo arrivi per una via tutta sua a quella adeguazione di pittura e poesia che, alla metà del Cinquecento, è uno dei temi dominanti delle poetiche figurative del Manierismo.

Nelle ultime opere di scultura il tema dominante è la pietà: non più intesa come compianto, ma come presentazione al mondo, affinché si vergogni delle proprie colpe, del corpo di Cristo morto. Ma l'artista stesso distrusse in parte la Pietà di Santa Maria del Fiore (poi ricomposta da Tiberio Calcagni), iniziata prima del 1550: forse proprio perché, malgrado il non-finito di molte parti, non giungeva all'altezza lirica delle pitture che conduceva, nello stesso tempo, nella Paolina. La raggiunge invece, attraverso un estremo tormento documentato dai pentimenti e dalle distruzioni lasciate in vista, nella Pietà Rondanini, a cui lavorava ancora pochi giorni prima di morire e che avrebbe dovuto esser posta sulla sua tomba. E qui il valore è dato proprio dal suo essere presentata come un frammento: quasi un pensiero che non può essere espresso se non per frasi mozze e per accenti tronchi, per sùbiti attacchi ritmici che altrettanto subitamente si spengono.

L'attività architettonica è, negli ultimi anni, intensissima. Progetta la ricostruzione a pianta centrale della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini: il monumento della sua "nazione", che avrebbe dovuto fare riscontro, dall'altra parte del Tevere, a San Pietro e a Castel Sant'Angelo; disegna la cappella Sforza in Santa Maria Maggiore; costruisce la porta Pia; dà sistemazione prospettica e monumentale alla piazza del Campidoglio, centro ideale della città storica allo stesso modo che San Pietro è il centro ideale della città religiosa; riprende ed imposta da capo il problema della ricostruzione di San Pietro. Sono queste ultime le due imprese fondamentali; ed implicano una concezione largamente urbanistica, un'interpretazione nuova e profonda del significato storico e religioso di Roma. Alta sulle rovine del Foro, contigua alla chiesa medievale dell'Aracoeli, la piazza capitolina ha una prospettiva rovesciata per l'inclinazione divergente dei due palazzi che lateralmente la chiudono; il palazzo che occupa il terzo lato viene così inquadrato e ravvicinato, sì da colmare la veduta che si ha dell'insieme dal lato frontale aperto, determinato soltanto dalla bassa linea della balaustrata, interrotta dall'imbocco della gradinata. Viene spontaneo il confronto con la Laurenziana: uno spazio prospettico definito plasticamente dai suoi limiti, le pareti laterali. Qui sono le facciate del palazzo dei Conservatori e del palazzo dei Musei: due poderosi telai formati da un solo ordine di pilastri e da due cornici orizzontali. In basso le aperture profonde, architravate, del portico; in alto, le cornici sporgenti delle finestre: un contrasto, dunque, tra una spinta in fuori, quasi una presa sullo spazio vuoto della piazza, e una ripetuta fuga in profondità. Poiché il vano è aperto, il raccordo tra il vuoto e la spazialità addensata nella forte plastica delle pareti laterali è stabilito dal disegno del pavimento, originariamente costituito da ellissi intrecciate con al centro la statua antica di Marco Aurelio.

Per San Pietro, Michelangiolo scarta i progetti elaborati da Raffaello, dal Peruzzi, dal Sangallo, e ritorna alla pianta centrale bramantesca: ma raccoglie i corpi in un unico organismo plastico che, con un crescente affrancarsi della spinta sul peso, si conclude nella grande cupola, che riassume e conclude tutto l'edificio. Quale significato avesse, per l'artista, quest'ultima colossale impresa si vede anche dalle sue lettere: teme di non riuscire a finirla, e il non finirla sarebbe c olpa e vergogna. Nell'idearla, ha certamente pensato alla cupola del Brunelleschi per Santa Maria del Fiore che, come diceva l'Alberti, era ampia da coprire con la sua ombra tutti i popoli toscani; la sua sarà ampia da coprire tutti i popoli cristiani. Portata in alto dai corpi laterali che le si stringono intorno, si imposta su un tamburo con grandi finestre tra coppie di colonne fortemente sporgenti; è come una ruota dentata che morda nello spazio libero del cielo. Al di sopra, la curva della calotta (forse non esattamente interpretata da chi, dopo la morte del maestro, diresse la costruzione) esprime ad un tempo il peso della massa e il suo rianimarsi e tradursi in spinta verso l'alto con la tensione dei costoloni. All'interno, le coppie di pilastri piatti del tamburo non incastrano la forma nello spazio, come le colonne all'esterno: il loro ripetersi suggerisce invece un moto rotatorio, centrifugo che dà alla cavità della calotta la continuità di un perenne girare intorno al centro prospettico-luminoso della lanterna. È precisamente, ma proiettata in altezza, la stessa idea spaziale che si esprimeva, più drammaticamente, nel Giudizio; ma, appunto, il dramma è più vicino alla conclusione, alla catarsi finale. E infatti, anche nella storia dell'ispirazione che trascorre ansiosa nell'opera di Michelangiolo, la cupola è la catarsi: la catarsi del dramma dell'opera mai finita, la tomba di Giulio II. Sorge nello stesso sito, il sito sacro della tomba dell'Apostolo; è il centro ideale dello stesso edificio, il monumento simbolico dell'ecumene cristiana. Dell'ammasso di figure che cercavano di liberarsi dal peso opprimente della materia, rimane solo l'impulso all'ascesa: al "prologo in terra" della tomba succede l'"epilogo in cielo" della cupola.

GIULIO CARLO ARGAN - Storia dell’Arte Italiana