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LA TORRE DI NONA

E LA CONTRADA CIRCOSTANTE

A. CAMETTI

Tor di Nona

La contrada che per oltre due secoli fu allietata dalla presenza del più antico teatro stabile di Roma, era stata invece, fino a tutta la prima metà del '600, il luogo più tristo che si possa immaginare. Da tempo immemorabile stavano qui le carceri della Curia della Camera apostolica, le paurose carceri di Tordinona.

Dove poi risuonarono canti e suoni e s’avvicendarono rappresentazioni sfolgoranti di luce e di colori, e dove le arti più belle trovarono largo consenso di pubblico lieto e plaudente, s'erano uditi lamenti, urla e nenie di prigionieri e di seviziati; si erano viste persone doloranti sotto i «tratti di corda»; avevano fatto mostra raccapricciante grotteschi corpi d’impiccati o corpi mutilati e squartati sul vicino palco del carnefice. Invece della moltitudine di equipaggi e di carrozze che portavano al lieto convegno dame e cavalieri, la strada aveva accolto cortei di condannati e compagnie di carità salmodianti.

Queste carceri, in origine, erano state allogate in una grossa torre, rimasta superstite del recinto di mura eretto durante il periodo che va da Aureliano a Onorio, ma più probabilmente sotto Onorio nel quinto secolo, quale difesa della ripa sinistra del Tevere, nel tratto che va dalla porta Flaminia al ponte gianicolense, oggi Sisto; torre messa a guardia di un posto di sbarco e di una posterula per l'ingresso di materiali da costruzione e di derrate.

La torre poggiava sulle rovine di un tempietto circolare del III secolo, il quale a sua volta era stato costruito sopra un grandioso e solido molo di sbarco per i marmi, rimontante all'ultimo periodo della repubblica. Un’altra torre del recinto onoriano, ricostruita però verso il XIV secolo, è tuttora in piedi, sebbene accorciata e rabberciata, nella via di Monte Brianzo di contro alla chiesa di Santa Lucia della Tinta.

Anche la nostra torre, quella delle carceri, era stata senza dubbio ricostruita nello stesso periodo. Il nome di «Torre della Nona», col quale la troviamo menzionata in un documento della fine del '300, è appunto un'alterazione di Torre dell'Annona; perché da quel posto d'approdo, ossia dalla posterula - chiamata de Pila - entravano in città, sostando magari in deposito temporaneo nella torre e nei vicini magazzini, i grani e le derrate alimentari provenienti dalla Sabina e oltre per via fluviale, pagando le gabelle stabilite.

La torre era di proprietà degli Orsini, che possedevano buona parte degli edifici di quella contrada, almeno dal '200, anche prima del pontificato di Niccolo III (1277-80).L'ultimo possessore, Giovanni di Giacomello Orsini, la cedette per testamento nel 1395 alla Compagnia del Salvatore, detta di Sancta Sanctorum. In quegli anni si chiamava comunemente «la presone dello papa», e data la persistenza degli appellativi di origine popolare, si può supporre che avesse quella destinazione anche prima del trasferimento della sede pontificia in Avignone.

Da notizie desunte da memorie del '400 sappiamo che la torre, di ampie dimensioni, aveva forma quadrata e giungeva all'altezza di tre piani; era guarnita di merli, i quali spesso servivano da forca; da un lato v' era un argasterio, cioè un deposito di legname. Nel corso degli anni la torre con le case adiacenti che vi furono annesse, subirono di tanto in tanto cambiamenti, con ricostruzioni ed ampliamenti, dato il sempre continuo aumento dei... pigionanti !

Le carceri di Tordinona, destinate all'espiazione di delitti comuni (come le altre di Corte Bavella), col relativo tribunale per le cause civili e criminali, dipendevano in principio da un ufficiale della Curia pontificia, chiamato il Soldano, annoverato tra i familiari del pontefice e posto a carico delle sue finanze. Sotto Leone X il soldanato fu trasformato invece in «ufficio vacante» o «venale», che poteva cioè acquistarsi mediante lo sborso di una somma stabilita. Questa carica fu poi riscattata da Paolo IV, che volle mettere un riparo agli abusi che si commettevano a danno dei detenuti, e l'affidò, insieme all'ufficio criminale del Governatore, alla Compagnia di San Gerolamo della Carità, mediante il pagamento di una forte somma. Pio V, con Motuproprio del 19 settembre 1568, investì definitivamente la Compagnia della Carità - fondata mezzo secolo prima con lo scopo anche di venire in sollievo dei detenuti poveri - dell'amministrazione giudiziaria e finanziaria di quelle carceri; e consegnò alla Confraternita stessa l'edificio di Tordinona, con le case annesse, sotto forma di donazione, finché quei locali fossero stati destinati a prigione. Ma per la proprietà della torre la Compagnia del Salvatore continuò a percepire un canone annuo, prima da parte della Camera apostolica e poi dalla Compagnia della Carità, fino agli ultimi del seicento.

