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Il Pantheon di Roma

descritto da Antonio Nibby 1839

Il Pantheon di Roma
Il Pantheon di Roma
Stampa antica del Pantheon di Roma

Sulla situazione del Pantheon non cade dubbio, poiché questo tempio magnifico ancora esiste , ed è uno de' monumenti più conservati dell'antichità.

La pianta di questo edificio si compone di una cella rotonda e di un portico rettilineo dinanzi, il quale è sostenuto da sedici colonne di granito bigio e rosso dì Egitto, disposte in guisa che otto sono di fronte e tre di fianco: i capitelli e le basi di marmo bianco sono corintie. Queste colonne hanno 5. piedi romani di diametro, sono alte, compresa la base ed il capitello 47.

piedi ed il loro intercolunnio è di due diametri, se si eccettui quello centrale, che presenta un vano di 11.

piedi e mezzo. Quindi questo tempio in termini d'arte dee qualificarsi per un prostilo-oltastilo-distilo-corintio.

Questa mole ha 260 piedi di profondità, compresa la grossezza de' muri, e 190 di diametro maggiore: innalzasi 4. piedi sopra l'antico suolo e perciò ascendevasi per una scala di 5 gradini al portico: oggi però che le macerie hanno in questa parte, come nel rimanente della città ingombrato l'antico piano, scarsamente havvi l'altezza di un gradino antico suddivisa in due, fra la piazza ed il portico. L'area dinanzi ed Intorno al tempio è stata rinvenuta coperta di lastre di travertino, e se ne ha un saggio presso il lato occidentale scavato nel primo decennio di questo secolo. La fronte è rivolta a settentrione inclinante a maestro cioè a nord-nord-ovest.

La parte posteriore si lega co' ruderi delle terme di Agrippa in modo da fare un solo corpo con essa. La cella o parte rotonda sorge con due gradini di travertino sopra un dado, o basamento rettilineo, siccome chiaramente apparisce nella parte scavata verso occidente.

Il frontespizio del portico avea il timpano ornato di un gran bassorilievo di bronzo dorato, che con molta verosimiglianza si crede aver rappresentato i giganti in atto d'insorgere contro Giove, e fulminati da lui: prova di tale ornamento sono i fori moltiplici lasciati dai perni che reggevano le figure. Sugli acroterii laterali erano simulacri di tori, come da una notizia di essi può rilevarsi: sull'acrolerio di mezzo per la medesima ragione, e per i frammenti rinvenuti, sembra che fosse la quadriga portante Giove Fulminatore, queste secondo Plinio erano opere dello scultore Diogene Ateniese che fece tutti gli ornamenti in bronzo del Pantheon. Nel fregio leggevasi in lettere cubitali di bronzo dorato, e a rilievo il nome dell'illustre fondatore del tempio: rimanendo ancora l'incavo di queste lettere, l'iscrizione si può ancora tracciare, e dice:

M. AGRIPPA. L. F. COS. TERTIVM. FECIT.

L'architrave in lettere semplicemente incise porta una iscrizione che ricorda il ristauro fatto a questo monumento dagli imperadori Settimio Severo e Carocalla in questi termini:

1. linea:

IMP. CAES. L. SEPTIMIVS. SEVERVS. PIVS. PERTINAX. ARABICVS. ADIABENICVS. PARTHICVS. MAXIMVS. PONTIF. MAX. TRIB. POTEST. X. IMP. XI. COS. III. P. P. PROGOS. ET

2. linea:

IMP. CAES. M. AVRELIVS. AINTONINVS. PIVS. FELIX. AVG. TRIB, POTEST. V. COS. PROCOS. PANTHEVM. VETVSTATE. CORRVPTVM. CVM. OMNI. CVLTV. RESTITVERVNT.

I lati fra le colonne del portico, eia parte circolare erano esteriormente rivestiti di marmo ed ornati di tre pilastri della stessa materia, che quantunque incendiati ed in parte caduti si conservano ancora in modo da potere avere una giusta idea della fabbrica e della sua decorazione.

