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Francesco Borromini a Roma

di Antonio Munoz

Palazzo Carpegna
Palazzo Carpegna

Mentre gli storici dell'arte continuano ad affannarsi intorno a certi maestri del Quattrocento che l'oblio giustamente aveva fatcastamente ; non mendicÚ mai le lodi e le commissione non fu signoreggiato dal desiderio di arricchire : a Propaganda dopo ventiquattro anni di lavoro si vide compensato con quarantacinque scudi, che rifiutÚ ! Solitario, tutto dedito anima e corpo al suo sogno d'arte, non parve un uomo del suo tempo, e scomparendo non lasciÚ discepoli diretti, non volle trasmettere a mani indegne la fiaccola sacra : e nessuno avrebbe potuto raccoglierla !to cadere nell'ombra, mentre vengono riesumate le opere dei più poveri untorelli del così detto secolo d'oro, ci sono figure di purissimi genii, vissuti in altre età, che restano quasi ignote. Così Francesco Borromini, il grande rinnovatore dell'architettura del Seicento, il cui influsso da Roma si propagò dapprima rapidamente in tutta Italia, e poi in ogni parte dell' Europa cattolica, è ancora un dimenticato : i più ne parlano con disprezzo, perpetuando il giudizio parziale del Milizia e della scuola neoclassica, ma mostrano evidentemente di non conoscerlo; altri invece lo esaltano, ma non lo conoscono in realtà neppur essi. Del resto nelle stesse condizioni di ignoranza completa la critica si trova di fronte a quasi tutta l'arte barocca, specialmente all' architettura e alla scultura ; chi conosce Carlo Maderno, Giambattista Soria, i due Rainaldi, Pietro da Cortona, Carlo Fontana, e lo stesso Bernini come architetto? E senza conoscere, e bene, la storia dell'architettura del Seicento in Italia, è impossibile valutare con esattezza l'arte di Francesco Borromini, intendere la vasta rivoluzione che essa ha esercitato, misurare i confini di spazio e di tempo del suo influsso. Quando si approfondiscano le ricerche e si eserciti l'indagine sull'arte barocca, si riconosce che quest'influsso è stato immenso, quale forse nessun altro maestro esercitò mai, perchè se Giotto e Michelangelo hanno dominato un intiero secolo, questo fu il loro, mentre Borromini ci appare come un precursore: egli muore nel 1667, ma le derivazioni dell'arte sua sono quasi tutte del secolo successivo ; il Settecento in Italia e fuori si può quasi definire come scuola borrominiana, e ci sono opere del maestro che a prima vista si direbbero settecentesche ; San Carlino alle Quattro Fontane che è del 1638-41 si daterebbe volentieri verso il 1720 ; i soffitti del palazzo Falconieri si son creduti sino a poco tempo fa eseguiti nel secolo XVIQ. Perchè è in questo periodo che le opere del Borromini trovano il loro ambiente, la loro cornice, le loro rispondenze nel gusto generale, le loro consonanze con il costume, col teatro, con la musica, con la poesia. Pensiamo, per esempio, quanto grande fu l'amore degli architetti barocchi per la policromia, che dal principio del Seicento, da quando Flaminio Ponzio parò a festa con drappi di alabastro, di broccatello, di breccia, la cappella Paolina di Santa Maria Maggiore (1611), si va facendo sempre più viva, come nella cappella di Santa Teresa del Bernini (1647), o negli altari di fratel Pozzo, in cui i marmi e i metalli più ricchi compongono una sfolgorante sinfonia con l'oro degli stucchi e il verde serpentino delle malachiti. Tutti i maestri del Seicento adoperano insieme con la squadra e coi compassi il pennello e la tavolozza, e spogliano dei marmi preziosi i monumenti antichi, o rimettono in attività le vecchie cave abbandonate e ne trovano di nuove, così che accanto al giallo, al verde, al rosso antico, all'africano, alla portasanta, al cipollino, alle lumachelle, alle brecce, vediamo apparire il simpatico cottanello delle colonne di S. Pietro, il diaspro di Sicilia, il rosso di Francia, il giallo di Siena, il rosso di Verona, il lapislazzulo, la breccia dei Pirenei. Questi materiali vivacissimi si stendono a terra nei pavimenti, che paion tappeti orientali, salgono a rivestire pareti e pilastri, decorano altari, tabernacoli e persino monumenti funebri, e arrivano alle vòlte, dove trovano altri accordi nelle pitture e negli stucchi dorati. Ebbene, a tali mezzi rumorosi, a tali ricerche di effetto il Borromini non ricorre mai ; il bianco candido del marmo o dello stucco, e il grigio del travertino o della cortina di mattoni, sono i soli colori della sua tavolozza; appena in Sant'Agnese adopera, negli smussi dei piloni, colonne di cottanello, se pure queste non vennero aggiunte dai suoi successori, e nelle nicchie degli apostoli in San Giovanni, un po' di verde e di bardiglio ; ma il bianco, il colore del Settecento, è il suo tono