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Piazza di San Pietro

1887 - Progetto per un nuovo accesso alla piazza

Piazza San Pietro
Piazza San Pietro

Nel Piano regolatore della città di Roma presentato al Consiglio Comunale nel decembre 1881, era compreso il disegno di demolire le isole di caso poste fra il Borgo vecchio ed il nuovo, e fare un grandioso accesso a san Pietro, prolungando la piazza Rusticucci, fino a Ponte sant'Angelo. La spesa enorme, per un'opera d'abbellimento e non richiesta da' nuovi bisogni della città, spaventò il Consiglio; o la Commissione esaminatrice del pro- getto d'accordo colla Giunta, rinunziarono ad includere quella demolizione nel Piano regolatore. In seguito però, quando il rinnovamento edilizio della città crebbe con moto febbrile e irresistibile, e da ogni parte, dentro e fuori di essa, sorgevano quartieri nuovi, e si demoliva e si fabbricava allegramente, e in mezzo a quella fantasmagoria di milioni non c'era disegno così smisurato che, non paresse inferiore alla nostra ricchezza, allora tornò a galla la vecchia idea, e nel marzo 1887 fu presentata al Consiglio comunale una proposta d'ampliamento del Piano regolatore per la sistemazione del Rione Borgo.
Ma non si trattava più semplicemente dell'antico progetto; che anzi esso era modificato e amplialo in modo da sconvolgere e rinnovare tutto il Rione di Borgo. E tale fu approvato senza discussione.
Tutto ciò che riguarda san Pietro, il più gran monumento dell'età moderna, dovrebbe interessare non solo quelli che studiano e amano l'arte e la storia, ma generalmente ogni colta persona. Dal nuovo progetto ci guadagnerà san Pietro o ci perderà? Che danno verrà dalle demolizioni all'arte e alla storia? Tali questioni, convien confessarlo per quanto sia sconfortante, non sono sembrate meritevoli di discussione. Che un progetto, l'esecuzione del quale porterà una spesa di non si sa quanti milioni, si eseguisca o non si eseguisca, con vantaggio o con danno del più gran monumento del mondo, e della storia e dell'arte, è cosa che non importa molto quasi a nessuno. Quelli che dicono di approvarlo sono così indifferenti come quelli che dicono il contrario. Mi piace nondimeno darne brevemente notizia ai lettori dell'Archivio, tracciar la storia dei progetti fatti fin da' secoli scorsi per la definitiva sistemazione della piazza di san Pietro, e toccar le questioni sopra accennate.
Il che può farsi liberamente, poiché il progetto municipale non è già, per la massima parte, imposto dai bisogni della città ampliata e della cresciuta popolazione, ma consigliato da riguardi artistici, come si esprime la relazione, e dalla grandiosità del concetto edilizio. Quando gl'interessi della storia e dell'arte si trovino di fronte alle necessità della nuova vita cittadina, si deve bensì procurare di conciliar quelli con queste, ma da ultimo i morti debbono cedere il passo ai vivi. I visitatori stranieri son facilmente indotti a riguardare una città come un museo, ma chi ci abita dentro, ha diritto di pensare alle necessità e ai comodi della vita: perciò a coloro in cui il sentimento storico e artistico non ha soffocato il senso pratico e non ha tolto la conoscenza delle condizioni economiche e de' bisogni reali, altro non rimane se non adoperarsi affinché il moto di trasformazione dello città antiche e specialmente di Roma, non trascorra, a scapito delle me- morie e dell'arte, oltre quello che è necessario, e non si getti a mare più parte del carico che non occorra. Ma nel caso presente, ripeto, i bisogni della circolazione e della comunicazione tra vari quartieri non entrano che in una piccola parte del progetto, il quale nella sua sostanza non ha altra ragione che d'abbellimento e di considerazioni artistiche. Si può dunque discorrerne, senza altri riguardi, da questo punto di vista.

Stampa antica della Basilica di San Pietro in VatPalazzo Penitenzieriicano
Progetto del Bernini
La piazza di san Pietro, che si considera generalmente come compiuta, non ha avuto però il compimento voluto dal suo grande architetto il Bernini. Un altro braccio di colonnato doveva chiudere il giro della piazza, lasciando aperti due aditi corrispondenti alle vie di Borgo nuovo e di Borgo vecchio. Così è rappresentata la piazza nella medaglia fatta coniare da Alessandro VII per l'erezione del colonnato, così nella pianta di mano del Bernini conservata nella biblioteca chigiana e in parecchie stampe del tempo d'una delle quali diamo qui la riproduzione. E si noti che anche ne' progetti precedenti dello stesso Bernini, in uno de' quali la piazza era recinta da fabbricati in linea retta e nell'altro aveva figura circolare e non ellittica, essa era sempre chiusa, da tutti i suoi lati. Non ho trovato notizia del pendio il disegno del Bernini non sia stato interamente eseguito. Non mi par credibile però ch'egli stesso abbandonasse l'idea seguita in tutti i suoi progetti costantemente; ma penso invece che, rimasta la piazza non terminata alla morte d'Alessandro VII, i successori, come suol avvenire, non si dessero pensiero di dar compimento, con grande spesa, ad un'opera dalla quale avrebbe ritratto gloria il loro predecessore e non essi.
Secondo, dunque, il concetto del Bernini, la piazza doveva essere un grande un immenso atrio destinato a predisporre l'animo ad entrare nel primo tempio della cristianità. Messo il piede in quell'atrio, la volta del cielo non era limitata che dal gran giro dei colonnati sostenenti le statue de' santi, e dal prospetto della chiesa: tulio doveva concorrere a suscitare il sentimento della grandezza e della maestà divina, e perciò conveniva chiudere ogni vista di vie, di case, di finestre, di botteghe, d'ogni oggetto che valesse a distrar l'animo dalle cose celesti, e richiamarlo alle miserie terrene. L'apertura della piazza Rusticucci è come una parete crollata in una sala, é una breccia che lascia vedere da quel vestibolo del cielo le botteghe del fornaio e del pizzicagnolo.