Stampa antica del Pantheon di Roma

Fra il secondo e terzo pilastro, a livello del basamento è una porticina per parte: queste introducevano anticamente alle scalette interne, per le quali salivasi alle parti superiori dell'edificio. Di queste due scale quella verso oriente è la più praticabile, ma non vi si entra per la porta antica. Nella parte superiore di questi interpilastri veggonsi ancora riquadri di marmo pentelico ornati di candelabri, encarpj, ed istromenti da sacrificio , come patera, prefericolo, aspergillo, simpulo ec. essi sono scolpiti con somma finezza, e sono di forma elegantissima; ma hanno molto sofferto dal fuoco.

Il corpo rotondo ò esternamente ornato di tre diverse cornici, la prima è 46 piedi alta dal piano, la seconda 86 e la terza 107: sopra questa dopo un tamburro di 7 piedi di altezza cominciano i gradi che in numero di 6 servono come di contrafforti al tolo, il quale termina in un foro rotondo che illumiaa l'interno dell'edificio: dal piano a quell'apice contansi piedi 157 e mezzo.

Dal piano alla prima cornice era rivestito di marmo e se ne vedono ancora le traccle: dalla prima cornice in su era intonacalo dì stucco: Palladio suppone che fosse interrotto da pilastrini, ma questi non vi poterono mai esistere, ed avrebbero nociuto alla maestà dell'ediflcio: probabilmente fu tagliato a bugne pinne e leggiere.

Il tolo era coperto con tegole di bronzo dorato come il tetto del portico: oggi è coperto di piombo meno intorno all'occhio, dove rimane ancora il bronzo originale.

D'intorno sono sei porticelle che introducono ad altrettanti vani corrispondenti ai piloni: e fra la seconda e la terza cornice ne esistono dodici. Questi vani mentre potevano servire a contenere utensili ed altri oggetti di uso, furono principalmente lasciati, perché la gran massa de' muri potesse più facilmente asciugarsi.

Lateralmente ai due nicchioni che sono nel portico sono due pilastri per parte di marmo pentelico, i quali corrispondono ad altrettante colonne del portico stesso, il quale per molti segni è d'uopo di riconoscere come costruito posteriormente, imperciocché le proporzioni delle colonne del portico non si accordano punto con quelle del corpo rotondo; non havvi alcun legame Ira la costruzione materiale del portico con questj: e sopra il tetto rimangono visibilissimi avanzi del frontespizio originale, molto più alto di quello del portico stesso, il quale fu tagliato dopo che vi fu addossato il portico attuale. Ora essendo la parte rotonda legata in costruzione colle terme di Agrippa, come ognuno può osservare a suo agio, e corrispondendo tal parte con altre rotonde simili in altre fabbriche destinate a terme, come in quelle di Antonino Caracalla e di Diocleziano, non sarà strano credere che anche questa fosse destinata da Agrippa allo stesso uso; ma ammirandone forse la disposizione, l'armonia e la magnificenza, gli venne in pensiero di fare un tempio, ed allora dovette per necessità aggiungervi il portico; non trovando però colonne di tal dimensione che potessero accordarsi colle proporzioni già date al corpo rotondo ne venne il risultamento che il portico non è di proporzione analoga alla rotonda, ma troppo basso. Così possono spiegarsi tutte le anomalie di questo edificio sì nelle sue parti architettoniche, come anche nella immensità della cella contro l'uso costante de' templi, e nello stesso tempo si riconosce Agrippa autore del portico e della cella contro la opinione di alcuni che vollero attribuire questa alla era republicana e quello ad Agrippa, Fra i pilastri che si possono considerare come termine del portico aggiunto e la porta, si apre in mezzo un andito che alcuni impropriamente appellano pronao, decorato anche esso a destra e sinistra da due pilastri per parte di marmo bianco, fra i quali rimangono ancora alcuni riquadri di marmo pentelico, ornati di candelabri, encarpj, ed istromenti da sacrificio, come gli altri citati di sopra, e dello stesso stile. E inutile agl'intendenti di ricordare, che, fra questi riquadri, quelli che sono di stucco ed in luogo di sacri vasi della religione etnica portano calici della religione cristiana, sono moderni. La porta è la porta antica del tempio: gli stipiti e l'architrave sobriamente ornali sono gli originali: essa compresa la cornice è alta quanto le colonne del portico, cioè 47 piedi e perciò può offrire una illustrazione al capo VI. del IV. libro di Vitruvio dove si tratta di questa materia.

