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Castel Sant'Angelo di Domenica

UGO OJETTI

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Visito Castel Sant'Angelo con la folla domenicale, passando lento e beato dall'ombra umida dei cunicoli alla penombra ventilata dei cortili, dalle tenebre delle tombe e delle prigioni al sole delle logge e delle terrazze spalancate sul cielo di Roma. M'abbandono ai custodi che fan da ciceroni, acconsento alle esclamazioni della recluta, del pretino, dello scolaro, della contadina che corrugano la fronte e stringono le spalle in un brivido quando penetrano nella cella dei condannati a morte; che attoniti apron la bocca e lascian cadere le braccia quando entrano in un'aula affrescata e papale. Così m'immagino di vedere Castello per la prima volta e d'essere tornato ragazzo, timido per la sentinella armata che allora ne vigilava l'ingresso e pel ricordo lì di tante maestà ed orrori (in ginnasio si leggeva il Cellini), e insieme orgoglioso d'essere romano, come a dire uno dei proprietari.

Il vecchio custode che ci accompagna a visitare le prigioni, ha l'erre grassa e parla con nobiltà: - Questo, signori, è il terribile carcere di Giordano Bruno che arse nel rogo a Campo dei Fiori -. Nove erre. Mi provo mentalmente a costruirgli, per quell'annuncio, una frase senza erre. C'è voluta nientemeno la breccia di Porta Pia perché io oggi possa, in cosi tetro carcere, dedicarmi a cosi leggiadro esercizio. - Madonna santa! - Il custode ha spento la luce, tanto da darci per un attimo lo spavento del buio in questa tomba; e l'esclamazione è stata della contadina. - Ohe, nun facimmo scherzi, - commenta il soldato, adesso che la luce elettrica è tornata e che uno ad uno, piegando la testa, sgusciamo fuor dalla cella. Un po' di gelo l'abbiamo ancora nelle vene quando, in una stanzuccia vicina, il custode ci assesta un altro colpo: - Questa è la ghigliottina, e quelle le lame di ricambio, e qui nella vetrina le vesti del boia: rossa pel boia, bianca per l'assistente - Ma è benigno e vuoi ridarci il respiro: - L'ultima volta è stata adoperata nel 1868 per Monti e Tognetti -. Nella ghigliottina pontificia la lama è caduta di traverso cosi che d'un lato è uscita fuori dal ceppo, e quel triangolo pare una delle due zanne che tagliano il labbro del cignale.

Sul cortile di Paolo terzo, a fianco d'una porta, tra due piramidi di palle di pietra per cannoni, coi fiocchi di seta, un cartello annuncia: ´ Laboratorio farmaceutico del secolo XIV ". E perché? Storte, lambicchi, mortai di porfido, barattoli dipinti: tutto disposto col gusto, la polvere, gli stracci e la confusione con cui quarant'anni fa si arredavano gli studi dei pittori veramente geniali. Sono residui delle mostre improvvisate qui nel 1911 (1). Non sono i soli. Più in alto, nell'appartamento Paolino, la sala d'Amore e Psiche, trasformata in camera da letto di Paolo terzo, col letto, la coltre, lo scrigno, la tavola, la clessidra e altre fantasie che Paolo terzo non vide mai ne toccò. Ma il pubblico guarda ed ammira, m rispettoso silenzio. E s'istruisce. Non dipende il Castello dal Ministero della pubblica istruzione? La Farmacia del papa, il letto del papa. Assisto qui alla nascita della leggenda, alla vera fabbrica della storia. Ed è commovente. Ve lo spettatore credente che si cava il cappello e tra quelle quattro colonnine dorate s'immagina il papa dormire sotto un volo di chérubi; se tosse solo, s'inginocchierebbe. Ve lo studente chiomato e saputo, che sogghigna e protesta contro tanto soffice lusso del sommo Pastore. Ve lo smunto pensionato, deluso dalla vita, assiduo di cinemadrammi, che tende il dito verso un alambicco di vetro e chiede cupo al custode della farmacia: - I veleni si distillavano qui?

Il Ministero dell'Istruzione dovrebbe compiere l'opera bene iniziata, e in una delle tante sale deserte di questo Castello esporre le vesti e i veli di Tosca e il suo bastone coi nastri, i pennelli e la tavolozza del cavaliere Cavaradossi e, con l'autentica d'un regio bollo, l'autografo dei versi famosi: "O dolci baci, o languide carezze", da lui declamati proprio qui sulla terrazza. Aumenterebbe, con l'istruzione, gl'introiti. E Vittoriano Sardou avrebbe, tra Giordano Bruno, il Cristo del Cellini e la muda del Cagliostro, il posto che gli spetta nella veridica storia di Castel Sant'Angelo. Gli si potrebbe anche dedicare una lapide di marmo, con una festicciola, come si suoi dire, interalleata.

Alla ghigliottina, agli alambicchi, alle prigioni e al trabocchetti, fanno contrasto i placidi nomi di questi passaggi: il loggiato circolare cogli archi aperti su tutta Roma si chiama ancora, alla romanesca, il Giretto d'Alessandro settimo, il Giretto di Pio quarto; il lungo corridoio tra due muri, uno in luce uno in ombra, che ancora congiunge Castello al Vaticano. e che adesso si perde tortuoso tra le case di Borgo come un. nastro che si sia allentato, si chiama il Passetto: bonari diminutivi di cose grandi antiche e venerabili, rime per sonetti del Belli, che riducono il papa a un placido canonico sorridente nella sua passeggiata al fresco durante la digestione.