preferito. Del resto non soltanto nel campo dei colori Francesco Borromini batte una via a se ; egli fu in ogni manifestazione sua un originale, un solitario, nell'arte come nella vita. Anche nei momenti felici della sua esistenza rifuggì rumori ed onori, visse appartato, lontano dalla corte papale, non cercando ricchezze, rifiutando onorevolissimi incarichi, come quello di fornire disegni al re di Francia pel palazzo del Louvre. Ed ecco perchè di lui, della sua vita privata, non sappiamo quasi niente, e non ci son pervenute sue lettere, e carte in genere che lo riguardino, mentre conosciamo aneddoti, episodii, pettegolezzi, e abbiamo documenti a sfascio intorno al Bernini. Borromini non fu del suo tempo come artista e come uomo, differenziandosi dagli altri persino nel vestire : " si rese sempre una figura da esser particolarmente osservata, perchè volle del continuo comparire col medesimo portamento, e abito antico, senza voler seguire le usanze, come si pratica giornalmente ; usò la randiglia alla spagnuola, e le rose tonde alle scarpe, e nella medesima foggia le legaccie alle gambe „ Così scrisse un biografo, il Passeri ; e Filippo Baldinucci, che per quanto riguarda il Borromini appare assai bene informato, ci dice che il maestro pativa molto " d'umore malinconico, o come dicevano alcuni de' suoi medesimi, d'ipocondria, a cagione della quale infermità, congiunta alla continua speculazione sulle cose dell'arte sua, in processo di tempo egli si trovò sì profondato e fisso in un continuo pensare, che fuggiva al possibile la conversazione degli uomini standosene solo in casa, in nulfaltro occupato che nel continuo giro de' torbidi pensieri, che alla sua mente somministrava del continuo quel nero umore : ed erasi ormai ridotto a tale, che il mirarlo solamente era una compassione, e per lo stralunar d'occhi, e '1 guardar eh' e' faceva, lanciando di punto in punto occhiate spaventose, che mettevano altrui gran terrore „ Il suo confessore, padre Callera, non lasciava di confortarlo, ma inutilmente, aggiungendosi alla ipocondria anche un " grande affanno, che pareva procedere da alterazione allo stomaco .... un giorno nell'estate del 1667 il Borromini in una delle sue smanie diede alle fiamme tutti i suoi disegni, notizia confermata del fatto che oggi ne restano pochissimi di suoi nelle collezioni pubbliche e private» Nella notte sul due agosto dello stesso anno, l'infelice maestro, stando in letto, contrariato dal suo servitore che obbedendo all'ordine del medico gli rifiutava il lume, si trafisse con uno spadino, e il giorno dopo morì. Intorno al suicidio del Borromini molto si è favoleggiato, attribuendosene persino la causa alla lotta che contro di lui avrebbe fatto il Bernini ; giova quindi riportare l'interrogatorio che al ferito fu fatto subire dal giudice criminale.

- Interrogatus quomodo et a quando reperiatur sic vulneratus : Io me ritrovo così ferito da questa mattina dall'otto hore e mezza in qua in circa sul modo che dirò a V, S. et è che ritrovandomi io ammalato dal giorno della Maddalena in qua, che non sono più uscito eccetto lo Sabbato e Domenica che andai a S. Giovanni a pigliar il Giubileo, stante detta mia indispostone, hier sera mi venne in pensiero di far testamento e scriverlo di mia propria mano, e lo cominciai a scriverlo che mi ci trattenni da un' hora in circa doppo che ebbi cenato e trattenutomi così scrivendo col tocca lapis sino alle tre hore di notte incirca; M*° Francesco Marsari, che è un giovane che mi serve qui in casa et è capomastro della fabbrica di S.to Giovanni Fiorentini, della quale io sono architetto, che se ne stava a dormire in questa altra stanza per mia custodia, che già si era andato a letto ; sentendo che io ancora stava scrivendo et havendo veduto che io non havevo smorzato il lume, mi chiamò con dire : Signor Cavaliere è meglio che V. S. smorzi il lume et se riposi perchè è tardi ed il medico vuole che V. S. riposi. Io gli risposi come io haverei fatto a riaccendere il lume per quando mi fussi svegliato et esso me replicò : lei lo smorze perchè io l'accenderò quando V. S. si sarrà risvegliato ; e così cessai di scrivere, messi da parte la carta scritta un poco et il toccalapis col quale scriveva ; smorzai il lume e mi mesi a riposare. Verso le cinque in sei hore incirca essendomi risvegliato ho chiamato il suddetto Francesco e gli ho detto: è hora di accendere il lume, et mi ha risposto : signor no. Et io havendo sentita la risposta mi è entrata adosso Timpatienza; subito ho cominciato a pensare se come potevo fare a farmi alla mia persona qualche male, stante che il detto Francesco mi havesse negato di accendermi il lume et in questa opinione sono stato sino all'hotto hore e