Stampa antica del Pantheon di Roma

Il vano di questa porta è di circa 32 piedi di altezza e 20 p. di larghezza: questo vano è in parte chiuso dalle imposte, in parte da una grata: le une e l'altra sono di bronzo: le imposte girano sopra a cardini ed hanno 24 piedi di altezza, la grata 8: questa sembra poter provare che servì a dar lume all'interno quando, essendo divenuto tempio per dare al luogo maggior santità si chiuse l'occhio del tolo con quella pina di bronzo, che oggi è nel giardino di Belvedere, e che diè origine alla tradizione de' bassi tempi, che il Pantheon era consacrato a Cibele. La soglia è un gran masso di marmo chio, o africano, lungo 20 piedi. L'interno per la vastità, l'accordo delle proporzioni, e la unità delle linee, è una delle opere più grandi che abbia fatto la mano dell'uomo, e sempre incauta: sembra molto più grande di quello che è realmente, e ciò si deve alla unità delle linee e fa contrasto colla Basilica Vaticana, che vastissima quale è, pare molto minore all'occhio di chi vi entra, perché le linee sono sempre interrotte: difetto massimo, che gl'idioti soli trovano un pregio, poiché scopo dell'architetto deve essere, che l'opera signoreggi sempre ed apparisca maggiore e non minore di quello che è di fatto. Questa cella ha 1OO. piedi di diametro non compresi gli sfondi delle edicole, e 162 piedi di altezza massima senza comprendervi l'ornato di bronzo che gira attorno all'occhio che le dà lume.

Il pavimento è composto di gran compartimenti rotondi e quadrati, di porfido, granito, marmo frigio, e marmo numidico. La elevazione di questa sala può dividersi in tre parti, che io chiamerò ordine, attico, e tolo. Nell'ordine oltre la porta apronsi intorno sette nicchioni alternativamente rettilinei e curvilinei: e fra questi sporgono in fuori otto edicole, o tabernacoli, divenuti altari cristiani: ciascuno de' nicchioni è ornato di due colonne e di due pilastri, che alternativamente sono di marmo numidico e di marmo frigio: il nicchione dirimpetto alla porta invece di avere le colonne sotto l'architrave che gira intorno a tutta la sala le ha sporgenti in fuori diuanzi: e mentre le altre sono scanalate e striate semplicemente, queste sono ornate di un tondino o baccello in luogo del listello. Tale varietà facilmente si attribuisce alla circostanza, che quella nicchia conteneva la statua del nume principale del tempio, e mentre si perdona a tal motivo quella interruzione dell'ordine generale , non può egualmente perdonarsi la opinione di coloro che sognarono essere state in origine tutte le colonne dell'interno poste nella stessa guisa. Queste colonne hanno 3 piedi e 4 di diametro, e 35 p. e mezzo di altezza, ed hanno capitello e base corintia. Gli otto tabernacoli alti circa 28 piedi erano in origine sostenuti ciascuno da due colonne di marmo numidico giallo antico, scanalate, o da due colónne di porfido liscie, in guisa che le due nicchie, più adiacenti alla porta ed al nicchione di fronte aveano colonne di giallo, le altre due intermedie colonne di porfido: allorché il tempio fu ridotto in chiesa furono tolte quattro delle colonne di porfido per fare la confessione, ed in luogo di esse furono poste colonne di granito bigio: tolta la confessione da Clemente XI. le quattro colonne di porfido non furono più rimesse al loro sito: due ne furono successivamente vendute e distratte come narra il Fea il quale dice che fino all'anno 1773 le altre due rimanevano nella ultima cappella a destra presso la porta della sagrestia. Queste però furono da papa Pio VI. trasportate alla biblioteca vaticana ad ornamento delle ultime sale del braccio destro, dove oggi si veggono. Queste colonne sostengono piccoli frontespizii, quelle di giallo acuminati, quelle di porfido rotondati. Esse hanno un piede e mezzo di diametro e 14 e mezzo di altezza: e sono di ordine corintio. Le pareti sono distinte in compartimenti rettilinei e rotondi, ed impellicciate di marmi fini, frigio, chio, numidico, tessalico, e porfiretico.

