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Caravaggio a Roma

Vita e opere

Chiesa di San Luigi dei Francesi: Il Martirio di San Matteo - Caravaggio
Chiesa di San Luigi dei Francesi: Il Martirio di San Matteo - Caravaggio

1. GALLERIA BORGHESE
Piazzale del Museo Borghese 5

Il Giovane con la canestra di frutta

Il Bacchino malato

La Madonna dei palafrenieri

San Girolamo

Davide con la testa di Golia

San Giovannino

2. CASINO LUDOVISI
Via Lombardia 46

Giove, Nettuno e Plutone sulla volta del camerino del laboratorio alchimistico

3. CONVENTO E CHIESA DI SANTA MARIA DELLA CONCEZIONE
Via Veneto 27

San Francesco in meditazione

4. PALAZZO BARBERINI Galleria Nazionale d'Arte Antica
Via Barberini 18

Decapitazione di Oloferne

Il Narciso

5. GALLERIA DORIA PAMPHILJ
Piazza del Collegio Romano 2

Il Riposo dalla fuga in Egitto

La Maddalena

San Giovanni Battista

6. MUSEI CAPITOLINI: Pinacoteca Capitolina
Piazza del Campidoglio

La Buona Ventura

San Giovanni Battista

7. CHIESA DI SAN LUIGI DEI FRANCESI
Piazza San Luigi dei Francesi 5

La Vocazione di San Matteo

Il Martirio di San Matteo

San Matteo e l'Angelo

8. CHIESA DI SANTAGOSTINO
Piazza Sant'Agostino

La Madonna dei Pellegrini

9. CHIESA DI SANTA MARIA DEL POPOLO
Piazza del Popolo 12

La Conversione di San Paolo

La Crocefissione di San Pietro

10. MUSEI VATICANI: Pinacoteca Vaticana
Viale Vaticano 100

La Deposizione di Cristo

11. GALLERIA CORSINI
Via della Lungara 10

San Giovanni Battista nel deserto

Vita e Opere di Caravaggio

Periodo romano:

Il primo periodo romano I primi anni a Roma (1593-95) vedono Caravaggio alle prese con un difficile inserimento nell’ambiente artistico e delle committenze della città. I biografi parlano di un periodo di miseria in cui l’artista si prova a risiedere dapprima presso monsignor Pandolfo Puci di Recanati, per il quale eseguí alcune «copie di devozione»; quindi passò a bottega di un capocciante, Lorenzo Siciliano, facendovi «teste per un grosso l’una», mentre, una volta trasferitosi presso Antiveduto Grammatica, si mise a dipingere «mezze figure»; ancora un cambio di residenza, questa volta presso il piú noto Cavalier d’Arpino, da cui «fu applicato a dipinger fiori e frutti». Dopo un altro breve spostamento in casa di monsignor Fantin Petrignani, finalmente, nel 1595, incontra il pittore Prospero Orsi che lo introdurrà presso il cardinal Del Monte, suo primo importante committente.

Dietro al quadro cosí desolante tramandato dai biografi e al poco conto che questi sembrano attribuire alle prime prove romane del Merisi, si cela in realtà una certa reticenza a considerare quadri che, per soggetto e stile, dovevano già apparire come fortemente innovativi, soprattutto se si tiene presente il carattere decorativo, celebrativo e accademico dell’arte ufficiale romana del tempo. Poche sono le opere rimasteci di questo periodo e la maggior parte di esse pone problemi di critica: ormai comunemente accettate come autografe il Giovane con canestra di frutta (Roma, Gall. Borghese; datata, in base all’inventario dei dipinti sequestrati al Cavalier d’Arpino, al periodo di permanenza del Merisi nella bottega del pittore) e il Bacchino malato (Roma, Gall. Borghese; restituito a Caravaggio dal Longhi e identificato come possibile autoritratto del pittore dopo la degenza presso l’ospedale della Consolazione), piú problematiche risultano il Fanciullo che monda la pera (di cui si conoscono diverse copie di un originale oggi perduto), il Fanciullo morso da un ramarro (anch’esso noto attraverso copie) e il Giovane con i fiori (risultante nell’inventario Borghese del 1693, oggi perduto).

In queste prime opere Caravaggio, pur poggiando saldamente sulla sua formazione lombarda, procede a uno stravolgimento delle ormai canoniche classificazioni accademiche in merito ai temi e al modo di trattarli, per concentrarsi, con un’energia del tutto nuova, su pochi elementi tratti dalla realtà. Nasce cosí la metafora dello specchio, di una pittura cioè «come specchio della realtà o, per converso, la realtà vista allo specchio da un occhio che sa inclinarlo quanto occorra al sentimento dell’ora» (Longhi), ovvero di una realtà che il pittore non si limita a copiare ma in cui esso stesso si specchia caricandola, pur nel fermo proposito di rimanere fedele al vero, di valenze simboliche e riferimenti culturali. E che dietro all’attenzione quasi allucinata che il pittore dedica anche ai piú piccoli particolari di quella verità, debbano esservi un movente ideologico e una volontà morale, è idea su cui la critica recente è piú volte tornata, sfatando il presunto carattere popolare e ingenuo di questa prima produzione.

