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25 - La Repubblica Romana del 1849

L'assedio di Roma parte 2

La difesa di Porta San Pancrazio delle truppe di Garibaldi dall'attacco dei francesi.
La difesa di Porta San Pancrazio delle truppe di Garibaldi dall'attacco dei francesi.

L'ASSEDIO DI ROMA, 4-29 GIUGNO.

Standing by sick-beds in the hospitals,
Where thy young warriors stricken down are lying,
Watching for thy slow shadow on the walls.
And where for one more look of thee the dying
Linger from hour to hour.

Sonnet to Garibaldi. Mrs. HAMILTON KING, (Aspromonte and other poems).

L'assedio di Roma

L'eroismo italiano del 3 giugno non era stato lo scoppio spasmodico di rabbia di una razza incapace di prodezza duratura. Per tutto o quasi tutto il mese dopo, i reggimenti decimati dagli attacchi alla Villa rimasero sulla linea di fronte. Esposti al fuoco tutti i giorni e non di rado la notte, snervati e disfatti dalla tensione incessante dell'assedio e del bombardamento, ripetutamente impegnati nei più fieri scontri corpo a corpo, privati a uno a uno dei loro ufficiali, e pur tenendo fermo in posizioni che, secondo le massime ordinarie dell'arte militare, erano state rese insostenibili dalle batterie nemiche erette davanti alla Villa Corsini, questi reggimenti che costituiti dai migliori volontari in massima parte, e dalle truppe regolari ex-papali in minima, non contavano più di sei o settemila uomini in tutto, tennero il Vascello e i bastioni del Gianicolo.
A guardia delle parti più basse della città, il Vaticano e la riva sinistra, minacciate e di quando in quando bombardate ma non mai attaccate sul serio, stavano truppe più numerose ma meno agguerrite. l'esercito francese che era salito rapidamente al numero di 25,000 e verso la fine del mese, di 30,000 uomini, era spalleggiato da un treno di cannoni d'assedio e da un buon corpo d' ingegneri diretti dal Vaillant stesso. l'artiglieria italiana, con il suo coraggio straordinario e l'accuratezza del suo tiro, strappò lodi al nemico ; ma per la parte scientifica i difensori di Roma non avevano che « pochi ingegneri civili e un battaglione di zappatori ignoranti e timorosi ».
Non si può estendere alla popolazione di Roma la lode altissima dovuta ai "corps d'elite" del Gianicolo che con Garibaldi, il Medici e il Manara, conquistaron fama alla città messa sotto la loro protezione. Molti abitanti della città, è vero, pugnarono e caddero in quelle file, ma la massa della popolazione, torme disarmate e non incorporate, si tennero inoperose quasi ad aspettare che il nemico forzasse l'ingresso e allora solo accorrere a difendere le barricate che pur avevano erette con trasporto entusiastico. La caduta del Gianicolo, rendendo impossibile questa forma di resistenza, frustrò la loro intenzione ; ma essi avrebbero potuto aiutare validamente la causa se nel corso dell'assedio avessero mostrato maggior fervore nel lavoro delle trincee. Invece lasciarono che i soldati negli intervalli fra uno scontro e l'altro si esaurissero nel maneggio del piccone e della vanga a cui erano insufficienti anche per scarsità di numero ; così che più di una volta i Garibaldini ebbero a scendere dentro Roma e condurre a forza branchi di cittadini sul posto del lavoro. Non è giusto però, dimenticare la grossa banda di operai che ispirata da Ciceruacchio andò a offrirsi in aiuto al Vascello, dove nell'atto di brandire le zappe in quel punto ch' era il più esposto di tutta la linea, molti furon stesi a terra dalle palle nemiche.
E se non altro, non vi era penuria di zelo politico e di acredine verso il Papa. Al vedere i giorni succedersi ai giorni e le palle continuare a fischiare sul Gianicolo e piombar giù in Trastevere uccidendone gli abitanti nelle loro stesse case, l'odio popolare infieriva contro quel padrone una volta tanto amato, ora gareggiante con il suo amico il Re di Napoli a conquistarsi il titolo di Bomba. Con l'abitudine del bombardamento crebbe anche quella di salutare ogni proiettile al grido di : «Ecco un Pio IX ! » e si videro donne e ragazzi in Trastevere raccogliere le bombe infuocate e gettarle nel Tevere (*).
(*) Testimonianza oculare del Costa.