Semplice e di squisito lavoro è la cornice che separa l'ordine dall'attico. Citansi da Plinio lib. XXXVL c.V. nel Pantheon cariatidi di bronzo scolpite da Diogene ateniese, che godevano molta riputazione: citansi pure capitelli di bronzo siracusano.

Stampa antica del Pantheon di Roma

Né le une, né gli altri più rimangono perché probabilmente perirono nell'incendio di questo tempio avvenuto l'anno 80 della era volgare. I moderni architetti e gli archeologi si sono lambiccati il cervello per indovinare il sito delle cariatidi che Plinio dice in columnis: ognuno ha voluto aguzzare il suo ingegno e far pompa di gusto, secondo le epoche in cui vissero, senza mai venire ad un risultamento probabile. A tante ipotesi fatte da loro sarà lecito anche a me aggiungerne una, stando strettamente attaccato alle parole di Plinio, e non supponendo (poiché non ne abbiamo argomento sufficiente) il testo suo corrotto: io credo che quelle immagini di cariatidi in bronzo fossero specie di bassorilievi addossati alla parie anteriore delle colonne primitive dell'interno del tempio, le quali aveano capitelli di bronzo siracusano, e che insieme colle colonne e co' capitelli perirono nell'incendio di Tito. L'attico era ornato di quattordici nicchie rettilinee, che ancora si veggono, quantunque siano state deformate nella proporzione nell'anno 1747, quando un goffo architetto per farle più alte vi aggiunse frontespizii, e spogliò tutta questa parte del tempio della ricca decorazione di marmi per sostituirvi balordi riquadri di stucco. Prima di questa nefanda innovazione fra ciascuna nicchia ricorrevano quattro pilastrini di porfido con basi e capitelli di giallo, e fra i pilastri erano riquadri variati di marmi fini, laconico, nuraidieo, tessalico, frigio e porfiretico. Quest'ordine di pilastri e di nicchie era coronato da una leggiera cornice ancora esistente, e poggiava sopra un nobile basamento di pavonazzetto con base e cimasa di marmo bianco, siccome può vedersi nella tavola XII. della II. parte de' Tempj Antichi di Francesco Piranesi, che fortunatamente ci ha conservata la decorazione antica delle parti superiori di questo tempio scomparsa pel ristauro sovraindicato.

La volta del tolo, che oggi vedesi semplicemente distinta in incavi quadrati, era elegantemente ornata di cassettoni della stessa forma, contenenti rosoni e decorati con ovoli, fusarole ec. e fasciati con tenie che racchiudevano rosoni di stucco: Piranesi che ne vide le traccie, riferisce essersi rinvenuti sotto gli stucchi grossi perni e lamine di bronzo, che egli crede indicare, che gli ornamnenti, prima del ristauro di Settimio Severo, erano di quella materia. Di bronzo dorato infatti è l'ornato ancora esistente intorno all'occhio della cupola.

Dopo avere esposto i particolari di questo tempio è tempo indicarne brevemente la storia, e chiudere questo articolo col determinare la epoca, alla quale le parti di esso ancora esistenti appartengono. La iscrizione citata a suo luogo è prova positiva che Marco Vipsanio Agrippa genero di Augusto nel terzo suo consolato cioè nell'anno 726 di Roma fondò questo tempio.

Esso fu dedicato principalmente a Giove, soprannomato Ultore, e Vendicatore, e venne appellato Pantheon come mostra Plinio lib. XXXVI. e. XV. §. XXIV. o Pantheum, secondo la iscrizione di Settimio ancora esistente e riportata di sopra, onde i Greci come Dione lib. LUI. e. XXVII; lo dissero Πανθεον. Gli antichi dedussero la etimologia di questo nome da due origini: cioè da quella che nelle immagini di Marte e Venere contenne quelle di molti numi, considerando queste due divinità, come i principi attivo e passivo della natura, ai quali rannodavansi tutte le divinità del paganesimo: ovvero, dalla forma della sua volta sferica simile a quella del cielo, che dappertutto si vede, secondo Dione citato di sopra. Esso fu terminato nell'anno 728, quindi questa gran macchina fu nello stretto spazio di Ire anni edificata e compiuta: ciò si trae dallo stesso Dione.

