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27 - La Repubblica Romana del 1849

30 giugno parte 2

La difesa di Villa Spada da parte dei Bersaglieri Lombardi comandati da Luciano Manara
La difesa di Villa Spada da parte dei Bersaglieri Lombardi comandati da Luciano Manara

Era la sera del 29 giugno. Dopo qualche ora di riposo, passata al palazzo Corsini, il battaglione-venne raccolto, e tornò alla Porta S. Pancrazio. Cadeva la pioggia a torrenti. I soldati aspettarono lungamente a cielo scoperto la loro destinazione. Due compagnie restarono di riserva a Villa Spada, la seconda andò ad occupare la breccia del bastione n. 8. In preda a una tristezza mortale io accompagnai il mio povero amico Emilio Morosini fino al suo posto. La notte scendeva buia e tempestosa; noi affondavamo nella terra smossa dai recenti lavori; il luccicare dei lampi abbagliandoci impediva di scorgere la luminosa parabola delle bombe e di sfuggirle: costretti ad ogni momento a gettarsi bocconi nel fango per evitare gli scoppii di quei proiettili, i soldati avanzavano lentamente in preda al più sconfortante sgomento. Favoriti dalle tenebre e dalla confusione di quella marcia, i più s'erano sbandati per ritornarsene. Arrivati alla breccia non restavano abbastanza uomini per rilevare le sentinelle. La bufera imperversava, la pioggia c'intirizziva, l'oscurità diveniva assai fitta. Poveri bersaglieri sepolti fino alle ginocchia nel fango, atterriti dal frequente e fatale cadere delle bombe, si recavano ai posti pericolosi loro assegnati in un silenzioso scoraggiamento. Era uno spettacolo che faceva male a vedere. — Oh Iddio perdoni a coloro che furono cagione di tanta inutile strage I Ed essi invero hanno tanto più bisogno del perdono di Dio, in quanto che, convinti di già della impossibilità d'ogni ulteriore difesa, anche per attestazione dei più intrepidi militari, si ostinarono contro coscienza nella continuazione di essa, e solo per poter dire noi non cedemmo non ebbero ribrezzo di aumentare inutilmente il numero delle vittime. Eppure il volgo batte le mani e chiama gloria dell'Italia chi fuor di pericolo, in seggio tranquillo, e munito di salvacondotti, non arrischiava al più che di affrontare il consueto agiatissimo esilio, mentre o ha già dimenticato, o fra poco dimenticherà, fino i nomi dei generosi che posposer la vita al loro dovere!

Verso le 11 ore, chiamandomi il mio dovere presso Manara, io abbandonai Morosini dopo averlo baciato caldamente e pregato di conservarsi meglio che potesse all'amore della famiglia ed alla stima di tutti gli amici. Continuò tutta notte frequentissimo il cannoneggiare e ad ora ad ora la fucilata agli avamposti.

Verso le due ore dopo mezzanotte, protetti dalie spesse tenebre e dalla negligenza di alcuni posti vennero le varie breccie sforzate, e i nemici irruppero nella nostra linea. Destati dallo spaventoso frastuono di quell'improvviso assalto in un attimo fummo tutti in piedi, gridato l'allarmi, e battuta la generale. Ma la notte era oscurissima, il cielo ancora tempestoso; i colpi di moschetto, le grida si andavano avvicinando, la confusione era tremenda.

Io vidi Garibaldi spingersi innanzi colla spada sguainata, e cantando un inno popolare, dietro lui raggrupparsi pochi coraggiosi, mentre gli altri, in cui già si era introdotto il terror panico, si arrestarono spaventati, supponendo ad ogni tratto d'essere circondati e tagliati a pezzi. In pochi minuti i Francesi avevano rovesciato ogni ostacolo e s'erano inoltrati fino alla barricata di gabbioni che stava al cancello a pochi passi da villa Spada. A quella vista i nostri presero animo, cominciò la fucilata, e la barricata fu or presa ora perduta, mentre le grida, i colpi, le cannonate, lo scoppio delle bombe e il rovinare dei ripari e dei tetti, empivano l'aere del più spaventoso fracasso che mai mente atterrita possa immaginare.

