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RIONE TRASTEVERE

Statua di Gioacchino Belli
Statua di Gioacchino Belli

Ci avete parlato di S. Pietro e del Vaticano, di statue e di quadri; e non ci avete detto nulla ancora della città leonina, nulla di Trastevere, che tutti i poeti hanno decantato, e tutti i pittori riprodotto in cento modi. Eccomi qua: e, a dirla schietta, ho più bisogno io di votare il sacco delle mie impressioni su Trastevere che forse voi di saperne.

Trastevere è un nome poetico, c'è in questo nome un non so che d'indicibile e di imponderabile per cui alcune parole vi suonano dolci e vi risvegliano mille ricordi, mentre altre suonano antipatiche e uggiose, come note tetre, tristi, particelle frammentarie di una lugubre sinfonia che ci appaura. E Trastevere, un tempo e non lontano, era poetico come il suo nome, le Trasteverine erano molto belle (almeno così dicevano i poeti), amavano fortemente e uccidevano con un colpo della spadetta, che portavano conficcata nelle trecce, l'amante infedele, e andavano intorno vestite de' più lieti colori, e molte con la magnosa bianca e linda e odorosa, come le ciociare tusculane e tiburtine, e gli uomini portavano fieramente a sghembo il cappellaccio a cencio, il cappellaccio tradizionale da congiurato di tragedia o di melodramma e una fascia rossa intorno alla vita. I pittori romani o non romani, i pensionati di Francia, di Inghilterra e di Lamagna scorrazzavano per le vie trasteverine in cerca di ispirazioni, di baci e di colpi di spada; la sera si suonavano le chitarre a luce di torce a vento per le stradette oscure e birbone e si raccoglievano garofani gittati dalle bianche mani di amorose fanciulle, o si trincava allegramente, nominando spesso il nome di Dio invano, in un cantuccio oscuro, all'ombra di una lampada fumosa.

I cardinali e i gran signori, travestiti, venivano di soppiatto a vedervi i loro bastardi destinati ad essere trabalzati sulle soglie dorate del Vaticano o morire di veleno per mano dell'ambizioso parente. E nell'ottobre, le minenti, le popolane grasse, andavano in giro, in carrozza, sole, abbigliate lussuosamente e col capo scoperto e i sor mariti, soli anche loro, in altre carrozze. Venne il 49, e tutto questo in gran parte sparì. La libertà, un po' intraveduta e poi scacciata col sangue, gettò, per vendicarsi, un velo di malinconia su ogni cosa, e i colori vivi e chiassosi a poco a poco sbiadirono, e poi furono buttati nella sporta del cenciaiuolo; i larghi cappelli a cencio non si videro e non si videro più le sciarpe rosse intorno la vita de' bei garzoni e le spadette nelle trecce lucenti delle provocanti ragazze; i pittori emigrarono e la vernice moderna fu passata su tutta quella seducente poesia, su quella gaia scienza della vita. Ed ora que' giorni non sono che un ricordo. Ci son rimaste soltanto le minenti che vanno in giro sole in carrozza e col capo scoperto. Ci è rimasto solo la irregolare ossatura di Trastevere senza la calda vita di una volta e la smagliante tavolozza che rendeva di ogni stradicciuola torta, di ogni vicolo cieco un quadro di genere pieno di grazie e di seducenze irresistibili. Ora Trastevere non è Trastevere, come a Parigi il quartiere Latino non e più il quartiere Latino di Mürger, di Nerval e di Alfredo de Musset. Il lieto colore di Trastevere è stato cancellato dal tempo e dagli eventi, e vi pare che la campana di Sant'Onofrio, del più piccolo e del più simpatico convento del mondo, non vi dica altro, co' suoi rintocchi lenti lenti, che ad uno ad uno i dolori del povero Torquato.

Trastevere è, come tutti sanno, la Roma della sponda destra del Tevere, ed è composto di due parti distinte, di Trastevere propriamente detto, e della città Leonina, o Borgo, formato dal Vaticano e S. Pietro e da tre vie, che, partendo dalla piazza S. Pietro, convergono a Ponte Sant'Angelo. Questa parte di Roma si chiama città Leonina, perchè il primo che la fortificò e la volle rinchiusa nelle vecchie mura fu papa Leone IV. Trastevere, che è piccolo in paragone della città della sponda sinistra, corre tra il fiume e le colline del Vaticano e del Gianicolo, detto anche Montorio per il dorato colore delle sue sabbie.