Il fabbricato poteva contenere normalmente fino a duecento prigionieri, divisi nelle varie prigioni «pubbliche», a seconda della categoria cui erano stati assegnati, in base non al grado della colpa, ma della condizione personale di fortuna; perché ogni detenuto doveva mantenersi del suo, oppure con l'obolo della carità. Per le donne e i giovanotti v'erano locali separati; i sacerdoti stavano in una carcere apposita, stabilita in una casa adiacente ed acquistata dal Vicariato a quello scopo nel 1589. V era una prigione speciale per i galeotti in attesa del transito.

Le «segrete» erano circa venti celle distribuite in ogni piano, da quello terreno alla cima della torre e portavano ciascuna un nome speciale. Altri locali erano destinati ai tribunali del Vicario, del Governatore e dell’Auditore di Camera, ed in questi si esaminavano i rei e si dava loro la tortura; per l'inumano supplizio detto «la veglia», inventato sotto Pio V, v'era un luogo più appartato. L’edificio comprendeva ancora gli uffici di cancelleria, la stanza in cui avevano luogo le visite periodiche delle autorità, la cappella, l'infermeria e in basso una cantina per la vendita del vino, esente da gabella.

Nelle vetuste, sudicie, malsane mura di quella torre languirono attraverso i secoli migliaia di condannati e fra essi una quantità di personaggi storici e di famosi malfattori. Per quanti di essi quella dimora non segnò il termine della propria vita, troncata dal carnefice? Essere rinchiusi nelle segrete di Tordinona voleva dire trovarsi alla vigilia dell’estremo supplizio; anche i fratelli Giacomo e Bernardo Cenci e Giordano Bruno vi passarono le ultime ore della loro esistenza.

Per due secoli la torre servì anche da luogo di supplizio. Verso gli ultimi anni del '400 i condannati si appiccavano ai merli della torre e spesso più d’uno alla volta. Nel '500 (e sotto Sisto V e Clemente Vili la giustizia non ebbe mai tregua) al laccio si cominciò ad alternare la mannaia ed allora i rei si decapitavano nel cortile della prigione.

Alla ripugnante tristezza del luogo bisogna aggiungere la desolazione che vi apportavano le periodiche crescenze del Tevere: il fabbricato, costruito sulla ripa del fiume, era il primo a subire i danni della violenza delle acque. Nelle memorabili inondazioni del 1495, del 1530 e del 1598, le più spaventose e luttuose che ricordi la storia di Roma, i detenuti perirono quasi tutti.

La contrada, malgrado la pessima fama, era peraltro frequentata di continuo, e fino dai tempi più antichi, dagli stranieri che, alloggiati nelle locande ivi situate, si recavano a visitare la basilica di S. Pietro e il Vaticano.

Gli alberghi e le camere locande, come i vetturini di carrozze da viaggio e di lettighe, si trovavano infatti lungo quella strada, distinta coi nomi di Tinta (poi di Monte Brianzo), dell'Orso e di Tordinona, che da piazza Nicosia andava al ponte Sant'Angelo. Quest'antica via sembra avesse avuto il suo primitivo assetto e fosse stata lastricata sotto il pontificato di Sisto IV (1471-84) perché era detta Sistina, oltre avere i nomi di via papalis e consimili.

A quei tempi la strada, e specialmente dal lato del fiume, non era completamente fiancheggiata da abitazioni: orti, argasteri e le carceri.

Fu al principio del '600, dopo le importanti trasformazioni edilizie compiute da Paolo III e da Sisto V, che la strada raggiunse l'aspetto che conservò fino agli ultimi tempi, prima cioè delle demolizioni volute dalla costruzione dei Lungotevere e dal riassetto del quartiere.