mezza in circa, finalmente essendomi ricordato che avevo la spada qui in camera a capo al letto et appesa a queste candele benedette, essendomi anco accresciuta Pimpatientia di non havere il lume, disperato ho preso la detta spada quale havendola sfoderata, il manico di essa l'ho appuntato nel letto e la punta nel mio fianco e poi mi sono buttato sopra di essa spada dalla quale con la forza che ho fatta acciò che entrasse nel mio corpo sono stato passato da una parte all'altra e nel buttarmi sopra la spada sono caduto con essa spada messa nel corpo quaggiù nel mattonato e feritomi come sopra ho cominciato a strillare et allora è corso qua il detto Francesco et ha aperto le fenestre che già si vedeva lume, me ha trovato coleo in questo mattonato, che da lui e certi altri che lui ha chiamati mi è stata levata la spada dal fianco e poi sono stato rimesso a letto et in questa conformità è successo il caso della mia ferita „

Il grande rivoluzionario dell'architettura, l'artista ricco di pensiero, che in ogni sua opera accumulò con inesauribile vena motivi nuovi e originali, che si inseguono e si accavallano, come le immagini nella poesia del cavalier Marino, ebbe umilissimi principii : fino a trent'anni fu semplice scalpellino. Era nato a Bissone, il paese che tanti suoi figli ha dato per più secoli all'arte italiana, dai Gagini a Carlo Maderno, il 25 settembre 1599; suo padre era Domenico Castelli, architetto di casa Visconti, e il figliolo pure dapprincipio si chiamò Francesco Castelli; il cognome di Borromini, forse materno, lo prese verso il 1628» A quindici anni Francesco fuggì da Milano dove studiava come scultore, e venne a Roma, ad insaputa del padre, allogandosi presso il suo congiunto e paesano Lione Garogo, mastro scarpellino che lavorava alla fabbrica di S. Pietro: era il 1614 circa, quando si compiva la facciata del Maderno e si lavorava nel portico. Questo ci dicono i biografi concordemente; e infatti i documenti dell'Archivio della Basilica Vaticana confermano che dal 16 11 al 1620 lo scalpellino Lione Garo o Garuo, lavorava ai capitelli grandi della facciata e nel porticale, e a varie opere d'intaglio dentro la chiesa. Questo modesto artigiano introdusse nella fabbrica, ove allora per impulso di Paolo V ferveva il lavoro, anche il giovane Borromino, il cui nome apparisce però nei registri per la prima volta solo il 7 giugno 1624, perchè si vede che sino ad allora era semplice aiuto del Garuo, che riscuoteva i denari per lui. Le opere che Francesco Castello scarpellino fece per la basilica sono umilissime : la base della Pietà di Michelangelo, la balaustrata dell'altare del coro, scalini e stipiti di porte, stemmi e capitelli. Carlo Maderno, architetto della fabbrica, nativo anche lui di Bissone, e, pare, lontano parente del giovine scarpellino, firmava i suoi conti, e al dir dei biografi antichi, avendo riconosciuto il suo merito, lo adoperava per mettere in pulito i suoi disegni. Quando il Maderno morì (10 gennaio 1629), e nella carica di architetto di S. Pietro gli successe il Bernini, Francesco Castello continuò i suoi lavori negli altari sotterranei delle reliquie, nei piloni della cupola, nelle incrostature dei piloni stessi, nelle porte che dalla basilica vanno in Vaticano. Dall'aprile del 1631 lo vediamo salito in dignità ; non è più intento a lavori da semplice tagliatore, ma fa " disegni grandi dell' opera di metallo .... ossia del mirabile baldacchino di bronzo che su disegno del Bernini si erigeva sulle tombe degli Apostoli ; in tale lavoro lo troviamo occupato fino al 22 gennaio 1633 quando nei registri si incontra questa nota : " A Francesco Castelli scudi venticinque moneta per il presente mese di Gennaio acciò disegni in grande tutte le centine, piante, cornici, fogliami et altri intagli che vanno dentro alle costole et cimase, et di più sia obbligato a segnarli su li rami e renderli acciò li falegnami et quelli che battono il rame non possino errare „. Per un conto è questa una formula inusitata; è chiara in essa l'intenzione di specificare bene gli obblighi del maestro, quasi dubitando che egli voglia sottrarvisi, e credo che qui si abbia la prova dei dissapori tra il Bernini e il Borromini, il quale sentiva ormai spuntarsi le ali, e mal si sottometteva a lavori così modesti ; è quella l'ultima volta che il suo nome appare nei registri della Fabbrica di S. Pietro. Questo duro tirocinio del Borromini come semplice scalpellino, non fu privo d' importanza nello svolgimento dell' arte sua di architetto ; abituato a lavorare il marmo, a scolpire i particolari ornamentali, ad intagliare capitelli e cornici, a scavare gusci e dentelli, a segnare modini, il maestro rimase sempre in tutta la sua lunga carriera