Tesori di Roma: foto di Roma gratis

LA VISTA DI ROMA

MAURIZIO MAETERLINCK

Panorama dal Gianicolo

La natura l'aveva mirabilmente situata nel luogo più atto a raccogliere, come nella più nobile coppa che si sia aperta sotto il cielo, i gioielli dei popoli che passavano a lei dintorno sulle cime della storia. Il luogo dove cadevano tali meraviglie era già pari alle meraviglie stesse. L'azzurro vi è limpido e sontuoso. Le oscure e profonde verdure del nord si mescolano ancora al fogliame leggero e più chiaro del sud. Gli alberi più puri, i cipressi che si slanciano come una preghiera ardente e fosca, il largo pino parasole, che sembra il pensiero più grave e più armonioso della foresta, la massiccia quercia che così facilmente prende la grazia de' portici, hanno acquistato, per una tradizione secolare, una nerezza, una coscienza e una solennità ch'essi non hanno altrove.

Chi li ha visti e compresi non li dimenticherà più, e li riconoscerebbe senza fatica tra gli alberi simili d'una terra meno sacra. Essi furono ornamenti e testimoni d'incomparabili cose. Restano inseparabili dagli acquedotti sparsi, dai mausolei scoronati, dagli archi spezzati, dalle colonne rotte, che sono decoro di una campagna maestosa e desolata. Essi han preso lo stile dei marmi eterni che circondano di silenzio e di rispetto: san dirci come loro, con l'aiuto di due o tre linee chiare eppur misteriose, tutto ciò che può rivelarci la tristezza d'una pianura che porta nobilmente i resti della sua gloria.

Essi sono e si sentono romani.

Un cerchio di montagne dai nomi sonori e familiari, dalle cime spesso cariche di neve, splendente quanto i ricordi che essi evocano, fa alla città che non può morire un orizzonte netto e grandioso che la separa dal mondo senza isolarla dai cicli. E nella cinta quasi deserta, nel centro delle piazze inanimate, dove i lastricati, i mercati, i portici moltiplicano lo spazio e la solitudine, a ogni crocevia dove veglia nel vuoto qualche statua ferita, fra le vasche, i capitelli, i tritoni e le ninfe, un'acqua docile e luminosa, obbedendo ancora ad ordini ricevuti due mila anni fa, forma, in questa solitudine immacolata, un ornamento mobile e sempre fresco di pennacchi azzurri, di ghirlande di rugiade, di trofei di cristalli, di corone di perle. Si direbbe che il tempo, fra questi monumenti che credevano sfidarlo, non ha voluto rispettare che le ore fragili di ciò che si evapora e di ciò che passa...

La bellezza, quantunque fosse sempre una bellezza presa a prestito, ha risieduto così a lungo tra le mura che vanno dal Gianicolo all'Esquilino, e vi si è accumulata con una tale persistenza, che il luogo stesso, l'aria che vi si respira, il ciclo che lo copre, le curve che lo limitano, vi hanno acquistato una prodigiosa potenza di appropriazione e di nobiltà.

Roma, come un rogo, purifica tutto ciò che dalla sua rovina gli errori, i capricci, la stravaganza e la ignoranza degli uomini non hanno cessato di ammonticchiarvi. Sino ad ora è stato impossibile sfigurarla; si crederebbe persino che è stato impossibile eseguirvi o mantenervi un'opera che rifiutasse di spogliarsi della sua bruttezza o della sua volgarità originale. Tutto ciò che non è conforme allo stile dei sette colli, si cancella o si elimina a poco a poco sotto l'azione del genio vigile che ha posto all'orizzonte, nella roccia e nel marmo delle alture, i principii estetici della città. Il medio evo, per esempio, e l'arte dei primitivi vi dovettero essere più attivi che in ogni altra città, poiché si trovavano nel cuore stesso dell'universo cristiano; tuttavia non vi hanno lasciato che traccio poco sensibili, per cosi dire vergognose e sotterranee: ciò che abbisognava, e niente di più, affinché la storia del mondo, di cui era il focolare, non vi restasse incompleta.

Al contrario gli artisti, il cui spirito era naturalmente in armonia con quello che presiede ai destini della città eterna: Giulio Romano, i Carracci, alcuni altri, ma soprattutto Raffaello e Michelangelo, vi manifestano un'ampiezza, una sicurezza, una specie di soddisfazione istintiva e di allegrezza filiale ch'essi non trovano in nessun altro luogo. Si sente ch'essi non avevano da creare, ma solamente da scegliere e da fissare le forme, le quali affluendo da ogni parte, non rivelate, ma imperiose, domandavano solo di nascere. Essi non potevano ingannarsi; non dipingevano nel senso proprio della parola; ma scoprivano semplicemente le imagini velate che vagavano nelle sale e nei portici dei palazzi. I rapporti tra la loro arte e l'ambiente che le fa nascere sono così necessari che le loro opere esiliate nei musei e nelle chiese di altre città, non sembrano tradurre che una concezione arbitraria esageratamente forte e decorativa della vita. Ed è per ciò che le fotograne o le copie del soffitto della Cappella Sistina sconcertano e restano quasi inesplicabili.