Cosí, in opere come il Bambino malato e il Fanciullo morso da un ramarro, sono stati messi in evidenza i riferimenti alla statuaria classica o alla teoria degli affetti particolarmente diffusa al Nord. Piú in generale tutta la prima produzione è stata letta in chiave simbolica: come allegoria dei sensi (Spear), come riflessione morale (Salerno), come allegoria cristologica e dell’amore divino in riferimento al Cantico dei Cantici (Calvesi); o infine vi si è visto il preciso intento, da parte del Merisi, di riportare ad un tono medio soggetti solitamente trattati in toni sublimi e idealizzati (Gregori). Nel 1595-96 si colloca una svolta importante per la vita e l’arte del Caravaggio: a questa data il pittore viene infatti introdotto, tramite l’amico Prospero Orsi, presso Francesco Maria del Monte, nel palazzo del quale si trasferirà, abitandovi per alcuni anni. Nel cardinale egli trovò un protettore di profonda cultura, un uomo influente e ben inserito negli ambienti politici e religiosi del tempo, capace di introdurlo in una cerchia di committenti e protettori che rimarrà di fondamentale importanza per lo sviluppo culturale e artistico del pittore. Ma soprattutto nel Del Monte Caravaggio trovò un appassionato intenditore d’arte e un importante collezionista.

In base all’inventario della sua collezione pubblicato dal Frommell, conosciamo con esattezza le opere del Merisi da questi possedute: otto, di cui cinque certamente eseguite nel periodo giovanile: il Concerto di giovani (New York, mma), il Suonatore di liuto (Leningrado, Ermitage), San Francesco che riceve le stimmate (Hartford, Wadsworth Atheneum), i Bari (Forthworth Tex., Kimbell Art Museum) e la Buona ventura (due versioni di cui una a Roma, Pinacoteca Capitolina, e l’altra, forse di poco successiva, a Parigi, Louvre). Le opere di questo periodo rivelano un progressivo sviluppo dell’arte di Caravaggio che, sotto gli stimoli culturali del suo committente, tende progressivamente ad una maggior complessità di temi e ad uno stile piú idealizzante. Su una matrice ancora fortemente lombarda (Moretto, Savoldo e Peterzano) si inseriscono spunti classicheggianti, come l’indugiare sui panneggi, l’inserimento di figure piú astratte (l’angelo del San Francesco che riceve le stimmate o l’Eros del Concerto di giovani) di una bellezza efebica (Suonatore di liuto). Parallelamente vengono proposte tematiche piú elaborate: soggetti espressamente allegorici (il Concerto di giovani che, con l’introduzione di Eros, si lega al binomio amore-musica di ascendenza veneta), la tematica musicale (ancora il Concerto di giovani e il Suonatore di liuto) e, per la prima volta, un soggetto religioso (San Francesco che riceve le stimmate; infine, nella Buona ventura e nei Bari, l’artista affronta scene piú complesse in cui alla tranche de vie si accompagna un più sottile studio psicologico.

Ancora per il Del Monte dipinse, secondo la testimonianza del Bellori, il soffitto del Casino nel Giardino Ludovisi, utilizzato dal cardinale per esperimenti scientifici e alchemici. Il dipinto (ad olio su muro), rappresentante Giove, Nettuno e Plutone, per il cattivo stato di conservazione ha posto problemi alla critica che non è unanime nel riconoscervi l’autografia caravaggesca; propendono per un’attribuzione al Caravaggio: M. Calvesi che, in relazione alla funzione del Casino e agli interessi scientifici del cardinale, ne dà una lettura in chiave alchemica; M. Gregori, che vi riconosce l’influsso della formazione lombarda; Spezzaferro, che lo pone in relazione agli studi prospettici coltivati dal Del Monte e dal fratello Guidobaldo; Salerno. Capolavoro del periodo giovanile è il Bacco (Firenze, Uffizi); il quadro venne riscoperto dal Longhi che lo datò tra le prime opere del Caravaggio, mentre il Mahon lo considerò opera che apre la fase matura del pittore (1595-96 o ’96-97); quest’ultima datazione è per lo piú seguita dalla critica odierna (Frommell suppone che il quadro provenisse originariamente dalla collezione Del Monte).

Come nelle opere precedenti, Caravaggio parte da un’osservazione realistica del suo modello, dalle guance paonazze e dalle unghie sporche, indugia sulla natura morta in primo piano descrivendo con minuzia le diverse qualità della frutta, le mele bacate, le foglie secche; ma accanto a questa fedeltà al vero emerge una spinta idealizzante che si risolve attraverso il riferimento alla statuaria classica; cosicché le fattezze molli ed efebiche del giovane Dioniso, piú che da intendersi come allusioni a messaggi omoerotici, possono essere paragonate a rappresentazioni del dio di età tardoantica. La tensione idealizzante si accompagna a una carica simbolica riassunta in quel gesto di offrire il calice che ha fatto supporre un riferimento al sincretismo paleocristiano tra iconografia dionisiaca e quella del Cristo redentore (Calvesi, 1971). Ancora chiaramente decifrabile, in quest’opera, è l’influenza della formazione bresciana, soprattutto nella resa plastica ottenuta con il ricorso a forti contrasti di colore e nella luce morbida che avvolge i corpi e le cose e li modella: caratteristica, questa, propria di tutte le opere giovanili del Merisi. «Da cui [il d’Arpino] fu applicato a dipinger fiori e frutti sì bene contraffatti, che da lui vennero a frequentarsi à quella maggior vaghezza, che tanto oggi diletta».