un conoscitore e un amante della pietra, uno studioso cercatore del dettaglio. Il Bernini, architetto venuto dalla scultura e dalla pittura, è più bozzettista; si limita a dare con rapidi schizzi il piano e i profili di una fabbrica, e lascia poi le minori rifiniture alla mano dei suoi aiuti e degli esecutori, per cui tutte le opere sue non hanno quasi mai finezza di particolari. Invece Borromini non dimentica mai di esser stato scalpellino, e con paziente amore si occupa dei più piccoli elementi decorativi, e in ognuno di essi mette una ricerca minuziosa, imprime un sapore personale, pone una nota caratteristica. Chi sa che qualche volta egli stesso non togliesse di mano i ferri ai suoi tagliapietra, per indicare loro la curva di una voluta, per correggere la grazia, di una foglia. Al tempo stesso in cui abbandonava i lavori di S. Pietro, il Borromini dovette lasciare quelli del palazzo Barberini alle Quattro Fontane, iniziati anch' essi dal Maderno e continuati poi dal Bernini ; le discordanze tra i due maestri erano, secondo i biografi, di indole finanziaria, e sappiamo bene che il Bernini non aveva un carattere facile» Su questo punto della inimicizia tra i due più grandi genii del nostro Seicento, credo si sia molto lavorato con la fantasia dagli scrittori antichi ; a me appare quasi naturale tra due uomini che esercitano la stessa arte nello stesso luogo, e sarebbe piuttosto da meravigliarsi se tra loro avesse regnato l'accordo. Occorre determinare con criterii stilistici quale parte il nostro artista abbia avuto nel palazzo Barberini, non soccorrendoci alcuna notizia documentale: l'opera del Bernini si distacca chiaramente dal resto, ed è tutto il corpo centrale con la loggia a tre ordini, così poco legato col resto, che non corrisponde con le altezze dei piani interni* Ora nelle alette laterali dal lato della loggia e poi dalla parte verso il giardino ci sono finestre con timpani decorati da un festoncino, e balaustri o mensole sotto il davanzale, che hanno tutto il carattere delle cose posteriori del Borromini, pur riconnettendosi, come è logico, ai tipi del Maderno, e a motivi dell'attico di S. Pietro, Le antiche raccolte di stampe fanno il nome del Borromini per la scala rotonda che sale nell'angolo destro; non è improbabile che l'attribuzione sia giusta, ma dovette qui già intervenire la robusta mano del Bernini, che nel palazzo Barberini introdusse accanto alle timide forme del Maderno un carattere più romano, forte, grandioso, laddove Borromini è più smilzo, sottile, aggraziato. Anche qui dunque il Borromini lavorava in parti secondarie, in sott'ordine al Maderno e al Bernini, ma ciò malgrado il suo ingegno incominciava a dare bagliori, a esprimersi con un linguaggio nuovo e inaspettato ; cosicché accanto alle sue forme quelle del Bernini appaiono più grandiose e robuste, ma antiquate ; questi non fa che riprendere motivi sangalleschi e riprodurre i moduli del Serlio e del Vignola; mentre Borromini precorre già certi atteggiamenti dello stile rococò : e siamo intorno al 1630. Ora pensiamo alla condizione di quest' uomo : ha uno scrigno pieno di preziose gioie e non può farne spesa che in piccole cose, egli che saprebbe farne gettito con inesauribile larghezza ; si sente bastare d'animo a esser condottiero e si vede aggiogato prima al pesante carro del Maderno, un ritardatario, ancora legato all'arte della Controriforma e ai gravi insegnamenti di Domenico Fontana, e deve poi lavorare oscuramente alla gloria di un uomo che ha appena un anno più di lui, che già è illuminato dal successo, e con cui sente che saprebbe misurarsi vittoriosamente. Egli non è che uno scarpellino, e il terribile Bernini non gli permetterebbe certo di fare di più che ricopiare al vero i suoi disegni pel baldacchino di bronzo, il miracoloso lavoro che deve dargli nuova e più alta gloria, insieme con la ricchezza : Borromini che collabora all' opera monumentale da tre anni, riceve venticinque scudi il mese, e il Bernini da nove anni ne ha duecentocinquanta, e alla fine delf impresa ne avrà ritratto pei doni del papa non meno di 34.000 scudi 1 Il nostro artista sentiva certo tutto questo, e aveva già trentaquattro anni, e la prima giovinezza era fuggita! E allora, poiché nessuno avrebbe chiamato uno scalpellino a far da architetto, Borromini, saputo che il Sodalizio dei Piceni doveva costruire una chiesa in Roma, si presentò ed offrì la sua opera gratuita, che fu accettata nell'adunanza del 12 febbraio 1634 di quella pia istituzione. Ma purtroppo la chiesa, costruita fra il 1634 e il '37, intitolata alla Santa Casa della Madonna di Loreto... che sorgeva all'angolo tra via di Ripetta e via del Vantaggio, non esiste più, essendo stata interamente