Trastevere è piccolo, ma contiene, forse, i monumenti più visitati della Roma moderna; da un lato il Vaticano, dall'altro Castel Sant'Angelo con le sue truci storie di sangue; sulle colline, Sant'Onofrio, povero di mura ma ricco di onori; più in la S. Pietro in Montorio, fabbricato sull'antica rocca Gianicolese di Servio Tullio; e più in alto la fontana Paolina, la più copiosa fontana di Roma; e sulla Lungara, la Farnesina, ove ride eternamente la bella Galatea di Raffaello. A piè di questi monumenti son gettate le case popolane come tante pennellate di un pittore a guazzo.

Ho girato con amore le vie trasteverine, per lungo e per largo, dove sono larghe, ho visitato uno ad uno que' chiassuoli e quelle piazzette, e mi è sembrato di vedere una città fabbricata da tanti cervelli matti con la monomania di far uscire delle seste i cervelli di tutti gli architetti di questo mondo; un fabbricare come vien viene tutto ad angoli salienti e rientranti, una città per estensione di fabbricati senza la città, insomma una borgata enorme, capricciosa, pittoresca. Figuratevi sette od otto o nove o dieci paeselli con le loro viuzze a sghembo, le case ineguali, surte una dopo l'altra ad intervalli di tempo e di gusto, con le loro piazzuole ombrose e faccendiere, azzeccati l'uno vicino all'altro, e avrete un'idea approssimativamente esatta di Trastevere.

Sicchè Trastevere è un quartiere che bisognerebbe demolire, indegno di Roma, della capitale d'Italia, dove son tanti monumenti, dove in sè tutta quanta la città è un monumento, eppure non è come i quartieri popolari delle altre città, non vi dà nausea, non vi fa ribrezzo, non vi rappresenta quello impasto orribile della miseria col sudiciume che fa stomaco. Le stradicciuole sono strette, torte e ritorte, forse non pulitissime, ma nemmeno imbrattate ed esalanti forti e cattivi odori, e a percorrerle vi suscitano mille lietissime immagini.

Sono strette, ma non vi affogano, perchè per lo più, le case non alte sono qua e là interrotte da un muricciuolo che lascia affacciare un oleandro od un mandorlo, o si apre su' vostri passi una porticina, che vi lascia vedere giù in fondo un'ombra misteriosa, dalla quale vi giunge l'eco di una canzone d'amore, e tal'altra vedete intorno ad un tavolo sparso di bicchieri certi pallidi visi contornati da nerissimi capelli, delle fanciulle spesso non belle, ma interessanti, modellate alla brava, che bevono senza tanti discorsi tra un giovinotto a destra e un altro a sinistra.

E poi qua e là vi spruzza sul viso una manata d'aria, una piazzuola allegra, pulita trapeziale, capricciosa, che pare il cortile d'una gran casa rustica, sovente ornata di una chiesuola che vi ricorda il sagrato del vostro villaggio co' bimbi che gridano e saltellano sui gradini di pietra.

E da una piazzuola si esce in una viuzza, e da una viuzza in un'altra, tutte a seni ed a golfi, tutte piene di sfondi e di scorci bizzarri; lì un abituro con una finestrina bassa mezzo nascosta da' cespi rampicanti di un gran vaso di garofani schiavoni; qui un largo cortile che finisce in fondo in una scaletta tortuosa, che vi invita ad entrare con la scritta leggendaria: Est locanda, la quale par che getti sulle guance un soffio gentile di latinità. In un altro punto la viuzza stringe stringe, tanto da potersi dar la mano da una finestra all'altra per scambiarsi i garofani ed i gelsomini che profumano i piccoli davanzali di legno. Ora uscendo dalla piazzetta vedete il biondo Tevere, ora lo cercate invano a mezzo gli sbocchi delle stradicciuole, le quali par che lo nascondano gelosamente coadiuvate dallo steccato dei lavori di sistemazione, che permettono di vederlo per uno spiraglio, tra una tavola e l'altra. Con le scritte di «est locanda» che si vedono eternamente incollate al sommo delle misteriose scalette, promettitrici di soavi avventure, si alternano quelle che promettono i piaceri di Bacco, e dappertutto trovate ad affittare una camera ed a bere un bicchiere di tutti i paeselli che circondano Roma e la inondano del sacro succo della vite. Tra tante scritte ne ricordo due: ad una estremità di Trastevere, alle spalle di S. Pietro, salendo la via del Mosaico su un muricciuolo scialbato, lessi: Qui si vende vino miracoloso, che viene offerto da due diavoli neri con la coda, dipinti sul muro da un artista che non ha mai sognato di far concorrenza a Raffaello; e di qua verso la Lungarina, su un portoncino, lessi: Veleno a cinque soldi il litro. In queste due scritte ci si sente lo spirito romanesco. E dappertutto si vedono spenzolare dalle modeste finestre de' lunghi gambi di garofano, il fiore prediletto delle Trasteverine, come è il fiore prediletto in tutti i villaggi, e specialmente ne' paesi di montagna, perchè quel fiore, col suo rosso vivo, col suo acuto odore, quasi simbolo di bellezza e di costanza, seduce le giovani fantasie dei forti e delle belle che lo prediligono.