Di questa produzione giovanile di nature morte non ci resta nulla se si eccettuano i tre quadri (due a Roma, Gall. Borghese, e uno a Hartford, Wadsworth Atheneum) raggruppati da F. Zeri in base all’inventario dei dipinti sequestrati al d’Arpino e sui quali tuttavia la critica è divisa (alcuni studiosi propendono per un’attribuzione all’Accademia dei Crescenzi; le tre Nature morte sono state esposte nel 1985, con incerta attribuzione al Caravaggio, nella mostra The Age of Caravaggio: New York, mma). Documento certo e straordinario di questa attività dell’artista è la Canestra di frutta (Milano, Ambrosiana), opera appartenuta a F. Borromeo (menzionata nel codicillo testamentario del 1607 e descritta nell’atto di donazione della raccolta all’Ambrosiana) che probabilmente la acquistò direttamente dal Caravaggio e non, come prima si credeva, tramite il Del Monte (la lettera comprovante il dono da parte dei Del Monte si riferiva in realtà ad orologi; d’altra parte il Borromeo era presente a Roma fino al 1601 (Calvesi, 1973)). Il genere della natura morta, di origine nordico-fiamminga, si andava diffondendo in Italia (particolarmente al Nord), trovando proprio nel Borromeo e Del Monte due appassionati sostenitori. Tuttavia, rispetto ai prototipi nordici, la Canestra di Caravaggio possiede una prodigiosa sinteticità di visione, lo stile e la composizione ne fanno un «ritratto» di pari dignità con rappresentazioni di personaggi («e il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure », scrive il Bellori).

La visione lenticolare dei particolari non diviene mai descrizione grazie a una studiatissima composizione che si fonda su contrapposizioni di colori; la natura, colta nella sua flagrante realtà, rivela se stessa e il significato simbolico di cui è investita. Tra il 1598 e il 1599 Caravaggio vede allargarsi notevolmente il giro delle sue committenze, è in questi anni che riceve i primi incarichi importanti e la sua fama comincia a circolare tra gli ambienti romani. Le opere di questo periodo non rivelano un percorso coerente ma sperimentazioni diverse in concomitanza con prove che vedono l’artista impegnato in composizioni piú complesse. Accanto a quadri ancora di soggetto mitologico (la Medusa (Firenze, Uffizi), opera appartenuta al Del Monte che ne fece dono al granduca di Toscana, e Narciso (Roma, gnaa), opera ignorata dalle fonti e restituita al Caravaggio dal Longhi ma di discussa attribuzione) il pittore affrontò la sacra rappresentazione (Riposo dalla fuga in Egitto: Roma, Gall. Doria) e il quadro d’azione (Giuditta che decapita Oloferne (Roma, gnaa), da identificarsi con un quadro eseguito per O. Costa). In quadri come il Riposo dalla fuga in Egitto (in cui piú volte è stata sottolineata l’ascendenza lombarda e lottesca e sono stati individuati rapporti con opere di Annibale Carracci e J. Caraglio), la Maddalena penitente (Roma, Gall. Doria) e Narciso prevale l’intonazione malinconica e meditativa, sottolineata dalle figure rinchiuse in un circolo, come assorte in un dialogo silenzioso con se stesse e dalla luce che le illumina fino a raggiungerle nello spirito.

Nella Medusa e nella Giuditta, invece, il dramma esplode in una mimica espressiva, nell’azione violenta, colta al suo culmine, e annuncia quella tematica «dell’urlo» che troverà sviluppo nelle opere seguenti. Opera ancora tra il sacro e il profano è il San Giovanni Battista (Roma, Pinacoteca Capitolina; eseguito per Ciriaco Mattei), dove il soggetto religioso viene trattato con estrema sinteticità di simboli (tanto che alcuni critici hanno voluto addirittura mettere in dubbio che si tratti di un soggetto sacro), mentre su tutto prevale un senso di letizia fisica e spirituale. Tenendo presenti alcune peculiarità stilistiche, come la presenza di moduli manieristici (il ricordo degli ignudi michelangioleschi) e l’ispessirsi della zona d’ombra (quell’ingagliardirsi degli scuri, come lo definí il Bellori), l’opera è solitamente datata al 1599-1600, in prossimità dei laterali di San Luigi dei Francesi. Le grandi commissioni sacre Nel luglio del 1599, probabilmente per intercessione del suo potente protettore, Caravaggio riceve la commissione dei due quadri laterali per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi; nel dicembre 1600 le due grandi tele, rappresentanti la Vocazione di san Matteo (a destra) e il Martirio di san Matteo (a sinistra), erano già collocate sul posto. Nella Vocazione Caravaggio mette in scena, quasi tra quinte di teatro, alcuni gabellieri intenti a contare il denaro, mentre sulla destra, accompagnato da un forte fascio di luce – luce di grazia e salvazione – fa ingresso il Cristo e al suo seguito san Pietro che ne ripete il gesto solenne di chiamata (esami radiografici hanno dimostrato che la figura del santo, simbolo della Chiesa portatrice della parola di Cristo e della grazia divina, fu aggiunta dall’artista in un secondo momento). Il Martirio ebbe, come testimoniano gli esami radiografici, un’esecuzione piú elaborata in successive redazioni fino a quella finale in cui l’artista riuscì a comporre mirabilmente la concitazione dei fedeli radunati nella chiesa, con il dramma in fieri dell’uccisione del santo.

Gli astanti si ritraggono ai lati del quadro mentre la scena di martirio è collocata al centro e illuminata da una luce intensa che colpisce san Matteo e si riflette sul corpo del suo carnefice. Servendosi di numerosi suggerimenti tratti da quadri di Tintoretto, Annibale Carracci, Raffaello e Michelangelo, il pittore dà vita ad una composizione macchinosa in cui vengono rielaborati e assimiliati moduli manieristici. Piú complessa la vicenda della pala d’altare della Cappella, con San Matteo e l’angelo, di cui Caravaggio eseguì due differenti versioni (la prima acquistata dal marchese Giustiniani, già a Berlino, è andata distrutta). I documenti infatti non parlano delle due diverse versioni, ma semplicemente riferiscono della decisione presa dagli esecutori testamentari del Contarelli di sostituire la statua del San Matteo di J. Colabaert con un dipinto del Caravaggio (febbraio 1602) e del saldo al pittore avvenuto nel settembre 1602. In base a questi dati la critica non è concorde nella datazione del primo San Matteo (il Longhi lo datava agli anni giovanili, 1602 per la Cinotti, 1600-1601 per Calvesi, 1599 per Spezzaferro), mentre certamente il secondo fu eseguito nel 1602. La vicenda della prima versione è riferita dal Bellori, che la pone a capo di tutta una serie di opere rifiutare al pittore a causa della loro presunta indecorosità; nel San Matteo, in particolare, avevano offeso i tratti rudi e contadineschi della figura «che non haveva aspetto di santo».