Il posto di Morosini fu dei primi ad essere circondato. Appena intese le strane grida, queir ammirabile giovine si era slanciato solo, onde osservare che cosa ci fosse di nuovo, quando ad un tratto si vide attorniato ed assalito si d'improvviso che ogni soccorso tornava inutile. Egli colla sciabola e colle pistole si difese per alcuni minuti mentre incoraggiava i suoi. Colpito nel ventre da una palla e da un colpo di baionetta, egli cadde e il nemico passò oltre. Quei pochi bersaglieri dopo un'ostinata resistenza, presi ai fianchi, alle spalle, circondati, decimati, gettarono le armi. Quattro di essi però erano già accorsi a raccogliere il caduto Morosini che da tutti i suoi era grandemente amato, e postolo su una barella, favoriti dalla confusione, s'avvia rono correndo verso villa Spada. Ma questa era già circondata; s'imbatterono quindi nei Francesi che gridarono da lungi qui vive? — Prisoniers — rispose Morosini con voce fioca. Ma i nemici temendo forse d'una frode s'avventarono colla baionetta calata. Raccontò alcuno dei bersaglieri i quali portavano Morosini, che trovandosi circondati e minacciati nella vita dal nemico inferocito dalla pugna, aveano deposto la barella e tentato di salvarsi, e che allora, mirabile a dirsi, fu veduto quel povero giovinetto alzarsi, ritto-sulla barella insanguinata, e posta mano alla spada che gli giaceva a lato, continuare già morente a difendere la propria vita, finché colpito una seconda volta nel ventre cadde di nuovo. Commossi a tanto e sì sventurato coraggio, quei Francesi lo raccolsero e portarono all'ambulanza di trincea.

Molteplici e variatissime narrazioni vennero fatte sulla morte di lui. Questo solo potei raccogliere di sicuro, che egli visse 30 ore rassegnato, pregando, parlando della sua famiglia, e strappando le lagrime ai nemici stessi che accorrevano a vederlo per meraviglia. Il mattino del primo luglio spirò serenamente senza soffrire. — Ohi mi sia qui concessa una parola su quell'impareggiabile giovinetto, oggetto di tenerezza, di ammirazione e di stupore a quanti l'hanno conosciuto, e che ha gettato tante anime nel lutto col suo crudelissimo fine. Non arrivando ancora ai diciott'anni, egli 'era l'esempio, la meraviglia di tutto il battaglione per la sua angelica e simpatica bontà. Più fanciullo di tutti noi, era quasi nostro Mentore, e noi lo chiamavamo l'angelo nostro custode; tanta era l'illibatezza virginale della sua condotta, e la severità inalterabile dei principii suoi, ch'egli cercava con una forza, di cui spesso difettano le anime più elette, di mantenere incontaminata negli amici suoi. Era commovente il vederlo sotto il fuoco nemico, ritto sempre ove più incalzava pericolo, mantenersi tranquillo recitando sommessamente le sue preghiere e comandando ai soldati col sangue freddo d'un provetto capitano.

Egli è morto! Ma il suo nome, la sua memoria vivranno eternamente nell'anima addolorata, non solo de' genitori, delle sorelle, dei congiunti ed amici, ma di tutti coloro che avendolo appena conosciuto il proclamavano esempio e modello di angelica soavità, di coraggio, d'ingegno e di virtù!

Dopo la presa delle varie breccie si combatté su tutti i punti. I Francesi occupavano tutti i bastioni, le nostre strade, le barricate; avevano preso molti nostri cannoni, la maggior parte dei quali però era stata dagli artiglieri inchiodata. Furono visti molti di quei cannonieri avviticchiarsi morenti al loro cannone, e più d'un pezzo non venne preso che dopo averne ucciso tutti i difensori.

Spuntava il giorno, e colla luce tornava l'animo ai nostri, i quali si raccoglievano e cercavano di spingersi coll'usato ardire sull'inimico irrompente. Ma ogni ordine era rotto, e ad ogni momento i Francesi ingrossavano; i bersaglieri nostri si riunirono a villa Savorelli, quei di Garibaldi nella strada e fra le vigne; fu suonato l'assalto, tutti si lanciarono con un ultimo impeto di coraggio, e il nemico, davanti a quel disperato sforzo d'una gente già vinta, dovette arrestarsi su tutti i punti. Il cannone tuonava continuamente. Le nostre batterie rovinate, senza artiglieri (erano quasi tutti stati colpiti sui loro pezzi) non sapevano rispondere; fra i nostri soldati numerosissimi i caduti, e la più parte mortalmente feriti.