rifatta nello scorcio del secolo XVIII e non si può quindi esser sicuri che fosse stata condotta sul disegno del nostro artista. Così oggi la prima opera architettonica del Borromini che noi conosciamo è S. Carlino alle Quattro Fontane : un miracolo. Fu fabbricata coll'annesso chiostro tra il J638 e il '4J, tranne la facciata che è del '67, e rivela già tutte le caratteristiche dell'arte borrominiana t la novità della concezione, la nota personale in ogni minuto particolare, la fantasia inesauribile che accumula idee su idee, con facilità, con liberalità prodigiosa, senza sforzo, senza stento. Eppure non è un'opera di getto, una improvvisazione alla Bernini ; è invece un organismo logicamente pensato, in cui ogni elemento, ogni modanatura, ogni sagoma è studiata accuratamente, ogni effetto è meditato ; in modo che se un solo elemento venisse soppresso ne resterebbe gravemente diminuito tutto l'insieme. Questo è un primo carattere che differenzia l'arte del Borromini da quella dei suoi contemporanei : nelle altre fabbriche barocche c'è sempre una ridondanza, una sovrabbondanza di elementi che non hanno alcuna funzione statica e tettonica, e che perciò si possono sfrondare, senza che l'efficienza dell'edificio ne resti diminuita. Quei membri superflui hanno una giustificazione puramente artistica, stanno lì soltanto per produrre un certo effetto, per dare all'insieme quella pittoricità che è la caratteristica dell' architettura barocca. Nel Borromini pleonasmi non ci sono mai ; eppure egli ottiene l'effetto pittorico più che qualunque altro maestro del Seicento, ma lo fa col movimento che sa dare alle masse, col sapiente uso di elementi Borromini, Soffitto delle navi laterali in S. Giovanni. prospettici ; così che a lui non si potrebbero rivolgere le critiche che il Milizia, come abbiamo visto, fa al barocco. La chiesa di S. Carlino ha pianta ellittica, e la porta d'ingresso è collocata sull'asse maggiore dell'ellisse ; questa ha nei lati due leggeri rigonfiamenti, che le danno movimento ondulato, e quattordici colonne, alveolate, nelle pareti e collocate a ineguali distanze, contribuiscono a dare a tutta l'ellisse un ondeggiamento continuo a cui pur concorrono nicchie scavate negli intercolonni!; sulle colonne poggia una trabeazione che ne segue naturalmente l'ondeggiare, e sopporta nei due gonfiamenti laterali e sull'altar maggiore, che è di contro all'ingresso, timpani entro nicchie, disegnati prospetticamente, in modo da dar l'impressione di una concavità assai più forte del vero. Una cupola, o meglio calotta, ricopre tutta la chiesa, accrescendo l'impressione di ampiezza, ed è tutta scompartita in profondi cassettoni in cui pure l'occhio si perde, e sormontata da un lanternino dal quale piove così poca luce da dare alla chiesa barocca il mistico aspetto di una cattedrale gotica. Elegantissimi sono i particolari, tutti studiati accuratamente, meditatamente, perchè concorrano a un unico effetto: le forti modanature delle cornici, i plinti delle colonne tagliati ad esagono, i rosoncini dei cassettoni, il fregio a palmette air imposta della calotta ; il tutto bianco su bianco, con effetti di luce meravigliosi. Il piccolo chiostro con gli angoli tondeggianti è un altro miracolo di leggiadria, di squisita finezza, ed è insieme solido e robusto. Durante i lavori di S. Carlino Borromini condusse quelli del convento dei Filippini alla Chiesa Nuova, con l'Oratorio e i due chiostri, terminati nel 1642. Il prospetto è il primo esempio di facciata in curva, e segna perciò una data importante nella storia dell'architettura» Non è improbabile che 1' ardita innovazione, destinata a tanta fortuna, sia stata suggerita all'artista da una circostanza del tutto casuale: la facciata dell'Oratorio doveva elevarsi proprio a fianco di quella della Chiesa Nuova, e ad essa congiunta e aderente, e l' effetto non poteva esser che monotono se l'architetto avesse adottato uno dei consueti schemi. Invece, adoperando la linea curva, Borromini è riuscito a distaccare completamente un prospetto dall'altro, e anzi ad ottenere un contrasto gratissimo all'occhio. La curva concava non ha una linea continua, ma come nelle facciate rettilinee si ottenevano risalti collocando in piani diversi le varie parti, con due o tre aggetti dalle estremità laterali fino all'asse centrale, così nell'Oratorio dei Filippini si vedon le ali laterali più arretrate, poi due corpi aggettati, infine la parte di mezzo col portale leggermente convessa, e quindi risaltante su tutto. Dentro la grande novità dell' insieme ve ne sono altre a decine nei particolari : di nuovo Borromini appare come un gran signore, che con intelligente prodigalità effonde a piene mani i suoi tesori. Ecco qui i capitelli piatti con due sole volute ; ecco dentro le nicchie i timpani a linee spezzate che avranno poi tanta fortuna, la porta col timpano spezzato sormontato da finestrat i pilastri laterali messi per angolo. Anche all' interno ci sono motivi nuovi ; caratteristico fra tutti quello dei due chiostri, grande e piccolo, ad un solo ordine ; una di quelle disobbedienze alle buone norme che fanno imbestialire il povero Milizia, che possiamo immaginarci col suo codice alla mano in giro da mattina a sera per giudicare i "rei