Ma come il Maderno, senza darsi alcun pensiero del cancello di.Michelangelo, aveva prolungato la chiesa, così altri, senza ricercare che cosa il Bernini avesse avuto in animo, presero a sostituire le loro idee a quelle del grande artista. La Relazione municipale ricorda il decreto dell'amministrazione francese; ma veramente i progetti rimontano ad età ben più remota. Pochi anni dopo la morte del Bernini, seguita nel 1667, l'architetto Carlo Fontana pubblicava, nel 1694, la sua grande opera Il Tempio valicano e la sua origine, in magnifica edizione ricca di disegni e di piante. Il Fontana, della famiglia di quel Domenico che trasportò l'obelisco vaticano ed eseguì tante opere per Sisto V, è autore delle due splendide fontane che adornano la piazza di san Pietro, ed in parte è opera sua il palazzo di Monte Citorio, dove oggi risiede la Camera dei Deputati, lasciato incompiuto dal Bernini. Nella sua opera, il Fontana studia come aggiungere nuovo ornamento alla piazza di san Pietro; e in un primo progetto, tenendo conio del concetto del Bernini che la voleva chiusa, proponeva di prolungarla fin verso la piazza di Scossacavalli, ma chiudendola ai lati con corridoi uguali a quelli che scendono dalla facciata della chiesa ai due emicicli; incontro alla chiesa poi aveva imaginato un portico ed un ingresso trionfale. Ma in un secondo progetto, cui si può vedere la pianta a pag. 245 di quell'opera, abbandonata ogni idea di chiudere la piazza propone di prolungarla, e aprire uno «stradone», com'egli dice, fino a Ponte sant'Angelo. Ecco le parole con cui egli rende ragione del suo progetto: «È tale la grandezza di questo tempio che non potendo essere ben compreso dall'occhio se non in gran distanza, abbiamo voluto tentare di trovare da ogni banda ove possa il medesimo rendere totalmente comparente e visibile il suo proporzionato contorno. Trovato dunque che non in altro luogo possa meglio riceversi la veduta di questo edilizio che di dove termina ponte di Castel sant'Angelo, benché in qualche parte sia impedita la medesima da quell'isola di case che sono tra il ponte ed il tempio, ci pare che sarebbe necessaria, per rendere libera all'occhio la comparsa d'un edifizio sì cospicuo, la demolizione di detta isola, senza aver riguardo a dispendio. Si potrebbero, dal principio dei lati di Borgo sino all'imbocco della piazza, tra li due bracci circolari del nuovo portico, fabbricare altri portici ecc. »

Stampa antica della Basilica di San Pietro in VatPalazzo Penitenzieriicano
Palazzo Torlonia
Il Fontana però non si contentava, come parrebbe da queste parole, di demolire le isole fra i due borghi, ma nel disegno tagliava ai due lati del nuovo stradone, colla prodigalità spensierata di chi sa che il suo piano non sarà messo ad esecuzione. Il lato a destra di chi guarda san Pietro arretrava di poco, tanto da metterlo in linea coll'angolo del colonnato; ma dal lato sinistro faceva un taglio profondo, tanto che sarebbe stata per intero demolita, sulla piazza Pia, la fabbrica che divide la via di santo Spirito dal Borgo vecchio. Così la piazza Rusticucci si sarebbe prolungata, restringendosi quasi insensibilmente, fino a ponte sant'Angelo, e formando un immenso stradone o un'immensa piazza, dal ponte sant'Angelo alla piazza di san Pietro. Oltre le isole, avrebbero dovuto demolirsi, a destra, il palazzo Giraud o Torlonia edificato da Bramante pel cardinal Adriano, e il palazzetto di Giacomo da Brescia che si vuole architettura di Raffaello; e a sinistra, il palazzo de' Penitenzieri, il palazzo Cesi, tutte infine le fabbriche che fiancheggiano da ogni lato il Borgo vecchio ed il Borgo nuovo.

Stampa antica della Basilica di San Pietro in VaticanoA questo smisurato, progetto, un altro più modesto ne tenne dietro nel 1776, del quale pare che siasi perduta ogni memoria. L'architetto Cosimo Morelli d'Imola, autore del palazzo Braschi dove oggi risiede il ministero dell'Interno, nel presentare un progetto per la sacrestia vaticana che Pio VI, Braschi, aveva in animo di erigere, vi aggiunse il disegno di prolungare la piazza Rusticucci fino a ponte sant'Angelo limitandosi però alla demolizione delle isole fra Borgo nuovo e Borgo vecchio. Sotto alla pianta è la seguente leggenda: « Pianta generale da ponte S- Angelo sino a S. Pietro... prodotta l'anno 1776 dall'architetto Imolese Cosimo Morelli, che porta la demolizione dell'isola posta fra il Borgo vecchio e nuovo, che rende mirabile la veduta del grande edifizio». Non contento della pianta, il Morelli dava in un'altra stampa la veduta a volo d'uccello di san Pietro e del Borgo dopo eseguita la demolizione, affinché se ne potesse vedere l'effetto ( Tav. 2. e 3.a ).

Stampa antica della Basilica di San Pietro in VaticanoAi due lati dell'entrata del nuovo grande stradone, dove oggi sono due facciate fattavi sotto il pontificato di Pio IX dall'architetto Poletti, il Morelli aveva imaginato "Due prospetti, come le chiese alla piazza del Popolo, di due portici che fanno l'ingresso al gran spiazzo, con architettura istessa della piazza". Assai opportuno è il ricordo delle chiese sulla piazza del Popolo, poiché veramente assai simile a quella sarebbe riuscita l'imboccatura del nuovo stradone.