Villa Spada era circondata: noi eravamo stati costretti di rinchiuderci entro, barricare la porta e difenderci dalle finestre. Le palle di cannone cadevano frequenti devastando e uccidendo; entravano dalle sgangherate finestre le palle dei Chasseurs de Vincennes e ben di rado fallivano la meta. E terribile il combattere entro una casa, dove ogni parete può rimandare di rimbalzo una palla, dove, se non colpisce il cannone, le pietre che rovinano possono schiacciare, dove l'aere s'impregna di fumo, di polvere, i gemiti dei feriti si fanno udire più forti, il pavimento insanguinato sdrucciola sotto i piedi, e l'intiera casa vacilla sotto l'urto crescente delle cannonate

Già da due ore durava questa difesa. Manara si aggirava continuamente per le camere, onde rianimare colla presenza e colle parole i combattenti. Io lo seguiva coll'animo angosciato, non avendo alcuna notizia di Morosini. Una palla di rimbalzo mi ferì il braccio destro. "Perdio! sclamò Manara .che mi stava presso; hai sempre da esser tu il ferito? io non devo portar via nulla da Roma?"

Pochi momenti dopo egli stava guardando col cannocchiale dalla finestra alcuni Francesi che stavano appostando un cannone, quando un colpo di carabina Io passò da parte a parte. Fece tre passi, poi cadde boccone senza che io col braccio che mi rimaneva sano, potessi sostenerlo. « Son morto, mi disse cadendo, ti raccomando i miei figli. ».

30 giugno 1849 morte di Luciano Manara
30 giugno 1849 morte di Luciano Manara

Accorse il medico; io lo interrogava ansiosamente collo sguardo, e nel vederlo impallidire perdetti ogni speranza. Fu posto sopra d'una barella, e per una finestra rovinata, cogliendo un momento di quiete, ci gettammo nella campagna. Manara, lasciando cadere una delle sue mani nelle mie, mi andava ripetendo: « Non abbandonarmi, resta con me. » Ed io lo seguii col cuore straziato; io aveva compiuto fino all'ultimo il mio dovere di soldato, ora mi rimaneva a compiere il doloroso uffìzio di amico.

Dopo molto aggirarci arrivammo all'ambulanza di S. Mario della Scala, dove già stava raccolto un centinaio dei feriti più gravemente che non potevano essere trasportati più oltre. Appena giunto, Manara mi disse di mandar a chiamare il dottore Agostino Bertani suo amico milanese. Intanto tutti i medici s'affaccendavano intorno a lui; ma egli continuava dicendo: • Lasciatemi morire in pace; non mi muovete. » Dietro l'assicurazione dei medici che aveva poche ore di vita, io mi chinai al suo orecchio, e « pensa al Signore, gli dissi. » — Oh ci penso ! e molto, mi rispose.— Allora feci cenno ad un cappuccino che si avvicinò, e che, dopo accolti i segni di contrizione del morente, gli impartì l'assoluzione. Manara volle eziandio esser confortato dal Viatico, ed io mi studiava di.prepararlo meglio che potessi al gran passaggio; una soave dolcezza m'entrava nell'animo in vedere quel mio povero e carissimo amico così cristianamente affrontare la morte. Dopo essersi comunicato non parlò per qualche tempo. Mi raccomandò poscia di nuovo i suoi figliuoli. « Allevali tu, mi disse, nell'amore della religione e della patria. » Mi pregò di portare in Lombardia il suo corpo insieme con quello di mio fratello. Scorgendomi piangere mi domandò: «Ti rincresce che io muoia?»

E vedendo che io non rispondeva perché soffocato da singhiozzi, aggiunse sommessamente, ma colla più santa rassegnazione: «Anche a me dispiace

Chiamò vicino a sè il soldato che fu sua ordinanza, e gli chiese perdono se P aveva .alcune volte fatto impazzire. Poi mi chiese notizie di Morosini, mostrando desiderio di averlo presso di sè. Io sapeva già da vaghe voci ch'egli era prigioniero, e me n'era tutto racconsolato immaginandolo fuori di pericolo. Non gliel dissi però, perchè troppo egli lo amava, e poteva spaventarsene. Poco prima che morisse si levò un anello che si aveva carissimo, e me lo mise in dito egli stesso, poi attirandomi verso di lui: « Saluterò tuo fratello per (e, n'è vero? »

Quando arrivò Bertani, Manara non parlava quasi più. Solamente nel sentirsi ancora rimuovere per essere medicato, si alzò un poco colle mani giunte sclamando; « Oh Bertani, lasciami morir presto! Soffro troppo ». Questo fu l'unico lamento che gli sfuggì di bocca.