A partire dall’albergo dell’Orso, situato nel punto di convergenza di due vie (quelle di Monte Brianzo e dell’Orso, chiamate così anche allora) e dal vicolo degli Altemps, poi del Soldato (sul canto del quale, nel posto dove oggi è la palazzina Primoli, era il palazzo dei Gottifredi), e procedendo verso il ponte Sant'Angelo, s'incontravano, sul lato sinistro, i vicoli Corsini, detto poi della Fontana secca (scomparso in questi ultimi anni per l'apertura della via Zanardelli) e Gaetana (dei Caetani), già vicolo dell’Orso, assorbito oggi dalla via degli Acquasparta.

Dal lato destro della strada, di faccia a quei vicoli, vi era l'antica chiesa di S. Maria in Posterula, comunemente chiamata Santa Maria dell’Orso, attiguo alla quale stava il palazzo già del cardinale Ammannati, poi del cardinale Sclafenati, vescovo di Parma: palazzo in seguito dei Caetani e quindi dei monaci Celestini, i quali vi fondarono il Collegio Urbano per lo studio della teologia. Adiacente al palazzo v'era un arco, detto appunto Arco di Parma, che nel secolo XIX fu poi chiuso con cancello e destinato a far passare le immondizie che da quel luogo si gettavano nel Tevere.

Incontro all'arco, dall’altro lato della via, v' era il vicolo dei Lancellotti, oggi chiamato via dell'Arco di Parma; seguivano dallo stesso lato parecchi vicoli; quello detto più tardi degli Amatriciani; quello detto «della calata a Torre di Nona» o di San Salvatore e poi de' Marchegiani; quello della Rondinella, tuttora superstiti; quello dei Massei, poi de' Vecchiarelli; quello della Palma, incorporato nello stabile destinato a scuola elementare; quello del Carnefice o del Boia, detto in seguito del Mastro.

Proprio di contro all’isolato limitato dai vicoli dei Marchegiani e della Rondinella erano situate le carceri di Tordinona.

Alle carceri seguivano alcune casupole di spettanza del patrimonio della chiesa dì S. Stefano Rotondo, e, dove un tempo v' era un muro che divideva la strada dalla ripa del fiume, poco prima di giungere alla piazza di Ponte, trovavasi il recinto per conservare gli «ordegni della giustizia» e la cappelletta «dove li condannati a morte, quando sono condotti al patibolo, facevano l'ultime loro divotioni».

Dalla piazza Nicosia al convento dei Celestini la strada aveva il nome di via dell’Orso; il tratto susseguente verso ponente fino al ponte Sant'Angelo prendeva il nome di Tordinona. Nei tempi più recenti il tratto di via compreso fra gli sbocchi dei vicoli Gaetana e degli Amatriciani prese il nome di Via dell'Arco di Parma; e ciò fino al 1883, quando tutta intera la via ebbe il nome di Tordinona.

Di questa strada, per la costruzione del Lungotevere e del ponte Umberto I, per l'apertura della Via Zanardelli e per le recentissime costruzioni fatte per il risanamento del quartiere, il lato lungo la ripa del fiume è scomparso appunto del tutto; dall’altro lato, la parte superstite della strada è rimasta al basso livello antico, soffocata dall'alto muragliene del Lungotevere, e lungo di essa sono anche rare le case che serbano il ricordo dei secoli trascorsi.

La piazza di Ponte, detta allora di San Celso, cominciò dopo la metà del '400 a divenire meno angusta per opera di Niccolo V. Nella prima metà del '600 la piazza era per ampiezza e per aspetto poco dissimile dallo stato in cui trovavasi nel 1888, al tempo cioè dei lavori del Lungotevere e del prolungamento del ponte. La piazza era sudicia per immondizie, ingombra di carretti, di animali legati alle inferriate adiacenti all’ingresso del ponte o di panni stesivi ad asciugare! Tra il ponte e il cortiletto della giustizia v' era un vicolo a capo del quale si gettavano, da un finestrone ivi esistente, le immondizie nel Tevere. E lo spurgo di queste era situato sulla riva sinistra stessa del fiume, a poca distanza dalla torre, sotto il detto Arco di Parma.