Il passo di Plinio lib. XXXVI. e. XV. §. XXIV. che ricorda la magnificenza di questo tempio fece supporre ad alcuni, che ne fosse architetto Valerio Ostiense: le parole però di quell'autore dimostrano precisamente il contrario: egli dice così:

Pantheon Iovi Ultori ab Agrippa factum QUUM THEATRUM ANTE TEXERIT noMAE Valerius Ostiensis architectus LUDIS LIBONIS.

Stampa antica del Pantheon di Roma

Ora i giuochi di Libone sono i famosi giuochi scenici celebrati l'anno 560 di Roma, cioè 166 anni prima della fondazione del Pantheon, molto celebri nell'antichità, perché furono i primi giuochi teatrali dati in Roma, e perché in tale occasione per la prima volta con gran dispiacere del popolo per mozione di Scipione Affricano, il senato ebbe nel teatro posto distinto dalla plebe. Veggasi Livio lib. XXXIV. e. LIV. Valerio Ostiense pertanto immaginò per maggior commodo publico di coprire quel teatro di Libone, edificio, che sebbene fosse di legno era assai vasto, e perciò presentava gran difficoltà per la copertura. Quindi, Plinio, citandolo a confronto della volta del Pantheon così sorprendente, insinua una meraviglia tanto maggiore quanto quella che nasce da un soffitto di legno messo a paragone con una volta sterminata di muro. Oltre le statue di Giove Ultore, di Marte, e di Venere, la quale ebbe per orecchini la perla di Cleopatra rimasta illesa secondo Plinio lib. IX. e. XXXV §. LVllI. e Macrobio Saturnali lib. III. e. XII. contenne pure la statua di Cesare per testimonianza di Dione e forse quelle di Romulo, o Quirino fondatore della città, di Pallade, e di Giunone protettrici di essa. Agrippa ebbe in animo di collocarvi quella di Augusto e di porre il nome di lui sul tempio come autore di esso: l'imperadore però vi si oppose e solamente permise che la sua statua si collocasse nel pronao insieme con quella di Agrippa secondo lo storico sovraccitato: ed infatti l'una e l'altra furono poste nelle due nicchie del portico, e dalla dimensione di queste può con certezza asserirsi che fossero colossali. Andò soggetto ad un incendio ai tempi di Tito nell'anno 80 della era volgare come narra Dione lib. LXVI, e. XXIV. e Domiziano lo riparò nell'anno 93 secondo Cassiodoro. Arse di nuovo sotto Trajano per la caduta di un fulmine nell'anno 110. Adriano lo risarcì, per testimonianza di Sparziano. Si crede che fosse pur ristaurato da Antonino Pio, leggendosi in Capitolino nella vita di quell'Augusto, che egli ristaurò un Templum Agrippae; altri però potrebbero credere questo templum Agrippae un edificio diverso dal Pantheon, che sempre col suo nome proprio è negli antichi scrittori greci e latini indicato.