L'amministrazione francese, creduta autrice del piano di portar fino a ponte la piazza di San Pietro, non fece altro se non ricavar fuori il progetto di Cosimo Morelli. Il decreto napoleonico de' 9 agosto 1811, così si esprimeva: Art. 1. « L'isola delle case situate in mezzo e fra le due strade dei due borghi del Valicano, che dal ponte sant'Angelo vanno alla basilica di S. Pietro, sarà demolita per ingrandire la piazza di san Pietro». Il piano, perfettamente uguale a quello del Morelli, può vedersi nell'opera del Tournon, Études statistiques sur Rome, (1831) il quale così ne scriveva: «Questa demolizione, proposta e sul punto d'essere eseguita dall'amministrazione francese, avrebbe aperto un largo adito alla piazza di san Pietro, che si sarebbe veduta dal giardino che dovea aver principio sotto alla piazza del Popolo ».
Non è esatto quel che asserisce la Relazione municipale, che cioè la Repubblica Romana del 1849 ripigliasse il progetto dell'amministrazione francese, e gli desse anello un principio d'esecuzione.
Il governo repubblicano, per dar lavoro a degli operai disoccupati, fece demolire alcune case sul principio dei Borghi, formando quel largo che si chiamò poi piazza Pia: ma nessun atto di quel governo dimostra l'intendimento di aprire un nuovo accesso alla piazza di san Pietro.
Il progetto della demolizione delle isole fra i due Borghi fu compreso, come ho detto, nel Piano regolatore presentato dalla Giunta al Consiglio comunale nel 1881; messo allora da parte per ragioni finanziarie, è stato di nuovo rimesso fuori, modificato e ampliato, nel 1887. Secondo quest'ultimo piano, demolite le isole, si lascerebbe in piedi il lato che resterebbe del Borgo nuovo, e quello opposto del Borgo vecchio si taglierebbe « tanto da renderlo disposto (rispetto all'asse della piazza di San Pietro) simmetricamente al lato Nord di Borgo nuovo.» Come può vedersi dalla pianta del Morelli, la linea del caseggiato a sinistra di chi guarda, viene più avanti che quella 'del lato opposto: si tratterebbe di tirarla indietro, a cominciare dall'imboccatura del nuovo stradone, in modo che le due linee andassero a raggiungere i colonnati allo stesso punto.
Così dunque, abbandonato il disegno del Bernini di chiudere la piazza, abbiamo avanti agli occhi tre diversi progetti tendenti ad aprirla maggiormente: il primo (Morelli, amministrazione francese, Piano regolatore) si limita alla demolizione delle isole fra i due Borghi; il secondo (l'ultimo progetto municipale, che è quello approvato) ci aggiunge il taglio del lato Sud di Borgo vecchio; il terzo, e primo di tempo (Carlo Fontana), apre l'imboccatura dello stradone e taglia ambedue i lati. L'ultimo progetto municipale sta appunto, come si vede, nel mezzo tra gli altri due.
La parte comune e sostanziale dei tre progetti è la demolizione delle isole fra i due Borghi.
Ne guadagnerà san Pietro o ne perderà? i pareri sono discordi. Non mancano persone autorevoli alle quali sembra che quello sarebbe un accesso degno del gran monumento; il quale è talmente smisurato, essi dicono, che se ha molto da guadagnare dall'esser messo in condizione d'esser veduto a così gran distanza che l'occhio possa abbracciarlo intorno, non ha però nulla a temere che l'ampiezza dell'accesso possa portar detrimento alla sua grandezza. Non pochi altri, specialmente Ira gli artisti, credono che la grande chiesa ne perderebbe piuttosto che profittarne; e moltissimi poi son quelli che dubitano dell'effetto che produrrebbe.
E mi pare che ci sia per lo meno ragione di dubitarne. Gli ampliamenti delle piazze per mettere i monumenti in miglior vista, non han fatto generalmente buona prova; e non è chi non veda, per esempio, come il Duomo di Milano paja oggi meno grande e solenne che prima. Le dimensioni di san Pietro, non c'è che dire, sono smisurate; ma questo stradone o piazza, si chiami come si voglia, sarebbe tale da dar pensiero anche a san Pietro. Il Bernini, che aveva perfetto il senso delle proporzioni, ha imaginato una piazza enorme proporzionata alla grandezza del monu- mento: l'aggiungervi quell'immenso spazio sarebbe un turbarne all'alio le proporzioni. Il gran teatro della piazza, la più bella, la più maravigliosa opera del Seicento, ne scapiterebbe senza dubbio: quell'impressione che si prova oggi nello sboccare dalle vie di Borgo nuovo o di Borgo vecchio in quell'unico anfiteatro, sarebbe certamente smorzata quando vi si arrivasse per uno si radono largo come una gran piazza. I monumenti non convien metterli in condizioni troppo diverse da quelle in cui sono stati imaginati: si arrischia sempre di guastarli. Se oggi non è più possibile di tornare al concetto primitivo, e più organico, del Bernini, non è forse il meglio di lasciare almeno le cose come sono? Ala veramente, oltre l'aprire questo grande accesso al gran monumento, si adduce a giustificare il progetto una ragione speciale. E nolo che l'architetto Carlo Maderno, mutando la forma della chiesa dalla croce greca in latina, la prolungò lauto che oggi la tacciata non lascia vedere interamente la cupola. Anche ponendosi in fondo alla piazza Rusticucci, non si arriva a vedere se non la metà del tamburo, e delle due cupolette laterali destinate da Michelangelo a l'ornare colla maggiore una figura piramidale, non si veggono quasi che le lanterne, la Relazione che accompagnava il Piano regolatore del 1881, dava appunto questa ragione della proposta: «La ragione era ed è di poter scorgere a distanza conveniente la cupola di Michelangelo in tutta la sua maestà, compreso l'alto tamburo che ne costituisce la principale bellezza.» Ma fortunatamente, di punti da cui possa, a maggiore o minore distanza, ammirarsi intera fin dalla base la grande opera di Michelangelo, ce n'è da scegliere, od uno nuovo e bellissimo se ne avrà tra poco coll'apertura del lungotevere di Tordinona e dell'Orso. E nessun punto forse era più adatto a godere appieno la cupola che i Prati di Castello, dai quali si vede la facciata della chiesa dalla metà in su, e sopra di essa sorgere fin dalla base la gran cupola colle due cupolette che sembrano corteggiarla. Erano prati, erano vigne, dove oggi sta sorgendo un grande quartiere; ma il Piano regolatore ha tracciato le vie in modo che da nessun punto si potrà più vederla. Essa si offriva da se a chiudere con grandiosa prospettiva una o più vie del nuovo quartiere, e invece si direbbe che ci si sia messo studio a nasconderla. Se il mettere in vista, a conveniente distanza, la cupola compreso il tamburo, si giudica di tale importanza da voler per questo demolire tutto un quartiere, perché mai chiudere quella vista dove si poteva averla senz'altro spesa che tirare in altro verso le linee? E ancora si sarebbe in tempo di rimediare in parte all'errore. Fa osservare la Relazione del progetto municipale, che « eseguila la demolizione, il maestoso monumento della basilica Vaticana sarebbe veduto in tutta la sua imponenza fino dai lungotevere e dal punte Umberto I » cioè lungo la linea dell'asse della piazza di san Pietro. Ma per ottener quest'effetto, in quanto alla cupola, non occorre demolir nulla, poiché tolta di mezzo (e dovrà esserlo ad ogni modo per altra ragione) quella casa alta come una torre che divide all'imboccatura il Borgo vecchio dal nuovo, dal ponte Umberto I e da lui la quella linea si vedranno intere la cupola, le cupolette e parte della facciata.