Quando sopravvennero le convulsioni dell'agonia e cominciò a scuotersi e ad aggrapparsi a chi gli stava d'attorno, io mi sentii venir meno e fui portato lontano, perché i miei singhiozzi potevano accrescer patimento al moribondo. Allorché rinvenni e tornai al letto, lo trovai già immobile e freddo. Il cuore gli batteva ancora con lentezza. A poco a poco ogni calore di vita cessò, e l'anima di quel giovane eroe volò in cielo a raggiungere gli amici caduti prima di lui e con lui!... Erano quindici mesi che noi dividevamo pericoli, gioie, speranze; senza secreti fra noi, senza gelosie, animati da una simpatia che aveva finito a mutarsi in affetto fraterno, io perdeva in Manara più che un amico.

Uhi quanto ho sofferto nello stringermi fra le braccia quella spoglia fredda, e sì bella ancora nella sua pallidezza. Solo valeva a darmi qualche conforto il pensiero che almeno Morosini, come tutti credevamo, era salvo!

Il combattimento continuava intanto accanito. I nostri guidati da Garibaldi fecero un'ultima carica alla baionetta e respinsero i Francesi fin oltre la seconda linea. Quel supremo impeto esaurì del tutto le forze dei bravi soldati. Si sparse la voce che il municipio aveva mandato al campo a capitolare, e le fucilate a poco a poco cessarono. Venne la notte silenziosa e tristissima. Quasi tutti i nostri posti erano abbandonati ; moltissimi i morti e i feriti, ammirabile il coraggio dei rimasti, ma perduta, com'era da prevedersi, colla giornata la città. I Francesi occupavano tutti i bastioni, il Vascello, e si spingevano fino a S. Pietro in Montorio.

La giornata del 30, benché sì miseranda per i suoi effetti, fu gloriosa per le armi italiane. Ma troppe preziose vite andarono spente in quell'inutile combattimento.

I tre giorni che precedettero l'entrata dei Francesi in Roma, presentarono il lagrimevole aspetto solito a prendersi da una città la vigilia d'una resa. L'assemblea costituente decretava il 1° luglio di desistere da una difesa divenuta impossibile; il Triumvirato si dimetteva, ed un altro ne veniva eletto in sua vece. I ministri mandavano le 'loro dimissioni. Il municipio incaricavasi delle trattative. L'assemblea continuava in permanenza, e protestava che solo la forza avrebbe valso a discioglierla. Decretava intanto benemerito della patria il Triumvirato, cittadini Romani tutti coloro che avevano portato le armi in difesa della repubblica, autorizzava il ministero delle finanze a sovvenire i più bisognosi. Il popolo era inquieto, tumultuante: in molti luoghi si fortificavano ed innalzavano barricate, si riordinava la truppa.

Le voci più strane e spaventose correvano per la città. Dal campo nulla di certo, si temeva un novello attacco. Il generale Oudinot voleva in mano tutti quei Francesi che avevano combattuto contro i loro compatriotti; il Governo romano non voleva infamarsi col vender coloro ai quali aveva dato impiego, protezione e cittadinanza. Intanto le trattative andavano in lungo e l'ansiosa irrequietezza cresceva.

La mattina del 1° luglio io veniva avvisato da un soldato fuggito dalla breccia, che Morosini quando cadde prigioniero era già gravemente ferito. Benché straziati) io pure dalla mia leggiera ma incomoda ferita, corsi al Triumvirato, poi al ministero ed al municipio, per domandare un permesso di escire di città. Dopo tre ore di corse infruttuose, giunsi ad averlo e mi recai al campo francese, senza salvocondotto di sorta. Arrestato agli avamposti seppi così spiegare la mia ansietà, che quell'uffficiale commosso permisemi di penetrare nel campo. Fui condotto ad un'ambulanza. Domandai al primo medico a cui mi abbattei d'un giovanetto ufficiale lombardo ferito sulla breccia. Mi venne risposto: È morto!... Era il terzo ed ultimo amico che mi rimaneva, quello per cui tremava di più, sento la sua morte non solo dolorosissima per sé stessa, ma terribile sventura ad una famiglia che lo adorava e di cui era unico figlio. Io pensai alla madre, ai congiunti, a me. Nè poteva piangere, circondato com'era da una folla di soldati che andavano squadrandomi con quella curiosità che è solita fra nemici. Domandai mi si concedesse almeno il cadavere per portarlo alla famiglia. Risposemi il medico esser desso stato portato al cimitero lontano quasi due ore. Mandò subito, dietro mia preghiera, a contrordinare il seppellimento. Intanto io stetti aspettando in preda all'angoscia più viva, e costretto a disputare di politica con quegli ufficiali i quali mostravansi perfettamente all'oscuro d'ogni cosa che ci concernesse. Mi domandarono perché non avessimo voluto accettare la convenzione di Lesseps, e poi che cosa avevamo fatto dopo la vittoria su noi riportata dai Napoletani.