Rispetto alla seconda versione il quadro di Berlino pone l’accento sull’origine umile dell’Evangelista analfabeta che guarda con meraviglia la sua mano, materialmente guidata dall’angelo, scrivere i versi ebraici del Vangelo. Nella redazione definitiva, invece, viene piuttosto sottolineata – mediante il computo digitale dell’angelo – la priorità del vangelo di Matteo rispetto a quelli successivi; allo stile plastico ed energico della prima invenzione succedono un’intonazione piú classicista, uno stile piú composto e ufficiale ma anche piú freddo. Appena terminati i laterali di San Luigi, nel settembre 1600, il Merisi riceve un secondo incarico importante: i due dipinti (Crocefissione di san Pietro e Caduta di Saulo) per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. La commissione riguardava due tavole mentre i due quadri, consegnati già nel novembre 1601, sono eseguiti su tela. Nell’arco di un anno Caravaggio eseguì quindi due versioni dello stesso soggetto (le prime, su tavola, vennero rifiutate – secondo Mancini – e ritirate dal cardinal Sannesio). La prima redazione della Caduta di Saulo (coll. Odescalchi-Balbi; attribuita a Caravaggio da Argan e in cui alcuni critici hanno visto un’opera giovanile indipendente dai laterali della Cappella Cerasi) fu rifiutata forse per quel precipitarsi troppo ardito del Cristo in carne ed ossa sul corpo del Santo; essa presenta, soprattutto se confrontata con quella definitiva, uno stile ancora legato alle esperienze giovanili (nel suo carattere marcatamente lombardo) e, allo stesso tempo, il ricorso a moduli manieristici che l’avvicinano al Martirio di san Matteo.

I due quadri oggi nella cappella segnano un ulteriore sviluppo nel percorso artistico del Caravaggio, pienamente risolta vi appare la tematica luministica avviata nei quadri precedenti, di una luce simbolica e rivelatrice. La composizione, rigidamente impostata su diagonali, blocca il dramma colto nel suo momento culminante. Intorno a questi due altissimi capolavori la critica ha radunato una serie di opere in cui si riflette ili segno della maturità stilistica dell’artista: al periodo della Cappella Contarelli (per analogie con il primo San Matteo) se non prima, al 1600 è datata la Cena in Emmaus (Londra, ng) nella quale il Cristo risorto appare nell’inconsueta iconografia, di ascendenza lombarda, di giovane imberbe, con probabile allusione alla vita eterna di cui è promessa. Al 1603 ca., in base a documenti, risalirebbe invece il Sacrificio di Isacco (Firenze, Uffizi) mentre certamente tra il 1602 e il 1603 si colloca l’Amore vittorioso (Berlino, Staatliches Museum, eseguito per il marchese Giustiniani). Si tratta ancora di un’immagine di letizia, come già nel San Giovannino, di una letizia pagana questa volta (tanto da essere stato per questo variamente interpretato come «amore profano» o «amore virtuoso»). Ormai la fama di Caravaggio è al suo culmine e un nuovo contributo ad essa è dato dalla Deposizione (1602-1604: Roma, pv) che l’artista eseguì per la chiesa degli oratoriani di Santa Maria in Vallicella, su commissione di Pietro Vittrice. Nell’opera sono riassunte e massimamente espresse le caratteristiche dello stile maturo del Caravaggio (avviatosi nei laterali di San Luigi ma ancor piú in quelli della Cappella Cerasi): vi si ritrova il movimento bloccato dagli assi della composizione in scorci arditi, l’evidenza plastica dei corpi e delle cose che emergono dal buio in toni accesi di colore, l’invenzione infine di un nuovo classicismo fatto di essenzialità e di una solennità che nasce dalla realtà stessa, nel momento in cui questa viene rivelata dalla luce (l’armonia di quest’opera strappò parole di lode persino all’intransigente Bellori). E ancora una volta si tratta di una realtà fatta di sentimenti e affetti studiatissimi e di significati non allusi o sottintesi ma semplicemente riassunti nel pietrone su cui poggia l’intero gruppo – la pietra su cui nascerà la Chiesa – e che la mano di Cristo sembra indicare. Tra il 1603 e 1605 si distribuiscono una serie di opere di difficile ricostruzione critica: al 1603 è solitamente datato il San Francesco in meditazione (in relazione al prestito di un saio fatto al pittore dal Gentileschi; la critica è tuttavia divisa nell’attribuire l’autografia all’esemplare di Roma – Santa Maria della Concezione – o a quello di Carpineto Romano).