Che se poi non solo voglia vedersi intera la cupola, ma si voglia vedere insieme la facciata tutta intera e le porte e la gradinata, allora certamente bisogna demolire le isole. Ma bisogna persuadersi che il malaugurato prolungamento eseguito dal Maderno ha distrutto irreparabilmente l'effetto immaginato da Michelangelo. Si troverà bensì, con quella demolizione, un punto di veduta comune alla facciata e alla cupola, ma solo ponendosi ad una enorme distanza; e si avrà poi lo sconcio che, nel percorrere il nuovo stradone per avvicinarsi a san Pietro, si vedrà la cupola nascondersi a poco a poco dietro la facciata della chiesa. Bisogna oramai che la cupola si adatti alla condizione di tutte le sue sorelle sorgenti su chiese a croce Latina, cioè d'avere, per esser veduta intera, un punto di veduta suo proprio. E si è poi sicuri che facendola apparire intera sulla facciata, le si renderà con questo un buon servigio? Essa che, nella sua grandezza, è fine come un merletto, elegante come una sposa, non so che cosa abbia da guadagnare dall'esser veduta su quella base enormemente larga, su quei mastodonti di colonne, su quell'attico che schiaccerebbe una montagna, su quella massa grossolana e sgarbata. Meglio moltiplicare i punti di veduta dell'opera stupenda di Michelangelo e lasciarla figurar sola in tutta la sua maestà. Ricordo che quando fu ordinata la piazza di Monte Cavallo, colla terrazza e la strada che le gira sotto, il papa Pio IX si recò a vederla, e non rimastone punto soddisfatto, chiese a chi l'accompagnava quanto fosse costata quell'opera. Come l'ebbe saputo, dimandò: E quanto costerebbe; ora a rimetter tutto nello stato di prima? Dubito che, demolendo le isole, si arrischierà di sentir ripetere la stessa dimanda.
Per queste considerazioni, mi par dubbio se sarebbe desiderabile di veder eseguile le demolizioni proposte, quando pure non dovessero costare né milioni né perdita di memorie storiche e artistiche. De' milioni non è qui luogo da discorrerne, ma toccherò brevemente delle seconde. Lo sconvolgere la topografia, il trasformare la fisionomia di luoghi notissimi nella storia civile ed artistica, registrati le mille volte negli scritti di tanti secoli, dove accaddero avvenimenti famosi, il cancellare ogni traccia dell'antica via sacra e dell'Alessandrina aperta pel giubileo del 1500, lo sconvolgere la città leonina come un terreno vergine, tutto ciò, senza dubbio, non offende che la classe poco numerosa di chi si applica a studi storici o coltiva le antiche memorie, ma è cosa ai più indifferente. E' certo se queste demolizioni fossero richieste da bisogni della vita cittadina, questo sentimento che riguarda, dirò così, l'aristocrazia della coltura, dovrebbe cedere il passo: ma quando si tratti invece di abbellimenti e di soddisfazioni estetiche, allora non si può negare anche a queste soddisfazioni storiche e sentimentali di pesare pur esse sulla bilancia. Nè basta il dire che son gusti di pochi: a voler esser sinceri, quanti sono capaci, per esempio, d'intendere e sentire i capo- lavori dell'arte ? Quanto alle fabbriche che sarebbero da demolire, nel primo tratto fra la piazza Pia e quella di S. Giacomo Scossacavalli, non c'è molto di notevole. La casa incontro alla Traspontina, fabbricata intorno alla metà del Cinquecento, ha buoni particolari architettonici, ma è ridotta in cattivo stato.
Fu di Cesare Gloriero secretario pontificio, e si vuole che un tempo fosse lì la torre del Soldano.
La chiesa di san Giacomo non ha pregio d'arto né cosa degna di nota fuorché la vecchia leggenda da cui si vuole che avesse origine e le sue famose reliquie. Ma sulla piazza di Scossacavalli vi si para incontro il palazzo de' Convertendi che volta pel Borgo vecchio e pel nuovo, nel quale si stende per lungo tratto. E' una mole grande e severa che in altre città meno ricche di palazzi sarebbe indicata come un monumento, ma che anche in Roma non é spregevole.