di lesa architettura „ , com'egli disse riferendosi al Maderno. Eppure quella innovazione borrominiana trova le sue origini in un esempio classico, nel Campidoglio di Michelangelo, e non è, credo, una analogia casuale, perche nell'arte del Borromini sono frequenti le reminiscenze del Buonarroti; quando lavorava in S. Pietro, l'impaziente scalpellino che sentiva già. pulsare il suo gran cuore, dovette studiare a fondo sulle tracce di quel grande, dovette appagare la sua fame nutrendosi delle midolla del leone. Mentre Roma si stupiva di fronte a queste licenze borrominiane, che urtavano a tutta prima, ma s'imponevano presto, attirando all'imitazione perfino il Bernini, un'opera squisita del gran ribelle andava a seminare i germi della rivoluzione nella quiete dell'arte partenopea. Il vescovo di Napoli, Ascanio Filomarino, creatura di Urbano VIII, commise al Borromini il grande altare della cappella dell'Annunziata, che costruiva nella chiesa dei SS. Apostoli in quella città : l'opera fu tutta eseguita a Roma, e vi collaborarono Francesco Duquesnoy, autore del S. Andrea in Vaticano, Andrea Bolgi, scultore della S. Elena, che gli fa riscontro, il Finelli, Guido Reni e Pietro da Cortona. La cappella era consacrata nel 1642, e si vuole che i lavori durassero diciassette anni ; ma non certo tanto si prolungò l'opera dell'altare, che sarebbe stata commessa al Borromini nel '25, quando era intento a scolpire balaustri e gradini per S. Pietro ; più probabilmente fu condotta tra il 1638 e il '42. Intorno alla stessa data, cioè verso il '40, Borromini costruì la bizzarra galleria prospettica in un cortile del palazzo Spada, fiancheggiata da colonne che vanno impicciolendosi verso il fondo, col pavimento in salita e la vòlta a cassettoni in discesa, così che il corridoio lungo appena otto metri sembra profondo almeno cinquanta. È una sapientissima soluzione di problemi di prospettiva e di geometria, che però non commuove troppo ; può servire a dimostrare quanto sopra si disse sul fondamento logico e meditato dell'arte borrominiana. Si è scritto che Borromini copiò la sua galleria di palazzo Spada, dalla Scala Regia del Bernini, ch'è in Vaticano; ma questa è del 1663-66, ossia di venticinque anni posteriore. Il pontificato di Innocenzo X ( 1 644-55) segna l'epoca della maggior fortuna del Borromini; come tutti coloro che avevan goduto i favori del papa precedente, il Bernini era caduto in disgrazia, allontanato dalla corte, costretto a demolire il campanile che aveva elevato sul lato meridionale della facciata di S. Pietro. Nel 1647 il nostro iniziava i grandi lavori di restauro e di decorazione della Basilica Lateranense, che dovevan compiersi, come difatti avvenne, per l'anno santo 1650. Fu allora che andarono distrutti i preziosi affreschi di Gentile da Fabriano e del Pisanello, per cui tanti fulmini furono scagliati, dagli esclusivisti fanatici dei primitivu contro il Borromini. Di quella perdita, certo assai grave per l'arte, può consolarsi chi in San Giovanni si indugi senza preconcetti ad ammirare la fresca, briosa elegantissima decorazione che il maestro vi introdusse f tutta in stucco bianco, di un'impeccabile signorilitàf che si direbbe uscita dalle mani di uno stuccatore veneziano del Settecento. E poi perchè incolpare dello scempio il Borromini ? Era il gusto del secolo che comandava cosìt e non il capriccio di un solo ; il concetto, tutto moderno di rispettare i monumenti e le opere d'arte delle età passate non esisteva allora; gli uomini del tempo nuovo, persuasi che l'età loro rappresentasse il meriggio dell'arte di fronte all'alba incerta dei secoli precedenti (per usare le parole del pittore e trattatista Vincenzo Carducho, 1633) non avevano scrupolo di distruggere tante venerande e preziose reliquie, non per spirito di vandalismo, ma per rifare meglio. Le basiliche cristiane e medioevali non potevano considerarsi come musei d'arte ; erano monumenti vivi della pietà e della fede, e dovevano rispondere al sentimento della nuova età: un uomo del Seicento non sapeva pregare in un tempio del quinto secolo; la sedia gestatoria di Paolo V o di Urbano Vili non si adattava alle vetuste basiliche costantiniane. Sicché