Il motivo della malinconica meditazione sul tema del memento mori viene riaffrontato anche nel San Gerolamo penitente (Barcellona, Museo di Monserrat; di attribuzione non concordemente accettata, datato al 1605-1606 ca.) e nel San Gerolamo scrivente (Roma, Gall. Borghese; di uguale datazione). Lo stesso sentimento prevale anche nel San Giovanni Battista (1603 ca.: Roma, gnaa), mentre si fa drammatico, per il violento contrasto chiaroscurale, nel San Giovanni Battista di Kansas City (am). Intorno al 1604-1605 (come risulta da documenti recentemente rinvenuti da R. Barbiellini Amidei) Caravaggio eseguí per il monsignor Massimi un’Incoronazione di spine (identificata da M. Gregori con il quadro oggi a Prato, Cassa di Risparmio e Depositi) e un Ecce Homo (con probabilità si tratta del dipinto reso noto dal Longhi; Genova, Galleria comunale di palazzo Rosso; due versioni di un diverso Ecce Homo in collezioni romane sono forse derivate da una successiva versione eseguita sempre per il Massimi (Calvesi)). L’ultima fase romana e la fuga Seguono, improvvisi, anni difficili per il pittore che vede le sue opere criticate e rifiutate; viene coinvolto in un’aggressione; e, infine, l’uccisione di un avversario al gioco gli procura la condanna capitale e lo costringe a una precipitosa fuga da Roma (29 maggio 1606).

Entro il marzo 1606 Caravaggio aveva eseguito la Madonna di Loreto (iniziata forse già nel 1604 quando il pittore è documentato nelle Marche, a Tolentino) per la Cappella Cavalletti in Sant’Agostino. La Madonna, di una bellezza statuaria, appare sulla soglia della sua casa offrendo se stessa e il Bambino all’adorazione dei due umili pellegrini; la sua figura che emerge dall’ombra sembra quasi quella di «un’antica statua che, al calore di quell’umile devozione, si stia rincarnando e facendosi viva» (Longhi). La scelta tematica doveva risultare ardita: il pittore sembra infatti invitarci ad osservare l’evento sacro con gli occhi un po’ stupiti dei fedeli piú poveri, a sentire la sua religiosità attraverso e in comunione con quei due pellegrini dai piedi sporchi. E le critiche questa volta non furono risparmiate; puntualmente registrate dal Bellori esse si appuntavano sui piedi fangosi dei due devoti, sui loro abiti sdruciti: «e per queste leggerezze in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, dè popolani ne fu fatto estremo schiamazzo». Ma la pala piacque ai committenti che nel marzo del 1606 la collocarono sull’altare della cappella. Diversa fu la vicenda delle due opere seguenti: la Madonna dei palafrenieri e la Morte della Madonna. La prima, eseguita per l’altare di Sant’Anna dei Palafrenieri in San Pietro (1605-1606; oggi a Roma, Gall. Borghese), rimase nella basilica per soli due giorni, dopo i quali venne ritirata per passare ben presto nella collezione del cardinal Borghese. La Morte della Madonna (Parigi, Louvre), eseguita per la Cappella Cherubini in Santa Maria della Scala poco prima della fuga da Roma, inaugura una nuova fase della pittura di Caravaggio destinata e svilupparsi nelle opere successive del periodo napoletano. Il corpo della Vergine, disteso su una semplice tavola, è attorniato dagli apostoli e dalla Maddalena, ritratti in diverse espressioni di dolore (in cui è ancora uno studio sulla resa degli affetti); il grande spazio lasciato vuoto, nella parte superiore del quadro, e il rosso fiammeggiante del drappo, amplificano l’effetto corale della scena. La pala fu immediatamente respinta dal clero perché «aveva fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe scoperte» (Baglione) o per «havervi troppo imitato una Donna morta gonfia» (come riferisce ancora una volta il Bellori).

I due rifiuti, a parte la pretesa mancanza di decoro addotta dai biografi, sono indice di un clima fattosi ostile intorno al pittore (probabilmente anche in seguito all’elezione del nuovo papa Paolo V, di orientamenti religiosi ostili nei confronti delle correnti riformistiche e pauperistiche a cui Caravaggio era invece legato) e che, a seguito dell’omicidio di cui questi si rese colpevole, divenne in breve insopportabile, tanto da costringerlo a riparare nei feudi Colonna a Zagarolo. A poco prima della fuga o subito dopo (poiché le fonti la dicono inviata da Zagarolo al marchese Patrizi) risale la Cena in Emmaus (Milano, Brera) in cui viene ripreso lo schema compositivo di quella giovanile di Londra, ma con differenze stilistiche che la datano a questi ultimi momenti romani. Certamente al periodo del soggiorno presso i Colonna è databile la Maddalena in estasi (citata dalle fonti e di cui si conoscono numerose copie di un originale perduto).... nel luglio 1610, mentre tornava a Roma sperando nella grazia (possibile per l’intercessione del cardinale F. Gonzaga), durante una sosta a Porto Ercole, Caravaggio muore; la grazia arriverà, ma troppo tardi.