Era già più di un'ora che io stava attendendo, quando entrò un capitano aiutante maggiore. Questi si meravigliò grandemente nel vedere un uffìziale nemico nel campo senza salvocondotto, condannò agli arresti l'ufficiale che mi avea ricevuto, e mi rimandò oltre la linea degli avamposti senza voler intender nulla. Dovetti tornarmene in città a portare agli amici ansiosi la tristissima notizia. Scrissi al capo di stato maggiore francese, domandando l'autorizzazione di entrare nel campo per levarne il corpo del defunto mio amico. La ebbi la mattina del giorno 2. Mentre mi avviava m'imbattei nel funerale di Manara. Era uno spettacolo che lacerava l'anima. Venivano primi i due battaglioni da 900 uomini ridotti a 400 senza uffiziali, tristi, scoraggiati, estenuati. Io vedeva passarmi innanzi dieci o dodici soldati, ultimo avanzo della compagnia di mio fratello, senza capitano, senza tenenti, tutti miei amici, morti all'ospedale o prigioni. Una musica romana seguiva i soldati, poi la bara coperta della tunica insanguinata, poi un centinaio di feriti che si erano a stento trascinati fuori del letto per salutare l'ultima volta il povero loro colonnello. L'aspetto di quella città conquistata che prima di ricevere i vincitori, assisteva tristamente alle esequie d'uno de' suoi difensori più nobili ; il pensiero di quel giovane valoroso, padre di tre figliuoletti, morto a 24 anni nell'ultimo giorno della difesa, quando gli sorridevano ancora le speranze più belle, accompagnato ora alla tomba dai suoi compagni, vedovati per la sua morte d'ogni sostegno; que' feriti; quei fiori gettati lungo tutta la via, e il pensiero sconfortante delle pubbliche sventure che aggiungevansi a render più grave quello delle private; ogni cosa concorreva a straziare crudelmente l'anima già tanto abbattuta. Portato a S. Lorenzo in Lucina, furonvi celebrate sontuose esequie, ed il Padre Ugo Bassi recitò sul feretro l'orazione funebre. Era uno di quegli spettacoli che restano impressi per tutta la vita, e che fanno rabbrividire.

Non ancora riavuto da quella scossa, io dovetti tornare al campo, delirante quasi per F angoscia che m'opprimeva. Agli avamposti mi bendarono gli occhi, poi mi fecero camminare sotto un sole cocente per più di due ore. Arrivato mi trovai presso a una fossa. — Morosini era già seppellito. Dovetti assistere alla disumazione, seguire coll'occhio ogni colpo di zappa che mi rimbombava nel cuore, poi vedere quell'angelica figura lorda di sangue e di terra venir levata dalla fossa, e posta sulla bara precedermi fino in città. Oh fu quello l'ultimo e il più tremendo raffinamento di dolore a cui Dio m'aveva riserbato. Con esso io aveva adempiuto fino all'ultimo il mio dovere, e nel delirio dell'affanno mi domandai bestemmiando che cosa era pestato a fare quaggiù.

Mentre tali cose accadevano, cresceva in città l'incertezza e la confusione. Turbe di popolani si aggiravano per le vie chiedendo con grida sinistre si continuasse la guerra: la maggior parte in un disdegnoso silenzio si preparava a sobbarcarsi allo antico giogo. Ma non una barricata fu abbattuta, non un posto di guardia nazionale sguernito, non un magistrato abbandonò il suo posto. — Le deputazioni al campo si succedevano, e non si concludeva nulla. Finalmente con atto magnanimo furono spalancate le porte della città, consegnate le truppe in quartiere, e a quell'esercito che veniva annunziandosi liberatore, rispose l'Assemblea, che cedendo alla forza Roma non resisteva più; compiessero i Francesi il loro triste mandato.