Ma, entrato nel Vaticano, dopo essersi imbevuto della volontà che emana dai mille resti di templi e di piazze pubbliche, il viaggiatore accetta come uno sforzo sublime e naturale lo sforzo smisurato di Michelangelo. La prodigiosa volta, dove, in un'armonica e grave orgia di muscoli e di entusiasmi, s'intreccia e si affolla un popolo di giganti, diventa un arco del cielo stesso dove si sono riflesse tutte le scene di energia, tutte le virtù ardenti, i cui ricordi si agitano ancora sotto le rovine di questo suolo pieno di passioni. Parimenti davanti " all'incendio di Borgo " egli non pensa ciò che si penserebbe vedendo il mirabile affresco del Louvre o della Galleria Nazionale di Londra; egli non pensa ciò che disse per esempio Taìne; e cioè che quei grandi corpi nudi e imponenti non compiono il loro ufficio, che le fiamme che sortono dall'edificio non li turbano affatto, che essi pensano solo a posare come buoni modelli e a mettere in valore la curva di un'anca o la muscolatura di una coscia. No: se il visitatore si è lasciato docilmente penetrare dalle suggestioni di tutto ciò che Io circonda, egli immaginerà volentieri che in queste camere del Vaticano, come sotto la volta della Cappella Sistina, benché differenti siano le due impressioni, egli assiste allo sviluppo tardivo, ma logico e normale, di un'arte che avrebbe potuto essere quella di Roma. Gli sembra che si trovi qui la formula che il gemo troppo positivo dei Quiriti non aveva avuto l'occasione o la fortuna di sviluppare. Poiché Roma, malgrado i suoi sforzi, non era riuscita a dare da sé l'immagine essenziale che aveva promesso all'universo.

In fondo, essa era bella delle spoglie della Grecia; e il migliore de' suoi meriti si fu quello di raccogliere avidamente e di comprendere la bellezza dell'arte greca. Quando aveva tentato di aggiungervi di suo aveva deformata quest'arte senza appropriarsene l'espressione. Le sue pitture e le sue sculture non rispondevano che approssimativamente e quasi per sentito dire alle realtà della sua esitenza; e la sua architettura doveva alle sue proporzioni colossali la parte più sicura di un'originalità incerta. Ci s'induce a pensare che l'armonioso pittore di Urbino e il vecchio Buonarroti attraverso tutte le catastrofi, attraverso tutte le morti apparenti e i lunghi silenzi di Roma, hanno ripreso una tradizione latente e ininterrotta che non avea cessato di evolversi sotterra per giungere alla loro opera, e dire finalmente al mondo ciò che l'impero non aveva saputo dirgli.

Essi sono più veramente Romani, essi, a mio avviso, rappresentano meglio, che non la Roma dei Cesari, il desiderio incosciente e segreto di questa terra latina. Roma, in ciò aveva fallito, era rimasta artificialmente ellenica; e la Grecia non poteva fornire a un popolo infinitamente più vasto e diversissimo le forme necessarie alla sua coscienza ornamentale. Essa non poteva essere che un punto di partenza sicuro e magnifico; ma le sue statue, le sue pitture, delicate, precise, misurate, quasi minuziose, non erano al loro posto in quel Foro sovraccarico di monumenti schiaccianti, fra quelle terme mostruose, quei circhi violenti, sotto le enormi e fastose arcate di quelle basiliche sovrapposte.

Ci si domanda allora se gli affreschi di Michelangelo non avrebbero risposto, dopo mille anni di attesa, all'appello di quelle arcate vuote; e se non sì possa credere che siano la conseguenza quasi organica di quelle colonne e di quei marmi imperiali. Parimenti ci si dice che i soffitti, i pennacchi delle cupole, le lunette della Farnesina e "l'Incendio di Borgo" illustrerebbero molto meglio delle sculture di Fidia e di Prassitele, molto meglio anche delle migliori pitture di Pompei o di Ercolano, delle Metamorfosi di Ovidio, delle Decadi di Tito Livio, dei poemi di Grazio e dell'Eneide di Virgilio.

Ma tutto ciò è forse illusione, è il prestigio di quella potenza di appropriazione di cui parlavamo più su. Questa potenza è tale che tutto ciò che appare, da prima, più contraddittorio all'idea che regna in queste mura, non solo non la contraddice, ma contribuisce a fissarla e a rivelarla. Sino al declamatorio, innumerevole, enfatico Bernini - così inconciliabile per quanto si può esserlo con la taciturnità e la gravità primitiva di Roma - non vi è sino al Bernini, così odioso dappertutto, che qui non sia assorbito o giustificato dal genio della città, e non aiuti a chiarire e a commentare alcuni lati un po' oratori e ridondanti della grandezza romana.

Tutt'al più, una città che possiede le Veneri del Capitolino e del Vaticano, l'Arianna addormentata, il Meleagro e il torso di Ercole, le meraviglie infinite dei musei, numerosi quanto i suoi palazzi (pensate per esempio a ciò che contiene uno solo di questi palazzi, uno degli ultimi, quello delle Tenne); una città in cui ogni strada, quasi ogni casa cela un frammento di marmo o di bronzo che basterebbe a fare di una città nuova il fine di ogni pellegrinaggio; una città che ci mostra il Pantheon di Agrippa, alcune colonne del Foro, tanti tesori, insomma, che la memoria affaticata si rifiuta di seguire l'ammirazione che non si stanca mai; una città che ci offre, fra le sue fantasmagorie ordinate e viventi, un tal praticello circondato di cipressi a Villa Borghese, certe fontane, certi giardini eterni, in una parola una città dove si è rifugiato tutto il miglior passato del solò popolo che coltivò la bellezza come altri coltivano il grano, l'olivo, la vigna: una simile città oppone alla volgarità una resistenza passiva forse ma invincibile; e può quasi tollerar tutto senza diminuirsi.

L'immortale presenza di un'assemblea di Dei così perfetti, che nessuna mutilazione ha potuto alterare l'euritmia del loro corpo e della loro attitudine, la protegge contro i suoi propri errori, e impedisce che gli ultimi venuti fra gli uomini abbiano più imperio su di lei di quello che i barbari e il tempo non ebbero su questi Dei stessi.

Da Le Donile Jardin, Paris, ed. Fasquelle, 1904.