Storia dell’arte Einaudi

Luce e tenebre

Mentre Annibale e Agostino Carracci nella galleria di Palazzo Farnese dipingevano favole antiche con ricercata eleganza raffaellesca, un pittore lombardo metteva a scompiglio con forme inattese, la quieta corrente dell'arte romana, e, dapprima irriso, e bandito dal mondo ufficiale, finiva per attirare intorno a se quasi tutti i giovani pittori. Era questi Michelangelo Merisi da Caravaggio, venuto a Roma dopo aver formata in Lombardia e a Venezia la sua educazione, ma a differenza dagli eclettici bolognesi, conservando un atteggiamento proprio e indipendente, all'epoca in cui Sisto V dava così grande impulso alle costruzioni, e una moltitudine di pittorucci, senza anima e senza vigore, stampavano sulle pareti dei nuovi palazzi e delle nuove chiese le loro manierate decorazioni, e tra essi gli Zuccari e il Cavalier d'Arpino primeggiavano. Caravaggio, in cerca di fortuna, si collegò con quest'ultimo, abilissimo frescante e carico di commissioni, e intanto dipingeva per suo conto quadri di genere e ritratti che trovavano favore tra i mercanti e gli amatori. Nell'occasione che Francesco Cointerel, nipote del cardinal Matteo gran benefattore della chiesa di S. Luigi dei Francesi, faceva decorare in quel tempio una cappella, Michelangelo da Caravaggio si trovò a lavorare insieme col d'Arpino. Questi colorì nella volta in tre piccoli scomparti, e a Caravaggio fu affidato il compito di dipingere il quadro dell'altare, e due tele sulle pareti laterali. Ma il giovane pittore lombardo non assolse il suo compito con soddisfazione del committente, e anzi suscitò un vero scandalo, poiché i preti fecero togliere dall'altare il suo quadro rappresentante S. Matteo in atto di scrivere il Vangelo sotto l'ispirazione dell'angelo, perchè l'apostolo era figurato senza "decoro né aspetto di santo stando a sedere con le gambe incavalciate, e co' piedi rozzamente esposti al popolo". E in verità nulla di simile si era veduto mai, e i preti di S. Luigi, avvezzi alle forme iconografiche tradizionali, avevano ragione di protestare. S. Matteo in quel dipinto, che oggi è al Museo di Berlino, appariva troppo grossolano, troppo umano, e l'alata bianca figura che gli stava a fianco, non bastava a correggerne la rude umanità; era anzi essa stessa troppo vicina all'uomo, perché gli angeli, si sa, debbono volare, e non poggiare sulla terra, E Michelangelo dovette così rifare il suo quadro, figurandovi il santo che interrompe la scrittura del libro sacro, per volgersi all'angelo, che questa volta scende dal cielo ad ispirarlo, composizione più consona alla tradizione, più degna del luogo. Sulle pareti laterali, in due grandi tele figurò la Vocazione di Matteo, che siede al suo tavolo di pubblicano con varie persone, ed è chiamato dal Maestro col gesto della mano; e il Martirio dell'apostolo, ferito sui gradini dell'altare da un manigoldo, tra figure di spettatori atterriti, mentre un capitano impennacchiato alla spagnola dà ordini levando la spada, e un angelo scende a portare al santo la palma, restando librato in alto, poggiato sulle nuvole, come su un solido sostegno.

Invero anche questi due quadri non son fatti per ispirar devozione; il primo sembra piuttosto una scena profana di osteria, dove siedono alla stessa tavola di Matteo tipi di scherani e di avari, così che se ci fossero i boccali del vino parrebbe di trovarsi dinanzi ad uno di quei dipinti di cui si compiacciono i maestri olandesi, dove lanzichenecchi ubriachi si appoggiano coi gomiti sulla tavola, e dalla finestra piove un fascio di luce che li intaglia nella penombra dell'interno. Anche qui la scena è avvolta in una semioscurità, e c'è un giovane dal giubbetto a strisce, visto di spalle, seduto alla brava su uno sgabello, e un vecchio avaro che si regge gli occhiali per contar bene i denari versati a Matteo. Certo in un quadro sacro non si era visto mai nulla di simile, e lo strepito che si levò fu grande. Narra il Baglione che "quest'opera per havere alcune pitture del naturale, e per essere in compagnia di altre fatte dal Cavalier Giuseppe, che con la sua virtù si haveva presso i professori qualche invidia acquistata, fece gioco alla fama del Caravaggio, et era da' maligni sommamente lodata.
Pur venendovi a vederla Federico Zucchero, mentre io era presente, disse: Che rumore è questo? e guardando il tutto diligentemente soggiunse: Io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione nella, tavola del Santo, quando Christo il chiamò all'apostolato; e sogghignando, e meravigliandosi di tanto rumore, voltò le spalle, et andossene con Dio".
Ma certo la gelosia faceva velo allo Zuccari, perché nel quadro della cappella Contarelli, c'è sì il colorito giorgionesco, ma c'è pure una libertà di composizione che va molto al di là di quanto avevano fatto i veneziani del Cinquecento più avanzato, compresovi Tintoretto, e una maniera tutta particolare di delineare i contorni e le masse degli oggetti e delle persone con strisce luminose e ombre tondeggianti, così che le cose acquistano una corporeità risentita, una solidità insolita. Questi forti contrasti si svolgono in una atmosfera generale grigia, nelle due scene laterali; il quadro centrale è poi a fondo nero, sul quale l'artista riesce meglio a proiettare i suoi rilievi di luce.

Quanto all'invenzione delle sue storie, pensiamo che Caravaggio si ispirasse da certe stampe popolari, quali si conservano ancor oggi in gran numero, che interpretavano i soggetti sacri con uno spirito più largo, più accessibile alla mentalità del popolo, più spregiudicato, più avvicinato alla vita vissuta, senza ricostruzioni dotte, senza derivazioni letterarie; che pigliavano coi santi certe dimestichezze che l'arte ufficiale dei preti non si permetteva mai. E perciò l'ostracismo alle opere del Caravaggio era naturale, e come il S. Matteo, lo subì la S. Anna con la Madonna e il Bambino, fattagli dipingere dai Palafrenieri di Palazzo per la Basilica di S. Pietro, e levatane per ordine dei Cardinali della Fabbrica e donata al cardinal Scipione che la pose nella sua galleria, dove tuttora si vede; lo subì il Transito di Maria, dipinto per la chiesa della Scala: "perchè havea fatto con poco decoro la Madonna gonfia, e con gambe scoperte, fu levata via e la comperò il duca di Mantova"; oggi è al Louvre.