E di tanto in tanto tra il profumo de' garofani e l'acre effluvio de' vini si sente un odor di cedri e di limoni della banca di una acquaiuola, che vi guarda di lontano, e spesso, vi fa venir sete d'amore.

Cercai, ho cercato, e cercherò sempre che ritornerò in Roma le splendide bellezze trasteverine tanto magnificate da' poeti e da' viaggiatori di tutto il mondo, ma confesso che finora non mi pare che in Trastevere le donne sieno più belle che nel resto di Roma. Io vi sono andato di giorno e di notte, in ogni ora e soprattutto ne' giorni di festa, e nella vigilia di S. Giovanni e nel giorno di S. Pietro per aver agio di vederne molte. Ne' giorni di festa tutte le comari e le comarelle si seggono in file fuori gli usci e lì incominciano un chiacchierio interminabile, e guai a chi ci capita. Però, se le donne di Trastevere non sono più belle delle Romane dell'altra sponda, anzi mi pare che sieno meno belle, in Trastevere mi è capitato di vederne due bellissime, due di que' tipi prepotenti che sono creati apposta per fare impazzire gli uomini e renderli, a seconda de' casi, o angeli o demoni. E allora soltanto potei ricordarmi della Fornarina di Raffaello e capii come fosse stato così prestamente succhiato dal più dolce de' vampiri, come cantò l'Aleardi.

Le vidi tutte e due in una sera calma e dolce d'estate, tra il rumore di carri accorrenti, di soldati affrettati, e la luce fumosa delle torce a vento dei pompieri che andavano a spegnere un incendio divampato in un opifizio in via San Francesco di Sales. Pallide ambedue e voluttuose, cogli occhi vivi e mobilissimi, cerchiati da una leggera tinta violacea che accusava le insonni notti o ardenti e ripetuti amplessi.

Una di esse, accompagnata dalla sorellina, abitava sulla Lungara in una modesta casetta guardata dalla vecchia mamma e profumata dalla rituale testina di garofani. L'altra, più alta, più maestosa, una bellezza insolente come direbbe un mio amico donnaiuolo, era accompagnata da un giovane che se la mangiava cogli occhi. La pedinai lungamente, ma mi ricordo che in un punto, alla svolta di una stradicciuola, presso l'antica via delle Fornaci, se non mutavo prudentemente direzione, solo lì, a tarda none, inerme, e poco pratico di quel labirinto, due dita di buona lama tra le costole non potevano mancarmi. Ella non aveva la famosa spadetta nelle trecce, e mi lusingo che avendola non sarebbe stata così crudele di ferirmi con essa quando mi aveva così profondamente ferito con gli occhi.