La stessa mattina Garibaldi, adunata in piazza S. Pietro la truppa ed i Volontari, invitò chi non volesse deporre le armi a seguitarlo. Annunziava ch'ei correva a gettarsi nelle montagne, non promettendo nulla, eccetto fame, sete, pericoli e combattimenti. Quattro mila uomini si riunirono a lui, e fra lo stupore di tutti gli assennati che non comprendevano affatto che cosa intendesse fare Garibaldi con un pugno di soldati disanimati contro quattro eserciti, egli uscì dalla porta S. Giovanni Laterano, avviandosi a Tivoli. Nessuno ignora la fine dell'avventata sua spedizione, non ultimo miserando episodio di un'istoria ancor più miseranda.

I Volontari ed i Bersaglieri Lombardi - ANNOTAZIONI STORICHE - EMILIO DANDOLO - SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI - ALBRIGHI, SEGATI & C. - 1917

30 Giugno 1849

La mattina del 30 due grosse colonne francesi, sostenute da forti riserve mossero di fronte e dai fianchi all'assalto della breccia; i Romani li respinsero con vigorosa pugna; assaliti e assalitori si trovarono corpo a corpo ed un accanito combattimento a ferro freddo s'impegnò sul terrapieno; molti s'immortalarono in quella difesa disperata. Emilio Morosini eroe diciottenne fece eccidio di nemici, e sebbene ferito due volte non ristà dalla pugna, ma sfinito di forze mentre era trasportato all'ambulanza dai suoi, fu sopraggiunto dai nemici e abbandonato; ma non si arrese ancora e menò di sciabola finchè gli bastò la lena; quando una terza palla nel ventre gli trapassò il bel corpo e ne involò l'anima eroica.

La breccia era salita, ma non presa ancora; le batterie della Montagnola facevano strage degli assalitori; i francesi pagarono ogni palmo di terreno col sangue loro e dei loro capitani; gli artiglieri si facevano tagliare a pezzi sui loro cannoni, ma non si arrendevano; esaurite le polveri restavano ancora le baionette e i calci dei fucili; restavano sopratutto ancora a far barriera i petti dei superstiti ed i cumuli dei morti; ma la gloriosa ecatombe non poteva trattenere il nemico ed il numero doveva avere ragione una volta ancora; i francesi irruppero da ogni lato minacciando l'unica via di ritirata; non restava ai superstiti altro riparo che Villa Spada. Garibaldi richiamata al Casino Savorelli la Legione Medici, poichè la perdita della seconda linea rendeva inutile la difesa del Vascello, asserragliata Villa Spada, appoggiate le spalle a San Pietro in Montorio, la Sinistra a San Calisto, l'estrema destra al bastione nono ancora in piedi, tentò improvvisare una terza linea di difesa.

Preceduti e spalleggiati dal fuoco incrociato di tutte le batterie, i francesi montavano da ogni parte all'assalto; ma il loro obiettivo era sempre Villa Spada; colà ormai si decideva l'estrema sorte di Roma; colà Garibaldi, il Manara, Sacchi, i Legionari, i Bersaglieri, quanti erano uomini vivi e atti ancora a impugnare un'arma si prepararono all'estremo cimento. Il tetto, le mura della casa bombardata, crollavano da ogni lato sui difensori, ma nessuno parlava di resa. Il Manara infiammato da eroico ardore, desiderando la morte piuttosto che assistere alla resa correva dove più era grande il pericolo, incorraggiava i combattenti, dirigeva la lotta, ma mentre s'affacciava per osservare le mosse del nemico una palla lo stramazzò agonizzante fra le braccia di Emilio Dandolo, a cui poco prima aveva detto, come Ney a Vaterloo: «Non ci sarà dunque una palla per me?» Un altro come lui aveva cercato in quell'antro infuocato di Villa Spada la morte; ma questa lo risparmiò suo malgrado volendolo serbato a ben più grande destino. Se in quel giorno Manara fu grande, Garibaldi fu terribile; ruotava come fulmine la sua spada e guai ai nemici che incontrava dinanzi. I suoi fidi tremavano di vederlo cadere da un momento all'altro, ma pareva che le palle avessero paura di toccarlo.