Per questi suoi atteggiamenti, così discordi dall'arte del suo tempo, Caravaggio venne considerato come un verista spinto, che copiava la natura senza discernimento, non aborrendo dal ritrarre le cose più vili e ripugnanti. Ma questo giudizio è profondamente errato, perché se il maestro lombardo teneva fissi gli occhi al vero, infischiandosi di Raffaello e delle statue antiche, lo riproduceva però attraverso una sua visione tutta personale.

Nei suoi dipinti giovanili, come la Maddalena e il Riposo in Egitto della Galleria Doria, e la Suonatrice dell' Ermitage, non solo non c'è traccia di crudo verismo, ma c'è una luminosità chiara, una ricerca di toni delicati. Il Riposo è una festa di colore: in un paesaggio lussureggiante sta il gruppo delle sacre persone; Giuseppe seduto regge il libro di musica a un angelo tutto bianco e biondo che suona il violino, suggerendo dolci sogni alla Madonna, addormentata, col capo reclinato sul Bambino che tiene stretto in grembo; nessun pittore idealista ha mai dipinto un angelo più puro, più soave di questo del Caravaggio, il quale è ancora qui tutto cinquecentesco, e si riattacca al Savoldo e al Moretto da Brescia. Anche la Maddalena è una deliziosa cosa, e la descrive bene il Bellori: "Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi i capelli; la ritrasse in una camera, ed aggiungendovi in terra un vasello d'unguenti con monili e gemme, la finse per Maddalena. Posa alquanto da un lato la faccia, e s'imprime la guancia, il collo, e 'l petto in una tinta pura, facile e vera, accompagnata dalla semplicità in tutta la figura, con le braccia in camicia, e la veste gialla ritirata alle ginocchia dalla sottana bianca di damasco fiorato ".

A Roma Caravaggio modifica profondamente la sua maniera; lascia i fondi luminosi e proietta le sue figure su uno schermo nero, sul quale appaiono gagliardamente rilevate, con evidenza statuaria, o le immerge in un'atmosfera bruna, illuminando nudi vigorosi, ottenendo così un forte risalto dei contorni, che non appariscono studiatamente disegnati come nei bolognesi, E abbandona pure il colorito veneziano, e si compiace di toni metallici, freddi, quasi marmorei, che contribuiscono alla impressione di solidità che hanno sempre le sue composizioni. Così nella celebre Deposizione, già alla Chiesa Nuova e ora in Vaticano, dipinta quattro o cinque anni dopo la cappella Contarelli, che forse fra i quadri del Caravaggio è iconograficamente il più rispettoso della tradizione, mette in rilievo luminosamente il corpo bianco del Cristo, e scava dal fondo nero le figure dei due pietosi e delle donne piangenti. Così nella Madonna della chiesa di S. Agostino modella con evidenza plastica la figura della Vergine che sta addossata ad uno stipite di porta col Bambino tra le braccia, e guarda, senza interessarsene troppo, due oranti, un popolano e una vecchia, che la supplicano, anch'essi vigorosamente formati e cavati fuori dall'ombra. Abbiamo detto che la Madonna guarda con indifferenza i due inginocchiati, i quali pure la pregano con poco fervore, ed è questa una particolarità dell'arte caravaggesca: le sue figure mancano quasi sempre di movimento affettivo, come dicevano i seicentisti; non prendono parte viva alla scena, ma par quasi che ognuna faccia da se, che stia in un suo mondo chiuso, estranea a ciò che avviene intorno; non tocca dall'appassionato, dallo sforzato pathos dei bolognesi e del Bernini.

Per Caravaggio inutilmente i Carracci hanno squadernato il loro codice pittorico sulla volta della Galleria Farnese; egli non vi guarda neppure, e segue la sua via, noncurante e sprezzante.
"Essendogli mostrate, dice il Bellori, le statue più famose di Fidia e di Glicone, acciocché vi accomodasse lo studio, non diede altra risposta se non che distese le mani verso una moltitudine di uomini, accennando che la Natura l'aveva a sufficienza provveduto di maestri,... E perché egli aspirava all'unica lode del colore, sicché paresse vera l'incarnazione, la pelle e 'l sangue, e la superficie naturale, a questo solo volgeva intento l'occhio e l'industria, lasciando da parte gli altri pensieri dell'Arte". Dovendo dipingere, intorno al 1600, due storie di S. Pietro e S. Paolo per la cappella Cerasi in S. Maria del Popolo, scelse per la prima il momento in cui i manigoldi sollevano la pesante croce a cui è inchiodato l'apostolo, e ne collocò così uno in ginocchio, visto dal dietro, che fa leva con le spalle, un altro che afferra con le muscolose braccia da facchino l'estremità del legno, un terzo che tira sulle spalle una corda. Nell'altra tela rappresentò S. Paolo caduto supino sotto a un grosso cavallo bianco, che un servo ritiene per il morso; anche qui strappando ogni legame con la tradizione, e sforzando i contrasti di luce e di ombra. L'esempio del Caravaggio era pericoloso per chi non avendo la sua potenza costruttiva, imitava solo l'atteggiamento esteriore del suo stile. Perché, malgrado l'ostilità dei preti e dei vecchi pittori manieristi, il maestro lombardo attirava molti alla sua maniera, e senza che cercasse di formare discepoli, creava in Roma una nuova scuola.
"Il Caravaggio, scrive ancora il biografo Bellori, facevasi ogni giorno più noto per il colorito ch'egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutte risentite di oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dar rilievo ai corpi. E s' inoltrò egli tanto in questo suo modo di operare, che non faceva mai uscire all'aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l'aria bruna di una camera rinchiusa pigliando un lume alto, che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, lasciando il rimanente in ombra, a fine di recar forza con veemenza di chiaro e d'oscuro: tanto che i pittori che allora erano in Roma, presi dalla novità, e particolarmente i giovani, concorrevano a lui, e celebravano lui solo come unico imitatore della Natura, e come miracoli mirando l'opere sue lo seguitavano a gara, spogliando modelli ed alzando lumi e senza più attendere a studio e insegnamento ciascuno trovava facilmente in piazza e per via il maestro o gli esempi nel copiare il naturale".