Il ponte non era ancora ornato dalle statue che il Bernini vi pose nel 1669; all’ingresso v'erano bensì quelle dei santi Pietro e Paolo erettevi da Clemente VII, al posto delle antiche cappellette costruite sotto Niccolo V.

Lungo la via di Tordinona non sdegnavano di abitare personaggi di elevata condizione. Alla fine del '400 vi troviamo il detto cardinale Sclafenati e dopo di lui il cardinale Giacomo Casanova: poco lontano -sempre lungo la sponda del fiume - l'altro cardinale Girolamo Basso della Rovere. La famiglia Martelli aveva colà la propria casa, con-servatasi fino ai nostri giorni. Sui primi anni del secolo seguente a-bitava, verso S. Maria in Posterula, il cardinale Bernardino de Carvajal di Santa Croce; e poi vescovi, prelati, ufficiali del Senatore. Anche il celebrato capitano Gerolamo Estouteville, figlio naturale del cardinale omonimo, vi possedeva una casa. Verso il 1526 vi dimorava il futuro cardinale Rodolfo Pio da Carpi, con un seguito assai numeroso di persone.

Risalendo verso l'Orso, dal lato di San Salvatore in Lauro, si trovano le famiglie cospicue dei Fontani e più tardi l'abitazione del celebre intagliatore in legno Leonardo Bufalini.

Adiacente alla chiesa di S. Maria in Posterula, come ho detto, v' era il palazzo dei Caetani «di venerabile antichità e maestà», nel quale il cardinale Niccolo riceveva le visite del grande suo amico il pontefice Giulio III che andava da lui, per la via del fiume, per poi compiere delle gite in barca. Il suo discendente il cardinale Luigi Caetani fu l'ultimo che dimorò in quella casa, avendola venduta ai monaci Celestini dopo aver acquistato nel 1629 il palazzo dei Rucellai al Corso.

Incontro ai Caetani si ergeva il palazzo dei Gottifredi, nel quale si notava «un bellissimo studio di medaglie e d’altre rare antichità».

Ma oltre che per le abitazioni di noti personaggi, la strada riusciva caratteristica, ripeto, per lo straordinario numero di alberghi, di camere locande e per le numerose rimesse di vetture e di cavalli da posta, che la rendevano rumorosa e chiassosa. Da Monte Brianzo sino al ponte era un succedersi continuo di alberghi di ogni qualità, che i viaggiatori, specialmente se di grado elevato, preferivano a quelli situati in altre parti della città.

Tra le più antiche locande ci è rimasta menzione di quella all'insegna del Leone, posta proprio di faccia alle carceri, presa in affitto, nel 1483, da Vannozza de' Cathanei e dal suo primo marito Giorgio della Croce. Il notissimo albergo dell'Orso, l'insegna del quale dette forse il nome alla via, si può considerare come il primo edificio romano costruito ad uso di albergo, e ciò verso il 1475. Questo grande albergo, nel quale, come è noto, alloggiò nel novembre del 1580 il Montaigne, era fin da dieci anni prima qualificato come un «hospitium magnum», ed accoglieva le persone più elevate per rango: al principio del '600 esso decadde senza più risollevarsi, col sorgere probabilmente del vicino albergo di Monte Brianzo, frequentato da stranieri e da nobili, adornato con un'artistica facciata e che appunto verso il 1612 godeva di grande rinomanza.

Poco lontano dall'albergo dell'Orso v'era l'albergo del Vaso d’oro, addobbato con drappi intessuti d'oro e di seta «camme celui des rois», dice il Montaigne, e ogni letto del quale poteva valere dai quattro ai cinquecento scudi.

Contrada dunque caratteristica perché di aspetti molteplici e discordi, le più vivaci manifestazioni di vita e di movimento opponendosi alle opprimenti visioni di morte e di dolore e allo squallore della stagione invernale, quando le paurose acque del Tevere dilagavano in silenzio.

Intanto, quale opportuno divario, riuscivano forse di sollievo e di svago ai viaggiatori spensierati, i sorrisi furtivi delle Olimpie, Lucretie, Polissene, Cassandre, Imperie, belle cortesane spagnole, franciose, tedesche e di tutte le regioni d’Italia, alloggiate in gran numero lungo il percorso, ozieggianti dietro le socchiuse gelosie.

da Il Teatro di Tor di Nona poi di Apollo di A. Cametti - Arti Grafiche Aldo Chicca 1938