E quelle sere spesso ho provato il più vivo piacere a percorrere così all'impazzata quelle viuzze di Trastevere, uscire un momento sulla piazzetta di Ponte Sisto piena di Luce, di voci, di popolo, e di rumore, affacciarmi sul vecchio ponte, mandare un saluto all'isola Tiberina, e poi ringolfirmi in quel labirinto e correre, correre per la Lungaretta, per la Lungarina, quando di lontano si vede, verso un'ora dopo mezzanotte lo spegnitore de' fanali scamiciato aggirarsi come un fantasma, e si ode un suo lugubre ritornello. Sono poetici questi nomi della Lungaretta e della Lungarina, e di notte, quando tutto a silenzio, quando non si ode altro intorno che l'eco de' vostri passi o il lamento di un cicoriaro (ciociaro più misero) che dorme sui gradini di una chiesa o sotto un portico, questi nomi acquistano un suono più poetico, più mesto, più eloquente per l'animo pieno di ricordi e di speranze. Uscendo da un vicolo in un altro, e guardando qua e là la svelta torricella di Santa Maria in Trastevere, e di là una scaletta come segreta in un oscuro androne, e dirimpetto un muro basso che invita a farsi scavalcare, e più in là una specie di un nascondiglio tra l'insenatura di due case, vi pare che tutto Trastevere sia fatto apposta per fare all'amore, per cantarvi di notte le serenate, con la chitarra a tracolla sul giustacuore di velluto e il pugnaletto pendente lucido dalla cintura; vi pare di dover udire da un istante all'altro da quel nascondiglio o il lamento di un povero giovane ammazzato a tradimento dal sanguinario rivale o lo scocco di un caldissimo bacio. E vi pare che dobbiate incontrare di lì a due passi l'ombra di Raffaello a braccetto col Perugino, mentre una mano invisibile vi dipinge sul muro che biancheggia di fronte alla tremula luce del fanale rispettata dall'ambulante spegnitore, la testa di Michelangelo o di Bramante in proporzioni colossali, sul genere di quella che Michelangelo disegnò con un pezzo di carbone in un timpano della Farnesina, aspettando Daniele da Volterra, o, come altri vuole, il suo grande amico Sebastiano del Piombo.

E così camminando con le mani in mano e col cappello alla foggia, mi pareva di essere lì a quell'ora una stonatura, un disutilaccio, e avrei molto volentieri gettato giù in un cantuccio il mio soprabitino nero e la cravatta di raso per infilare una giacca di velluto, annodarmi la cravatta rossa e intonare la mia canzone.

Ma ero costretto a tirare innanzi coll'ultimo figurino di moda, e nessuna Rosina si affacciava per ricevere le mie dichiarazioni d'amore. E mentre tutta questa roba, reminiscenze d'arte, sogni d'amore e visioni da poeta si rimescolava nella mia mente, correvo senza volerlo, col pensiero a Sant'Onofrio, lì a pochi passi lontano, che ricorda il povero Torquato, che tanto valeva con la penna e con la spada.

Ed ecco perchè più di una volta, senza farlo apposta, correndo per Trastevere, le gambe vi portano sul piazzale e sotto l'elegante e piccolo portico di Sant'Onofrio, illustrate dalle passeggiate del Tasso, e dal pennello del Domenichino. E più di una sera tornavo a casa sognando una visita alla cameretta e alla quercia leggendaria di Sant'Onofrio.

ROMA - CARLO DEL BALZO - 1882

Fijji bboni a mmadre tareffe

C’hanno da fà de ppiú, pe ddio sagraschio?

La femmina che llei fesce a Ccorneto,

fa la tela d’olanna, e er fijjo maschio

le cannele de sego de Spoleto.

Cià un’antra fijja, sí, mma cquella è un raschio,

si lla vedi, ppiú ffina de sto deto:

duncue me pare che a li fijji, caschio!,

si jje dà vvino nun riccojje asceto.

Ma llei tratanto sta vecchiaccia porca

magna a le spalle loro, e spenne e spanne

pe ttrovà chi jje sbuggeri la sorca.

Pe mmé, la mannerebbe a Rripagranne

(già cche cquì pe le donne nun c’è fforca)

a ccompità er crimìni-vinnicanne*.

G.G.Belli

* La casa di correzione detta di S. Michele, presso il porto di Ripagrande sul Tevere, il cui prospetto mostra la seguente iscrizione: Cohercendae mulierum licentiae et criminibus vindicandis.

La morte der zor Meo

Sí, cquello che pportava li capelli

ggiú pp’er gruggno e la mosca ar barbozzale,

er pittor de Trestevere, Pinelli,

è ccrepato pe ccausa d’un bucale.

V’abbasti questo, ch’er dottor Mucchielli,

vista ch’ebbe la mmerda in ner pitale,

cominciò a storce e a mmasticalla male,

eppoi disse: "Intimate li fratelli".

Che aveva da lassà? Ppe ffà bbisboccia

ner gabbionaccio de Padron Torrone,

è mmorto co ttre ppavoli in zaccoccia.

E ll’anima? Era ggià scummunicato,

ha cchiuso l’occhi senza confessione...

Cosa ne dite? Se sarà ssarvato?

G.G.Belli

Santa Maria in Trastevere

Santa Cecilia in Trastevere

Santa Maria della Scala

San Cosimato

Graffiti a Trastevere

Rione Trastevere