"È proibito scrivere sui muri". Legge crudele stampata quassù a grandi lettere cento volte; legge crudele che toglie a questi miei compagni d'oggi due consolazioni d'un colpo: quella di mostrare che sanno scrivere, quella d'entrare in un minuto, pellegrini o innamorati, con una matita, una firma e una data, nella storia di Roma, chi sa, per sempre. Ma vi sono due sposini vestiti a nuovo, che non si rassegnano. Sono entrati di fresco nella legalità, e l'idea d'un piccolo peccato già li inebbria. Sorridono, arrossiscono, spiano pel loggiato a destra e a sinistra se spunti il custode. Lo sposo ha già la matita in mano, una matita legata in oro, dono di nozze certamente, tanto timido è lo sguardo da novizio con cui se la rimira stretta tra due dita come un torcetto acceso. La sposina d'un tratto gliela strappa di mano: - Lascia fare a me.. Tu fai la guardia, - e mi sorride per farmi suo complice. Anche il marito mi sorride, come a dire: - Le ha sorriso col mio permesso. - Quando se ne sono andati leggo: "Laura. e Renzo, 17 decembre 1922". La più coraggiosa ha messo giustamente il suo nome pel primo. Pensaci Renzo: sull'alto di Caste! Sant'Angelo sta scritta da stamane la tua sorte.

Vedi ingiustizia. Nella vuota sala detta la biblioteca di Paolo terzo trovo un guardiano con tanto di gallone d'argento intorno al berretto. E piccolo, contorto, infreddolito. Nel vano d'una finestra ha acceso un fiammifero di legno e vi soffia su perché arda bene. Quando il fiammifero è spento, si mette lui, lui custode della legge, con quel fuscello annerito a segnare sul muro alcune cifre. Mi avvicino, autorevole: - Ma non sa che è proibito scrivere sulle pareti? - Non è niente. Ho contato quanti sono i mattoni del pavimento e me li segno per ricordo. Sono millenovecentonovantotto -. Pacifico, va verso una comitiva di seminaristi che entra adesso; e comincia la spiegazione.

Salgo fino alla terrazza. Che gloria! Nel tepore che avvolge questo decembre mentre si viene addormentando nell'inverno, nell'aria limpida, che dietro l'Aventino, dietro il Quirinale, dietro il Pincio, dietro i Parioli rivela, dagli Albani ai Sabini, tutti i monti lontani con quel tanto di neve in cima in cima che separi il loro azzurro dall'azzurro del ciclo, ci si sente leggeri, schiariti, esilarati. E si capisce che anche questo gran San Michele quassù, ringuaini la spada.

Vi saranno cento persone stamane su questa terrazza, felici come me, lo sguardo imbambolato dalla gran luce. Tutto popolo. E c'è chi si protende dal parapetto a guardare, e resta cosi immobile come aspettasse l'ali per partire a volo. C'è chi si sdraia per terra, contro il muro del mastio, lasciandosi imbevere di sole e di cielo. E ognuno è solo. Anche gl'innamorati si dividono, svuotati e rapiti da questa immensità. No: c'è un omone tarchiato e sanguigno che in romanesco spiega a due amici di provincia nientemeno "l'idea del Bernini ". Ha tratto di tasca una grossa chiave, l'ha volta verso San Pietro: - Ecco quale era l'idea del Bernini. Voleva rifare a forza di porticati la chiave di San Pietro. L'occhio della chiave, lo vedete, l'ha fatto: è il porticato rotondo, quello là, davanti alla basilica. La canna della chiave doveva venir giù per Borgo fino a qui sotto, fino a Ponte Sant'Angelo. Ponte Sant'Angelo, in fondo, sarebbe stato il rettangolo cogl'ingegni della chiave. Capite? Ma il progetto, al papa non gli piacque. Diceva: ´ Li forestieri lassameli venì su pe' ste straducce e pe' sti vicoli; cosi quanno arriveno davanti a la piazza, je fa più effetto ". Capite come fu? Era un papa che ragionava fino -. Ma i due non,gli danno più retta. Anche loro sono partiti in sogno, e stanno a guardare il fiume giallo.

Borgo Vecchio, San Pietro, i palazzi del papa e, dietro, gli alberi del Giardino, color di ruggine. Pare che s'abbiano da fotografare tutto cogli occhi, per riportarselo a casa e ricordarselo, finestra per finestra, fino alla morte, e dopo. Anche il romano per un poco tace. Poi scatta, afferra uno dei suoi compagni per un braccio, lo scuote e gli dice fieramente:

- Io so' nato lì, vedi, ar vicolo der Villano. - E pare che gli vanti un suo gran stemma.

Una popolana in capelli s'è seduta sopra uno dei pietrini che chiudono i buchi pei pali, una volta, della girandola, s'è slacciata il corpetto e da il seno a un suo marmocchio. Un metro più in là, un mutilato grasso e rubicondo, senza un braccio, vestito ancora d'una giubba grigioverde troppo stretta e tutta toppe, s'è seduto sul parapetto proprio a perpendicolo sul Ponte. L'amico che l'accompagna gli si siede vicino, trae di tasca un paio di forbicette e comincia a tagliare le unghie della sola mano che è rimasta al mutilato. Poi con un temperino gliele lima. E si sorridono l'un l'altro, in silenzio, per un'ora, felici.

Il laboratorio farmaceutico non esiste più: fu smontato e riposto altrove.

Da Cose viste, tomo I, Milano, F.lli Treves.