non fu il Maderno che guastò il vecchio S. Pietro, ne il Borromini che distrusse S. Giovanni, ne il Fuga che deturpò S. Maria Maggiore ; ma era tutta una civiltà nuova che si faceva largo e pigliava il posto dell'antica. Borromini durante i restauri di S. Giovanni eseguì altri lavori ; proprio contemporaneo ad essi e ispirato allo stesso gusto è il completamento interno del palazzo Carpegna, oggi delle suore del Cenacolo, in via della Stamperia, ove nell' atrio ornò i sottarchi, come al Laterano, con festoni di fogliame in stucco, che paion formati sul vero, e disegnò un'originalissima decorazione sulla porta d' accesso alla rampa, fatta con motivi floreali sostituiti all'architrave, che poi furono imitati da Paolo Naldini nel palazzo Ginnetti a Velletri. E nel 1652 era compiuta una chiesuola che è quasi a tutti ignota, perchè in strettissima clausura, quella della Madonna dei Sette Dolori , alle falde del Gianicolo, di pianta rettangolare, con semicolonne alveolate nelle pareti, e facciata concava, rimasta incompiuta. La casa Pamphili intraprendeva dopo il 1652 la fabbrica della chiesa di S. Agnese in piazza. Navona, che doveva divenire la cappella gentilizia della famiglia di Innocenzo X, e affidava l'impresa a due architetti insigni, padre e figlio, Girolamo e Carlo Rainaldi ; ma il 7 agosto del '53, non so per qual ragione essi venivano dispensati dal lavoro, e sostituiti da Francesco Borromini. Questi demolì quasi tutto il già fatto (ci sono intorno a tutto ciò documenti e disegni inediti)t e ricostruì la chiesa più indietro, con pianta a croce greca, che dà però l'impressione di una rotonda, tanto è largo il quadrato centrale, su cui si aprono quattro piccole cappelle che formano i bracci ; gli angoli del quadrato sono smussati, con entro nicchioni e altari, fiancheggiati da colonne di cottanello che addolciscono gli spigoli, e danno a tutto il tempio un movimento curvilineo. Un'amplissima cupola sormonta il quadrato, poggiata su alto tamburo, ed essendo visibile naturalmente fin dall' entrata contribuisce, più che in qualunque altra chiesa a pianta centrale, a dare un'impressione di vastità» La facciata in travertino è fiancheggiata da due torri con pilastri binati laterali, e interpilastri concavi, che terminano con svelte guglie, in cui le colonne poste per angolo formano un motivo felicissimo che evita il profilarsi sul cielo degli spigoli retti; dai due corpi laterali partono verso il centro della facciata due linee concave che raggiungono il corpo di mezzo, in piano, col portale fiancheggiato da quattro colonne e sormontato da timpano triangolare ; un alto attico corona il primo ordine, e termina con una svelta balaustra. Qui sono evidentissime le reminiscenze della facciata di S. Pietro del Maderno, famigliarissima al Borromini, che però la adattò al caso suo, arcuandola così agilmente con quelle due linee concave che sono gradevolissime all'occhio, attraenti, invitanti. Il maestro non potè personalmente dar l'ultima mano al suo bel lavoro, perchè, per questioni insorte, il 7 febbraio 1657 abbandonava la fabbrica, che allora venne affidata a una commissione di cinque architetti; questi, completando la facciata e la cupola col lanternino, dovettero attenersi però fedelmente ai disegni lasciati dal Borromini, e solo modificarono l'aspetto interno con l'aggiunta di tutti quei dipinti e di quell'oro, che non hanno carattere borrominesco. Sant'Agnese è il tipo rappresentativo di chiesa barocca a pianta centrale, modello di numerose derivazioni e contraffazioni: il Bernini, secondo|la tradizione popolare, l'avrebbe criticata, anzi satireggiata, atteggiando una delle statue di fiumi della fontana di piazza Navona in gesto di terrore, con le braccia protese come per ripararsi dalla caduta della cupola, troppo avanzata sul prospetto. Ma non è vero niente di tutto ciò : la Fonte Pamfilia fu inaugurata nel giugno del '51 e la chiesa cominciata nel '53. Invece il Bernini si ispirò da S. Agnese quando nel '58 costruiva S. Andrea al Quirinale, che è però assai meno bella, e che tuttavia il maestro considerava come il suo capolavoro architettonico» Dal '49 al '56 Borromini lavorò al palazzo di Propaganda Fide, ove costruì l'oratorio interno, simile a quello dei Filippini, e il prospetto del Collegio, anche qui profondendo un tesoro di trovate di genio : i pilastri messi per angolo che distaccano la fabbrica nuova dalla vecchia ; le finestre a pianta curvilinea, con colonne invece di stipiti, che danno una estrema pittoricità ; le soprafinestre circondate da rami di palma e da festoni di fiori in luogo di cornici. Si paragoni questo prospetto con quello principale del palazzo su piazza di Spagna che il Bernini aveva disegnato