Quantunque esternamente abbia oggi l'aspetto d'un solo palazzo, esso mantiene però internamente le antiche divisioni; poiché esso é composto sulla via di Borgo nuovo, del palazzo Accolli (n. 2) del palazzo di Raffaello (n. 1) e delle case intermedie degli Zon. I due palazzi (in quello dell'Accolti sono ancora visibili sotto al bianco che l'ha coperto le linee dell'antico graffito) hanno ingresso e cortile separato, e in mezzo fra i due, per dare unità alla facciata, si fabbricò il magnifico balcone riprodotto in molte opere d'architettura e che é ritenuto, senza però buon fondamento, opera del Peruzzi.
Il Navone e il Cipriani, riproducendolo in più Tavole, nella loro Raccolta de' più cospicui esemplari d'architettura civile in Roma (1701), affermavano che quel balcone « si può senza dubbio asserire che in Roma è il più bello. » Non istàró ora a rifare la storia del palazzo di Raffaello, quale risulta dai nuovi documenti; mi basterà ricordare ch'esso fu edificato da Bramante pei Caprini di Viterbo; che Raffaello l'acquistò nel 1517, e forse lo condusse a termine.
Che in esso Raffaello morisse, lo attestano l'Alfani e il Torrigio nelle Grotte valicane. Alla morte di lui il palazzo fu acquistato dal cardinal Accolli il quale poi, coll'acquisto delle casette intermedie, divenne padrone di tutte le fabbriche che formano l'odierno palazzo dei Convertendi. Questo corpo di fabbriche passò così unito dal card. Bernardo al card. Benedetto Accolti, quindi agli Strozzi, al card. Commendone, agli Spinola, al card. Castaldi, il quale, morendo nel 1085, lo destinò per testamento ad Ospizio de' Convertendi.
Risoluta la questione del luogo del palazzo di Raffaello, ne sorgeva un'altra: che cosa ne rimane? Dell'architettura esterna di Bramante quale apparisce da una stampa del Lafreri e da antichi disegni, non resta nulla. Della primitiva facciata non avanzano che due pilastrini d'angolo d'uno dei balconi, di puro disegno bramantesco, e corrispondenti alla stampa del Lafreri,che si trovano oggi nel cortile dell'antico palazzo di Raffaello. Riproduciamo qui il disegno d'uno di essi e lo spaccato dell'angolo del balcone. Questo palazzo, come ci attesta il Vasari, era fatto «di mattoni e di getto con casse;» e questa « invenzion nuova del far le cose gettate» fu certo cagione che nulla sopravviva della sua esterna decorazione. La costruzione, come per solito nelle fabbriche di Bramante, ne era cattiva, sicché più volte e da ultimo dopo il 1870, manifestatesi gravi lesioni, é convenuto rifondarlo e rafforzare i muri. La speranza, da me altra volta manifestata, che sotto l'odierna facciata potessi; ritrovarsi l'aulica architettura non è stata confermata dai tasti eseguiti in diversi punti. Pare che il palazzo sia stato trasformato principalmente per opera del cardinal Commendone, dopo il 1563; certo è che nel 1580, quando avvenne la traslazione del corpo di san Gregorio Nazianzeno, il Tempesti lo rappresentava in Vaticano, nelle loggie superiori a quelle di Raffaello, già ridotto nello stato presente.
Nondimeno si può dimostrare che il palazzo di Raffaello non è stato già demolito per fare un nuovo palazzo, ma restaurato e rafforzato in diversi tempi conservando l'antica disposizione, e buona parte della costruzione primitiva. Ciò risulta dai fatti seguenti:
1. Il palazzo di Raffaello, dall'angolo sulla piazza di san Giacomo si estendeva sulla via di Borgo nuovo, per cinque finestre; ed anche oggi questa parte di fabbrica fino alla quinta finestra, forma corpo a sé con proprio cortile e scala e ingresso separato.
2. Il disegno del Lafreri, che reca in iscala la misura della canna architettonica, dà alla facciata un'estensione di canne 10 e palmi 3 circa, corrispondente a metri 23 e una piccola frazione; che è appunto la misura che risulta misurando il palazzo dall'angolo a tutta la quinta finestra e tenendo come punto di mezzo il portone. Mentre le prime cinque finestre sono equidistanti fra loro, corre una maggior distanza tra la quinta e la sesta.
3. Ridotto il disegno del Lafreri e l'odierna facciata alla stessa scala (fig. 5), e sovrapposti l'uno all'altra, tutto combacia perfettamente, salvo minime e incalcolabili imperfezioni di esecuzione: l'altezza del pianterreno e del primo piano, l'altezza o distanza delle botteghe, delle porle e delle finestre. Che ciò non sia e non possa 'essere casuale, si può vederlo ricercando le raccolte de' palazzi di Roma del Ferrerie, del Letarouilly e d'altri, nelle quali inutilmente si cercherà una sola fabbrica che nelle sue proporzioni corrisponda neppur da lontano al disegno del Lafreri.
4. Ma c'è di più: abbiamo la prova diretta che il palazzo di Raffaello è bensì trasformato ma non rifatto. Il disegno dell'Alfani anteriore al 1580 (fig. 6) rappresenta il palazzo di Raffaello già trasformato nella parte inferiore o pianterreno, il quale, perduto il bugnato, corrisponde perfettamente allo stato odierno, mentre il primo piano conserva ancora il disegno di Bramante.
Il pianterreno dunque ha mutato l'aspetto esteriore senza toccare il piano sovrastante; il che è prova evidente che la trasformazione ha avuto luogo in più tempi rafforzando l'antico, anche per potervi elevar sopra un a Uro piano, senza rifar l'edifizio ex novo.