A mezzo giorno del 30 giugno tutto era finito; Villa Spada era perduta; Garibaldi si ritirava coi laceri avanzi dei suoi, per la Lungara, sperando ancora di arrestare il nemico a Ponte Sant'Angelo, quando, un rappresentante del popolo venne ad annunziargli che l'Assemblea aveva bisogno d'interrogarlo sullo stato delle cose, e l'attendeva in Campidoglio. di un garibaldino vol. I, by Augusto Elia 57 Chiese al Vecchi Augusto che lo scortava «credete che in un'ora potremo essere di ritorno?» Lo credo rispose il Vecchi--«allora partiamo» e al galoppo, coperto di polvere, fiammeggiante in volto per l'ardore della pugna, salì al Campidoglio. Al suo apparire l'Assemblea ruppe in una salva interminabile di applausi. Informato che Mazzini aveva già proclamato che tre sole vie rimanevano aperte ai romani: o capitolare; o difendere la città fino all'estremo ovvero uscire da Roma, Governo, Assemblea, Esercito, e portare la guerra altrove; invitato Garibaldi a salire sulla Tribuna ed esporre il parere suo, dichiarò senz'altro. «La difesa oltre Tevere impossibile; possibile ancora al di qua del fiume la guerra di barricate; ma a patto che tutta la popolazione s'internasse nella città, e che tutto ciò si effettuasse entro due ore. Dover suo di aggiungere che anche siffatta difesa non avrebbe potuto durare che pochi giorni. Quanto a lui null'altro restavagli che uscir di Roma col resto dei suoi prodi e tenere alta la bandiera della patria fino all'estremo; consigliava perciò l'Assemblea di accettare la terza proposta del Mazzini: uscire da Roma coll'esercito, col Governo e coi rappresentanti del popolo; concludendo: «dovunque saremo, colà sarà Roma». Ciò detto tornò al suo campo, e l'Assemblea, respinta ogni idea di resistenza votò il Decreto omai celebre:

«In nome di Dio e del popolo.

«L'Assemblea costituente romana cessa una difesa divenuta impossibile, e sta al suo posto». Per effetto di questo Decreto, il Triumvirato rassegnava l'ufficio al Municipio Romano unica autorità legittima cui spettasse di negoziare col vincitore i patti della resa. Senonchè avendo il generale francese per colmo, rifiutate le più oneste condizioni, e tra le altre quella del rispetto delle persone e delle cose, Roma sdegnosamente ruppe ogni negoziato, preferendo lo estremo arbitrio del vincitore al disonore di sottoscrivere con lui una resa che avrebbe soffocato in lei il grido di estrema protesta al mondo, contro quella bugiarda sorella latina, che dopo averla assalita colla perfidia di un tradimento, vinta colla sola virtù del numero, veniva a negarle il supremo diritto dell'incolumità della vita e degli averi dei cittadini.

Il Municipio annunziava ai romani la prossima entrata dei francesi.

«Romani!

«Il coraggio da voi dimostrato nella difesa di Roma, i sacrifici che incontraste, vi hanno assicurata la gloria e la stima degli stessi stranieri--Una difesa ulteriore, come fu annunziato dal Decreto dell'Assemblea, sarebbe stato impossibile, senza volere la distruzione d'una città che conserva memorie le quali non debbono perire.

La vostra rappresentanza municipale non ha accettato patti per non compromettere menomamente la dignità di un popolo così generoso, ed ha dichiarato di cedere alla forza.

«Le leggi di umanità e di incivilimento, la disciplina di un'armata regolare, le assicurazioni dei comandanti ci ripromettono il rispetto delle persone e delle cose.

«La vostra rappresentanza municipale vi promette che non mancherà di fare quanto è in suo potere onde non si rechi ingiuria ad alcuno. Abbisogna però del vostro concorso ed è certa di ottenerlo. Fida nel vostro contegno dignitoso e nell'esperienza costante che ha dimostrato al mondo come i romani in circostanze prospere o avverse, hanno saputo egualmente mantenere l'ordine, e costringere anche i nemici e salutare con riverenza la città dei monumenti, e rispettarne gli abitanti che con le loro virtù rendono impossibile l'oblio della Romana Grandezza.

Dal Campidoglio il 2 luglio 1849. - Francesco Sturbinetti, Senatore.

Ricordi di un garibaldino