Stampa antica del Pantheon di Roma

Certamente vi fecero molti ristauri nell'anno 202 gl'imperadori Settimio Severo ed Antonino Caracalla, siccome leggesi nella iscrizione riportata di sopra. Questa è l'ultima riparazione, della quale la storia faccia menzione prima della caduta dell'impero occidentale. Da quella epoca fino all'anno 554 non si hanno altre memorie di questo tempio, allorchè fu veduto da Costanzo nella piena sua integrità. Nell'anno 399 per la legge di Onorio, riferita fu chiuso, come tutti gli gli altri templi consacrati al culto antico, e così rimase fino all'anno 608. quando il pontefice Bonifacio IV. l'ottenne da Foca per farne una chiesa, e lo consacrò sotto il titolo della Madre di Dio, e de' ss. Martiri, donde derivò il nome di s. Maria ad Martyres, che ancora ritiene. Nulladimeno nell'anno 663 questo tempio rispettato fin allora in tutte le grandi catastrofi di Roma, andò soggetto alla vile e sacrilega depredazione di Costante II. o Costantino III. imperadore bizantino, il quale ne' dodici giorni che rimase in Roma espilò tutti i monumenti di bronzo, e le tegole di questo stesso metallo che coprivano il tetto del Pantheon come narrano Paolo Diacono, Giovanni Diacono, Epitome, ec. Quel depredatore non godé il frutto di tale spoglio, poiché mentre divisava di ornare con queste dovizie Costantinopoli, preso porto a Siracusa, ivi fu per le sue libidini miseramente ucciso nel bagno, e sopraggiunti dall'Egilto i Saraceni trasportarono in Alessandria questo ricco bottino. Veggasi Paolo Diacono lib.V, e. XIII. Ora il Pantheon spogliato della sua copertura di bronzo restò esposto per più di sette secoli alle intemperie dell'airia, cioè dall'anno 663 al 1425. Martino V. magnanimo pontefice, a cui Roma e le arti debbono tanto, cominciò a farlo coprire di lastre di piombo, lavoro che fu proseguito da Eugenio IV e compiuto da Nicolò V. nell'anno 1452 siccome ricavasi dalle iscrizioni ancora esistenti sul tolo verso mezzodì. Dopo che Bonifacio IV. ebbe ottenuto dall'imperadore Foca questo tempio esso divenne immediata dipendenza, e dominio de' Pontefici in guisa che nella formola di giuramento, che il senatore prestava al papa, e che è riportata da Cencio Camerario, questi obbligavasi a sostenere il pontefice a ritenere, difendere, e ricuperare s. Pietro, la città dì Roma, la città Leonina, Trastevere, l'Isola, il castello di Crescenzio (la mole Adriana) s. Maria Rotonda, il Senato, la Moneta, cioè la zecca ec: e come d'immediato dominio del papa il pontefice Anastasio IV. vi costrusse un palazzo nell'anno 1154. Eugenio IV. poco fa ricordato non solo continuò la copertura di piombo cominciata da Martino V. ma secondo il Biondo purgò il portico da sordidissime taberne, che v'erano state addossate in guisa che di nuovo rividero la luce le basi, ed i capitelli delle colonne, e l'area dinanzi lastricata di travertino. In tale occasione fu scoperta la magnifica urna di porfido, che il volgo appella per tal ragione l'urna di M. A grippa, e che oggi come sepolcro di Clemente XII. ammirasi nella cappella Corsini al Laterano: allora pure dissotterrossi uno de' leoni di basalto che poscia Sisto V. trasportò alla Fontana di Termini, un frammento di testa di bronzo, creduto ritratto di Agrippa, una zampa di cavallo, ed un frammento di ruota dello stesso metallo, forse parte della quadriga che ornava l'acroterio centrale. Questi frammenti di bronzo fino dal declinare del secolo XVI. erano scomparsi, e forse furono fus. Ad onta delle cure di Eugenio IV. l'area si ricoprì di nuovo, e l'urna co' leoni restò un'altra volta sotterrala dagli scarichi; ma Clemente VII. fece nell'anno 1525 ritornare alla luce questi monumenti per opera di Ottaviano della Valle, siccome apprendiamo dal Vacca, testé citato, e dal Fulvio.

Stampa antica del Pantheon di Roma

Che di nuovo s'ingombrasse il portico di tugurii, ricavasi da una stampa rappresentante il prospetto di questo monumento oppartenente al primo periodo del secolo XVII. nella quale la colonna angolare nord-est, si mostra senza capitello. Paolo V nell'anno 1611 fece bandire i venditori dal portico ed atterrare i loro casotti, commettendone la cura al presidente delle Strade Lelio Biscia. Urbano VIII, rialzò la colonna angolare, e se ne vede lo stemma gentilizio dell'ape, che è scolpita nella rosetta del capitello medesimo: gli amatori delle arti però deplorano la perdita delle travi di bronzo dorato che sostenevano il letto del portico, e che erano ancora superstiti, le quali furono tolte per ordine di quel pontefice circa l'anno 1632. per farne colonne alla Confessione Vaticana, ornamenti alla Cattedra di s. Pietro ed un centinajo di pezzi di artiglieria in Castel s. Angelo: memoria di questo spoglio si ha nella iscrizione a sinistra della porta del tempio.