5. Finalmente l'architetto Pietro Carnevale deputato da una Commissione governativa e comunale, a causa della sua speciale conoscenza dell'arte del Rinascimento, ad esaminare lo stato del palazzo di Raffaello, presentava ad essa una Relazione da cui risulta: che nei saggi che ha potuto fare (si noti che l'esser la casa abitata imponeva grandi riguardi e limitazioni) ha rinvenuto nei sotterranei costruzioni per la maggior parte rifatte in sostituzione delle antiche: ma in una parte dei sotterranei ha trovato ancora la primitiva muratura a getto, cioè fatta con detriti di vari materiali; nel mezzanino «i muri esterni e lo volte, quantunque abbiano subito varie riprese di nuove murature, pure conservano l'antica disposizione e parte della primitiva formazione». I muri esterni del pianterreno e del primo piano appaiono rifatti, mantenendo nondimeno la primitiva disposizione delle porte e delle finestre; nell'interno, le stanze sono prive di qualsiasi decorazione; ma quella di angolo (così il Carnevale) formante un grande salone, ora diviso in due, è coperta da soffitto in legno con nove lacunari, ornati da cornice architravata con membrature intagliate; la fascia che li riquadra è ornata con borchie, e la cornice d'imposta all'ingiro dell'ambiente, a mensole, rosoni e membrature parimenti decorate da incagli. Esaminando tale soffitto in ogni sua parte, si è costretti riconoscerlo per lavoro dei primi tempi del Cinquecento: la sua corretta e grandiosa forma, e i suoi splendidi dettagli lo attestano opera di Bramante».
Questo giudizio del chiaro architetto è confermato dal confronto del soffitto di questa sala con quelli del piano superiore. Questi ultimi, ricchi anch'essi ed ornati, sono però affatto lontani dalla correttezza e dall'eleganza del soffitto inferiore, ed appartengono evidente- mente alla seconda metà del secolo XVI, quando fu guasto l'aspetto esterno del palazzo ed elevato il secondo piano.
La differenza di stile e di fattura fra l'arte dei primi del Cinquecento e quella della seconda metà è tale da non lasciar luogo al minimo dubbio. Così, mentre il disegno dell'Alfani ci dimostra che il pianterreno fu trasformato nello stato odierno senza toccare il primo piano, nel confronto dei soffitti abbiamo la prova che il secondo piano è stato aggiunto senza toccare i soffitti del primo.
I muri esteriori sono stati rafforzati e raffazzonati più volle, e rifatti in gran parte in epoca assai recente; il che non esclude che ripetuti i tasti in condizioni diverse dalle presenti, non possano anche all'esterno apparir traccie della costruzione primitiva. Certo sarebbe meglio che anche i muri e la decorazione esterna si conservassero, il che però non era facilmente da sperare sapendosi dal Vasari che le bozze e le colonne eran latte di getto; ad ogni modo, poiché il palazzo di Raffaello, da tanti ricercato inutilmente e che il Mugnoz lamentava "détruit par les vandales du dix-septième siècle", si è ritrovato coll'aiuto di nuovi documenti, poiché esso rimane ancora nella sua pianta, nella sua distribuzione e nella disposizione delle botteghe e delle finestre, poiché la sala di studio di Raffaello, la sala dove giacque disteso sotto al quadro della Trasfigurazione, che per le sue dimensioni non poteva esser che questa, é coperta ancora dal soffitto che vi fece Bramante, non può dirsi che non rimanga abbastanza perché quel luogo possa essere consacrato al culto e alla venerazione del gran pittore, che forse meglio d'ogni altro rappresenta presso il mondo civile l'italianità dell'ingegno. Ma contro al gusto dominante degli allargamenti, so bene che ragioni di questa natura han poco valore.

Stampa antica della Basilica di San Pietro in VatPalazzo Penitenzieriicano
Palazzo Penitenzieri
La demolizione delle isole fra i due Borghi, é la parte sostanziale e comune a tutti i progetti di cui ho discorso; ma non tutti, come dicevo, si fermano lì. Quello del Fontana tagliava a dritta e a sinistra tanto da ridurre i due lati del grande stradone pressoché paralleli. A questo modo gli si toglieva quella brutta forma d'imbuto che avrebbe colla sola demolizione delle isole; e, quel che più importa, coll'aprire l'imboccatura dello stradone egli metteva in vista il prospetto di san Pietro dal ponte sant'Angelo e dall'opposta riva del Tevere. Inoltre, coi portici ch'egli suggeriva di costruire ai due lati, egli provvedeva a dare al gran monumento un accesso monumentale. La spesa enorme che occorrerebbe e la demolizione necessaria del palazzo Torlonia, rendono questo pro- getto inattuabile: ma non c'è dubbio che, ammessa la convenienza di aprire un grande e nobile accesso al Vaticano, esso raggiungerebbe meglio d'ogni altro l'intento.
Il progetto municipale tiene una via di mezzo tra questo dei Fontana e quello che si ferma alla demolizione delle isole. Lascia allo stradone la forma d'imbuto, e ne mantiene l'imboccatura stretta, tantoché il prospetto di san Pietro si vedrebbe solo da una linea breve e sottile del Lungotevere e da un punto del lontano Ponte Umberto I; ma taglia il lato sud di Borgo vecchio arretrandolo tanto « da renderlo disposto (rispetto all'asse della piazza di san Pietro) simmetricamente al lato nord di Borgo nuovo ».
A ben considerare, con questo arretramento non si otterrebbe che un assai lieve vantaggio con detrimento gravissimo di memorie storiche e d'opere d'arte. Certi difetti di regolarità e di simmetria offendono assai più veduti sulla carta che nella realtà: anche l'odierna piazza Rusticucci, che si vorrebbe prolungare fino al ponte, non è regolare ma nessuno l'ha mai notato come un difetto. Tutto il lato che si vorrebbe demolire, come può vedersi guardando traverso l'angusta apertura del Borgo vecchio, è assai più basso che la facciata della chiesa di san Pietro, e non nasconde quasi altro che il principio del colonnato. La veduta del Morelli (v. sopra a pag. 141) dimostra quanto lieve sarebbe questa irregolarità, per rimuover la quale dovrebbe farsi tanta rovina che appena potrebbe essere giustificata dalla più evidente necessità. Io credo pertanto che, nel peggior caso, sia da tornare al piano del Morelli e dell'amministrazione francese che non parve punto deforme al Canova, al Visconti, al Valadier e ad altri valentuomini di quel tempo.