Michelangelo da Caravaggio insofferente di ogni legame nell'arte, era altrettanto libero e sfrenato nei suoi costumi; usciva spesso a dir male degli altri pittori, e con facilità metteva mano alle armi che portava sempre indosso. Fu insomma, come dice il Baglione, che ebbe aspre questioni con lui, "per soverchio ardimento di spirito, un poco discolo"; e i documenti dell'Archivio Criminale messi in luce dal Bertolotti, ci apprendono che lo fu molto. Il 19 novembre 1600 era querelato da certo Girolamo Spampa, che aveva ricevuto da lui "parecchie bastonate" e una stoccata; il 7 febbraio 1601 otteneva il componimento di un processo per aver ferito di spada un sergente di Castel S. Angelo; il 28 agosto 1603 veniva querelato dal Baglione per aver scritto dei versi offensivi contro di lui; il 24 aprile 1604 stando a pranzo all'osteria del Moro, alla Maddalena, tirava un piatto al mostaccio di un servitore ferendolo alla guancia; il 20 ottobre era in carcere per aver ingiuriato i birri; il 23 maggio 1605 era menato in prigione perché portava spada e pugnale senza licenza; il 20 luglio era di nuovo carcerato per offesa a due donne; e liberato, appena nove giorni dopo, in piazza Navona feriva con un colpo di spada sulla testa il notaro Mariano Pasqualone, per causa di una certa Lena; il primo settembre era querelato dalla padrona di casa Prudenza Bruna, alla quale, essendo richiesto dell'affitto, aveva rotto a sassate la gelosia della finestra. Poco tempo dopo in una rissa fu ferito alla gola e all'orecchio sinistro, ma interrogato si rifiutò di dire il nome del feritore; e infine nel 1606 avendo ammazzato per questioni di giuoco un certo Ranuccio Tomassoni, dovette fuggire da Roma. Riparò a Napoli, e poi a Malta, accoltovi con onore, ma anche qui ne fece qualcuna delle solite e fu imprigionato.
Riuscì a fuggire, stette qualche tempo in Sicilia, poi di nuovo a Napoli, ove esercitò un profondo infusso sui pittori locali; mentre cercava di rientrare a Roma, colpito dalle febbri morì presso Porto Ercole nel 1609, l'anno stesso in cui mancavano all'arte Annibale Carracci e Federico Zuccheri. Ma assai più ricca eredità lasciava il ribelle Caravaggio, che non i due sommi sacerdoti dell'arte aulica romana: il Carracci aveva dietro a se molti scolari che per vivere dovevano non fermarsi ai suoi insegnamenti di chiuso accademismo, ma profondamente rinnovarsi; i seguaci dello Zuccheri non avevano più in mano che logori stampi: il bandito lombardo aveva gettato invece i fondamenti della pittura moderna. Non pochi furono gli imitatori diretti dell'arte caravaggesca, chiamati perciò Naturalisti, sia italiani che stranieri, come Bartolomeo Manfredi, facile traduttore delle forme del maestro, Carlo Saraceni, veneziano, più chiaro e accurato; Orazio Gentileschi, lo stesso Baglione, Giuseppe Ribera detto lo Spagnoletto, Gherardo Honthorst, detto delle Notti, perché illuminava le sue figure con luci notturne di candele e di torce fumiganti, Monsù Valentin, francese, di "maniera vigorosa e tinta". Bellori rimprovera agli imitatori di Caravaggio di esser caduti nell'imitazione del deforme: "Così sottoposta dal Caravaggio la maestà dell'arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregio delle cose belle, tolta ogni autorità all'antico ed a Raffaello: dove per la comodità de' modelli, e di condurre una testa dal naturale, lasciando costoro l'uso dell'Istorie, che sono proprie de' pittori, si diedero alle mezze figure, che avanti erano poco in uso. Allora cominciò l'imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità come sogliono fare alcuni ansiosamente; se essi hanno a dipingere un'armatura eleggono la più rugginosa, se un vaso non lo fanno intiero, ma sboccato e rotto. Sono gli abiti loro calze, brache, e berrettoni; e così nell'imitare i corpi, si fermano con tutto lo studio sopra le rughe e i difetti della pelle e dintorni; formano le dita nodose, le membra alterate da morbi".

Ma il Bellori, antiquario, classico, accademico, ammiratore dei Carracci, del Domenichino, e del Poussin, non era in grado di intendere il valore profondo dell'arte caravaggesca, e la giudicava male per questi sviamenti degli imitatori, che scambiarono più volte l'importanza che il maestro dava nei suoi quadri a elementi naturali e ad oggetti, fiori, frutti, sassi, vasi, per il fine ultimo della pittura, ricercando soggetti triviali, come se in essi consistesse l'essenza del nuovo stile. È certo però che a Caravaggio spetta il merito di aver arricchito il patrimonio iconografico della pittura che fino al suo tempo era ristretto ai soggetti sacri, e che ora non disdegnerà più di assumere la trattazione di temi più umili, nature morte, scene popolari di giuocatori e di osterie.

Roma Barocca - Antonio Munoz - 1919