Leggo nella dissertazione sulle rovine di Roma scritta da Fea, che il peso de' metalli tolti ascese a 450,250 libre, delle quali i soli cannoni di Castello ne assorbirono 448,286, avvertendo però che da questa seconda partita se ne debbono diffalcare 37,508 prese da altra parte: e questo bronzo impiegato ne' cannoni fu allora valutato 67,260 scudi: ora s'immagini per un momento a che somma dovette ascendere il totale del bronzo allora tolto, ed a quale la spesa originale di questa fabbrica con tutti gli ornati. Afferma lo stesso Fea che in tale occasione venne fuori il detto così noto:

Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barbarini.

Fino dall'anno 1270 a dì 2 di giugno, il clero addetto a questa chiesa avea fatto edificare un rozzo campanile in mezzo, e vi avea posto campane, siccome leggesì nella iscrizione contemporanea ancora esistente a destra della porta, riportata dal Galletti. Urbano VIII, ne' lavori, che fece al Pantheon v'unì quello di demolire questo vecchio campanile ed edificarne de' nuovi, che sono quelli esistenti, pe' quali, e per gli altri ristaurl spese scudi 15,000 in circa, secondo i conti consultati dal Fea. Anche di questa opera lasciò memoria in una iscrizione a destra simmetrica all'altra che si legge a sinistra, ed indicata di sopra. Alessandro VII. nell'anno 1662 ristaurò intieramente la parte mancante del portico verso oriente, facendovi alzare due colonne di granito rosso trovate presso la piazza di s. Luigi de'Francesi, e perciò ne' capìtelli è espressa la sua arme gentilizia: fece sgombrare il portico fino al piano antico: e disfece parecchie case presso il lato orientale del portico.

Veggasi Fea che riporta varii chirografi relativi a questi lavori in data 24 de' luglio, e 5 agosto, e 4 novembre 1662. In tale occasione si scoprì di nuovo il piano antico esterno di travertini: si rinvenne un gran basamento di marmo, che fornì il materiale per le basi delle due nuove colonne, ed un brano di muro non anteriore all'anno X. di Adriano, essendosi trovato un marchio col consolato di Tiziano e Gallicano. Clemente XI. abbassò la piazza fino al livello attuale, ornò la fontana coll'obelisco rinvenuto molti anni prima presso la chiesa di s. Macuto, e ristaurò il tempio. Benedetto XIV. nel 1747 fece ripulire i marmi della cella, e la fece ristaurare; discomparvero però allora, come si è indicato a suo luogo i marmi dell'attico, la sua architettura, e gli avanzi degli stucchi della cupola. Nel pontificato di Pio VII. fu scoperto il piano antico esterno verso occidente, e la parte anteriore della copertura di piombo fu rinnovata. Oggi si ha per questo monumento tutta quella cura che merita nel duplice aspetto delle arti e dell'Archeologia. Fare una lunga analisi della bellezza di questo edificio sarebbe uscire dallo scopo di questa opera o ripetere quello che in molti libri si legge. Considerando però le sue parti descritte in principio di questo articolo, io credo che evidentemente vi si scorgano tre epoche diverse non calcolando punto le moderne innovazioni, ed i risarcimenti ivi fatti da quattro secoli a questa parte. La massa dell'edificio appartiene ad Agrippa senza alcun dubbio sì per la costruzione che per gli ornati; ma nell'interno le colonne delle sette nicchie principali indicano per lo stile de' capitelli e delle basi l'era di Adriano: le edicole, il rivestimento de' muri, e quello dei pavimento l'era di Settimio Severo.

In tal guisa mirabilmente si accordano le parti diverse di questo edificio colle autorità riferite, che ne indicano i principali ristauri.

ROMA NELL'ANNO MDCCCXXXVIII DESCRITTA DA ANTONIO NIBBY - 1839