Senza contare il palazzotto di Santo Spirito, e la casa degli Alicorni sulla piazza di san Pietro, ornata di un elegante cortile dei primi anni del Cinquecento, due palazzi dovrebbero essere atterrati, il Cesi e quello dei Penitenzieri. Il palazzo Cesi, che non è da confondere, come si fa spesso, coll'altro più antico, famoso per le collezioni d'antichità che racchiudeva, è posto tra la chiesa di S. Michele e la porta Cavalleggeri, fu edificato poco dopo il 1570 dal cardinale Pierdonato Cesi, di cui il nome si legge sugli architravi delle finestre. Quantunque non appartenga al miglior periodo dell'arte, è però di bello aspetto, con cortile quadrato cinto di portici e di loggie, con sale adorne di pitture e di stucchi.

Stampa antica della Basilica di San Pietro in VatPalazzo Penitenzieriicano
Palazzo Penitenzieri
Ma di ben altra importanza è il palazzo del card. Domenico della Rovere, detto il cardinale di S. Clemente, oggi de' Penitenzieri, sulla piazza di S. Giacomo Scossacavalli, edificato tra il 1470 e il 1490. Quantunque il suo nome "Do. Ruvere car. S. Clemen." e il suo motto "Soli Deo" siano scolpiti infinite volte, dentro e fuori, sulle finestre e sulle porte, il palazzo della Rovere rimase, non so come, pressoché ignoto, e ci son perfino scrittori i quali lo posero presso la gradinata di san Pietro, o nella piazza Rusticucci. Il Vasari ne fa architetto il solito Baccio Pintelli e dice che «fu allora tenuto molto bello e considerato edifizio». La facciata doveva esser graffita a piccoli rettangoli, decorazione di cui serbano traccia, sotto alla tinta di bianco, i lati che piegano incontro a san Pietro e alla chiesa di Santo Spirito. Era un tempo il palazzo isolalo da tutti i lati; ma il lato volto verso ponte sant'Angelo è oggi chiuso in un gran cortile formato da piccole casette.
Entrando in questo cortile, incontro al palazzo di Santo Spirito, si veggono ancora quattro grandi finestre tagliate a croce guelfa, più grandi di quelle del palazzo di Venezia. In questo palazzo abitarono Pietro Perugino, il Pinturicchio e poi Francesco Salviati; e il Vasari narra che il Pinturicchio «aveva fatto servitù con Domenico della Rovere cardinale di San Clemente; onde avendo il detto cardinale fatto in Borgo vecchio un molto bel palazzo, volle che tutto lo dipignesse esso Pinturicchio, e che facesse nella facciata l'arme di papa Sisto, tenuta da due putti».

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Palazzo Penitenzieri
Di queste pitture s'era perduta ogni traccia, tantoché nell'ultima edizione del Vasari curata dal Milanesi, si legge che non ne resta nulla. Il che non deve recar maraviglia: poiché in Roma, il cullo dell'antichità classica da una parte, e l'arte del Seicento dall'altra, han fatto cadere in uno strano abbandono l'arte e le memorie del Rinascimento. Quelle pitture sopravvivono ancora, e non sono sfuggite allo Schmarsow, che ne discorre nel suo libro sul Pinturicchio. Nella sala di mezzo, sul prospetto, parte dalle pareti una volta a lunette che racchiude un rettangolo, entro cui è un soffitto in legno ornato di piccoli riquadri, con rosoni dorati; e nei peducci tra le lunette son dipinti eleganti ornati, e medaglioni a chiaroscuro, e gli stemmi della Rovere si alternano alla croce di Savoja; poiché Domenico della Rovere era di Torino, dove edificò la chiesa cattedrale. Lo Schmarsow non poté veder le lunette perché coperte di bianco; ora però alcune ne sono riscoperte e vi si vedono dentro mezze figure di santi padri. Segue una sala con soffitto ricchissimo d'oro e di colori, dove, dentro a cassettoni ottagoni, sono dipinte sfingi, centauri, delfini, chimere. Queste due sale sono barbaramente tagliate da tramezzi; in altre sale, occupate dalle scuole degli Asili d'infanzia, gli antichi soffitti son coperti da tele che vi han tirato di recente. Di queste pitture abbiamo la data certa, di cui nessuno si è avvisto: in una delle mensole che sorreggono le travi d'un soffitto sotto alle sigle K. R. S. si legge l'anno 1190. Dal cardinal della Rovere passò il palazzo a quel triste che fu Francesco Alidosi d'Imola, cardinal di Pavia, che Francesco Maria della Rovere duca d'Urbino uccise di propria mano, e di lui ci resta testimonianza nella cappella, dove la volta a botte è coperta di tavolette dipinte in cui si alternano la rovere e l'aquila col giglio d'oro in petto, arme degli Alidosi. Passò più tardi al cardinal Salviati; e forse al pittore Francesco Salviati, che assunse il nome del cardinale suo protettore, appartiene la decorazione delle volte nel braccio dove sono ora il refettorio e la cucina. Attesta il Vasari che il Salviati dipingesse nella cappella del cardinale, che io non ho vista, la storia di san Giovanni Battista. Nel piano di sopra è una porta finamente scolpita, e pare ci siano altre camere dipinte non so in qual'età.