trenfanni innanzi ; tra le due opere non par che corrano tre lustri, ma tre secoli» E Bernini che abitava di faccia al prospetto di Propaganda, copierà per il suo palazzo Chigi (oggi Odescalchi) a SS. Apostoli, il motivo delle finestre a colonne, che tuttavia limiterà timidamente alla sola finestra della loggia ; e qui verranno a copiare i settecentisti, italiani e francesi, ma non riusciranno a carpire, insieme con le linee, lo spirito brillante del Borromini. Non è possibile esaminare particolarmente tutte le altre opere del maestro: la cupola e il campanile di S. Andrea delle Fratte, la chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza, la facciata di S. Carlino, le decorazioni della cappelletta di S. Giovanni in Oleo, la cappella Spada in S. Girolamo della Carità, i lavori del palazzo Falconieri a Frascati e quelli dell'abside di S. Giovanni dei Fiorentini, i sepolcri del cardinale Ceva e di Clemente Merlini. Alla chiesa di S. Ivo, all'Università, iniziata fino dal 1642 e terminata nel '60, Borromini dette la pianta in forma di un'ape, omaggio al papa Barberini, e ne ricavò così un gioco bellissimo di curve, di nicchie, di spigoli che tagliano la chiesa e la cupola a lobi ; e al lanternino dette un coronamento a spirale che sale stringendosi e va a sostenere una corona, come una freccia scagliata contro il cielo, con un moto ascensionale che nessuna guglia ha avuto mai. Milizia brontola qui di bizzarro; altri al suo tempo parleranno di arte indiana e cinese ; sia comunque è certo che mai architetto espresse con più vivace slancio l'aspirazione dell'animo e della preghiera verso Dio. La facciata di S. Carlino porta incisa la data del 1667, e fu compiuta un po' dopo ; è a due ordini, quello inferiore a linea ondulata, concava ai lati, convessa nel mezzo, con scompartizioni di colonne, e finestre circolari e nicchie ; quello superiore con tre concavità, e nel mezzo un tamburo in cui apresi la porta-finestra, il quale richiama certi motivi della tarda architettura romana orientale di Petra. Sul portale, in una nicchia ornata, è la statua di S. Carlo, e l'arco della nicchia è coperto da due teste di cherubini alate, leggiadrissimo motivo che piacque tanto al Borromini, il quale impiegò teste di cherubini come mensole nei soffitti delle navate laterali di S. Giovanni, come reggitarghe a Propaganda, come chiavi d'arco ai Filippini, come balaustri nel campanile di S. Andrea, come smussa-angoli nella sagrestia di S. Carlino. Nella facciata di questa chiesa che ora stavamo esaminando, c'è si qualche cosa di eccessivo, di sovraccarico; l'artista ha accumulato troppe cose, troppi pensieri; pare che egli, sentendosi ormai fuggire la vita, abbia voluto spendere tutte le sue risorse, sfoggiare tutti i suoi tesori. E quante ne ha ancora di idee, fresche, giovanilmente rivoluzionarie, questo ipocondriaco vecchio di sessantasei anni! Che miniera, che palazzo incantato egli apre qui ancora una volta ai suoi lontani seguaci ! Per ora non tutti lo intendono, non tutti lo apprezzano; ma fra trentanni i giovani architetti della generazione nuova verranno qui, e a Propaganda, e ai Filippini. Ci verrà Giuseppe Sardi ad ispirarsi per la sua Maddalena, e Ferdinando Fuga per la chiesa della Morte, e fratel Pozzo pei suoi altari, e Antonio Gregorini per S. Croce, e Gabriele Valvassori pel palazzo Doria, e Carlo de Dominicis per S. Celso, e Alessandro Specchi, e Galilei, e Amati, tutti, tutti, verranno qui. Fratel Pozzo porterà le forme del Borromini nella Germania cattolica e nell'Austria, dove ancor oggi rivivono nel cosidetto stile secessionista viennese ; e Filippo Juvara, ardente siciliano, le trapianterà in Piemonte, e il capriccioso padre Guarino, e con lui una pleiade di architetti francesi, le trasporteranno a Parigi, da dove ci torneranno sotto l'etichetta del rococò. E quando il berninismo è morto e comincia la reazione, l' impero di Borromini continua ancora nel tempo. Lo stesso Milizia è costretto ad ammettere nelle sue maggiori strambalatezze un certo non so che di grande, di armonioso, di scelto, che fa conoscere il suo sublime talento. " Quest' uomo incomparabile fu un appassionato dell' arte sua, per amor della quale non perdonò a fatica ,,; fu sobrio e visse castamente ; non mendicò mai le lodi e le commissione non fu signoreggiato dal desiderio di arricchire : a Propaganda dopo ventiquattro anni di lavoro si vide compensato con quarantacinque scudi, che rifiutò ! Solitario, tutto dedito anima e corpo al suo sogno d'arte, non parve un uomo del suo tempo, e scomparendo non lasciò discepoli diretti, non volle trasmettere a mani indegne la fiaccola sacra : e nessuno avrebbe potuto raccoglierla !

Vita e opere di Francesco Borromini