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Palazzo Penitenzieri
Il palazzo dimostra ancora intera la sua primitiva struttura: il cortile è chiuso da tre parti d'un portico, oggi murato, sorretto da colonne ettagone; il pozzo, che porta lo stemma del cardinal della Rovere, può vedersi riprodotto dal Lelarouilly; a livello più alto sorge il giardino, con compartimenti in muratura, e portici laterali. Un secondo e più piccolo cortile è tutto coperto di disegni architettonici a graffito, che debbono anch'essi ascriversi al Pinturicchio. Nel vano delle finestre sono ancora al loro posto i sedili di marmo, sorretti da eleganti balaustri, fra i quali quelli della cappella sono notevoli per maggior finezza di lavoro. Il protettore del Pinturicchio, com'ebbe condotto a termine il suo palazzo e decoratolo con quanto di meglio offriva l'arte a' suoi tempi, volle rivolgergli un affettuoso augurio, ponendovi un'iscrizione che diceva: «Stia in piedi questa casa finché la formica non abbia bevuto i flutti del mare, e la tartaruga non abbia fatto il giro del mondo.» Diviso il palazzo fra parecchi proprietari e destinato ad usi diversi, non riesce facile di visitarlo oggi in ogni sua parie: ma quel tanto che se ne può vedere, basta a dimostrare che se esso è inferiore, por mole a quello di san Marco e a qualche altro palazzo del Quattrocento, non ce n'è però altro che sia meno danneggiato da successivi lavori, e che perciò meglio si presti, riaperti i portici e le loggie, tolte nelle sale i tramezzi e le tele, ad essere restituito nel primitivo suo stato. Quelle magnifiche sale decorate dal Pinturicchio, che formano un insieme, come ben dice lo Schmarsow, della più eletta eleganza e nobiltà, diverrebbero un monumento d'arte da gareggiare per alcuni rispetti coll'appartamento Borgia nel Valicano, e il palazzo restaurato d'uno de' più fastosi cardinali del Quattrocento, formerebbe un monumento storico e artistico dei più singolari.

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Palazzo Penitenzieri
Una Commissione nominata, in seguilo ad un mio scritto, metà dal Governo e metà dal Comune.
e di cui facevano parte uomini illustri, recatasi a visitare il palazzo dei Penitenzieri, è stata unanime nel giudicare ch'esso non debba essere demolito: è perciò da ritenere che non fallirà ancora l'augurio volto al suo palazzo dal cardinal di Torino.
Non voglio chiudere senza tornare ad insistere su d'un punto: che cioè, liberissimi noi d'imprimere ai nuovi quartieri e alle nuove costruzioni l'impronta del nostro gusto, del nostro modo di vedere e di sentire, non dobbiamo però, se non costretti da ragioni di necessità o utilità pubblica, modificare, come si è fatto nel Seicento, secondo il gusto dell'età nostra le condizioni dei monumenti storici; Di stradoni larghi e lunghi se ne può fare quanti se ne voglia: ma una piazza come quella di san Giacomo Scossacavalli, noi non passiamo rifarla. Ha un lato la chiesetta di san Giacomo, che colle sue vecchie leggende, col suo antico nome di san Salvatore in Bordonia ricorda gli eserciti di pellegrini che muovevano col bordone da ogni parte del mondo a venerare le tombe degli apostoli; dal secondo lato l'elegante palazzo edificato dal Bramante al cardinale Adriano di Comete, al poeta latino famoso pel banchetto offerto ad Alessandro VI che vi restò avvelenato, al ricco cardinale che poi, fuggiasco da Roma, spari senza che mai s'avesse notizia del luogo, del tempo e del modo di sua morte; dal terzo lato il palazzo che possedette e dove morì Raffaello, colla storica sala coperta ancora dal soffitto di Bramante; dal quarto il palazzo del cardinal della Rovere tutto dipinto dal Pinturicchio, dove abitarono il Pinturicchiò stesso e il Perugino e il Salviati e il Vasari, e le memorie del sacco dato a quei palazzi prima dalle orde del Valentino poi da quelle del Borbone, e i personaggi storici che li abitarono, quali l'Alidosi, Luigi d'Aragona, il cardinal Salviati, il Madruccio, Pietro Accolli, il Commendone e tanti altri, formano un insieme storico e artistico che mi pare ben più conveniente come vestibolo e direi quasi preludio del Valicano, che non sarebbe un enorme stradone fiancheggiato di caserme a sei piani. Poiché, non ultimo inconveniente, demolito quel lato del Borgo, sorgerebbe più indietro una lunga fila di quei gabbioni pretenziosi, di quelle abbominazioni rettangolari di stucco che conosciamo pur troppo, e che fornirebbero il più goffo accesso alla gran basilica.

A demolire c'è sempre tempo. La facile estetica della linea retta, dell'angolo retto, dell'allarga- mento, della simmetria ad ogni costo, entra a sostituire in certi periodi il fine sentimento dell'arte ed esercita sugli animi una forza pressoché irresistibile. Ma se applicheremo questa nostra estetica ai monumenti del passato, dubito che i posteri non ce ne saranno grati. Il pontefice Sisto V, che fece demolire il Settizonio, che si sbizzarrì a tagliar delle strade lunghe e diritte a perdita d'occhio sulle alture del Celio, dell'Esquilino, del Viminale, del Quirinale e del Pincio, incontrò un giorno un intoppo nella prosecuzione della linea retta che da S. Giovanni in Laterano egli voleva condurre fino al centro abitato della città; c'era di mezzo il Colosseo. Egli non era uomo da sgomentarsi di siffatti ostacoli, e ordinò che fosse tagliato. Ma Giulio Antonio Santorio, cardinale di santa Severina, saltò su come un ossesso, tirò dalla sua altri cardinali, e mise il campo a rumore tanto che il Colosseo fu salvo. Si può imaginare se gli fosse dato del pedante per aver fatto sacrificare quella bella linea retta alle vecchie pietre del Colosseo: e nondimeno oggi nessun ingegnere di società costruttrici avrebbe il coraggio di fare una proposta simile. Egli é che il consenso universale ha oramai consacrato, fino ad un certo punto, i solenni avanzi della grandezza romana, mentre i monumenti e le memorie del medio evo e del Rinascimento non trovano ancora in quel consenso la forza necessaria a difenderli dalla smania demolitrice di chi non vede salute fuori dell'allargamento, della simmetria e della linea retta. Ma è da credere che al medio evo e al Rinascimento s'attribuirà un giorno, forse non lontano, non minor valore che all'antichità più remota.

Domenico Gnoli - Archivio storico dell'arte - 1889