…La condotta dei feriti rivelò alcuni tratti ammirevoli del carattere nazionale. Quando eran trasportati dalla scena del conflitto per le strade della città, non mancavan quasi mai di salutare i viandanti al grido di Viva l'Italia ! Viva la Repubblica ! Gli ospedali a cui molti venivan portati erano sforniti del materiale adatto, e affidati a un corpo d' infermiere volontarie piene d' abnegazione ma inesperte ; il famoso patriotta dottor Bertani si adoprò fino a metà dell'assedio a migliorarne le condizioni, ma la miseria, le malattie e la morte continuarono in gran copia, sopportate con un coraggio e una dolcezza che non venner mai meno.

« Dopo il 30 aprile (scriveva Margaret Fuller a mezzo giugno), sono andata tutti i giorni negli ospedali e sebbene abbia sofferto non poco — che non avevo mai saputo quanto siano terribili le ferite delle armi da fuoco e la febbre che le accompagna — pure mi ha fatto piacere, gran piacere, stare fra questi soldati. E raro trovarne uno che non sia animato da nobili spiriti ; molti, specialmente i lombardi, sono il fiore della gioventù italiana. Quando cominciano a migliorare porto loro dei libri e leggiamo e chiacchieriamo insieme. Il Palazzo del Papa sul Quirinale, è ora per uso dei convalescenti ; io passeggio con loro per quei giardini : chi ha il braccio al collo, chi va sulle gruccie.
Il giardiniere mette in moto tutti i suoi getti d'acqua per i difensori della patria, e coglie fiori per me, la loro amica. Due o tre giorni fa, ci siamo seduti nel piccolo padiglione del Papa ch'egli usava per le udienze private. Il sole tramontava in tutta la sua gloria dietro Monte Mario, dove le tende della cavalleria leggiera francese gettavano bagliori in mezzo agli alberi. Si sentiva di tanto in tanto il cannone. Due ragazzi dagli occhi vispi sedevano ai nostri piedi raccogliendo a bocca aperta ogni parola degli eroi del giorno. Era un' ora di bellezza solenne, carpita a volo fra la rovina e il dolore ; e le storie narrate avevan tutta la grazia e il patos di quelle del Boccaccio, ma uno spirito ben diverso — spirito di nobile speranza per l'uomo, di reverenza per la donna ».

E « rovina e dolore » d' ogni genere — morte, ferite, penuria, esilio — eran davvero in agguato avvolgendo nella loro tetra ombra le dimore di tutti gli spiriti nobili, devoti all'Italia ; un anno più tardi la stessa Margaret Fuller moriva in mare annegata.
Un'altra donna ugualmente notevole, la principessa Belgiojoso, una rivoluzionaria amica di Victor Hugo e dell'Heine, che messa al bando della Lombardia dall'Austria, aveva tenuto in Parigi per molto tempo uno dei salotti più distinti, lavorava indefessa in un altro ospedale mettendo a servizio dei suoi poveri connazionali feriti, la sua instancabile energia fisica e la sua capacità straordinaria di organizzatrice. Quando non si aveva bisogno della sua presenza altrove, ella passava le lunghe notti al capezzale del Mameli moribondo, dove cercava una diversione alla tragedia che li circondava, leggendo il Dickens a voce alta, alla fievole luce di una lampada a olio.

… l'approvvigionamento della città era affidato su larga scala all'artista Costa, che essendo nativo del posto conosceva bene il terreno tutto intorno. E egli usava poi raccontare le avventure occorsegli nelle sue entrate e uscite di soppiatto, fra i francesi da una parte e gli spagnoli dall'altra, — poiché anche la Spagna dietro invito del Papa aveva sbarcato 6,000 uomini di truppa che occupavano le rive del basso Tevere fra Roma e Fiumicino, ma non prendevano parte attiva all'assedio.

« Queste spedizioni così rese piccanti dal pericolo, risultavano non meno attraenti al giovane ardimentoso che sapeva apprezzarne il lato pittoresco offerto dalla desolata e solitaria campagna, i cui vasti spazi e le cui linee nette e le distanze violacee e i colli color d'ametista dovevan diventare una nota favorita nei suoi futuri lavori artistici. Egli ricordava sempre con un certo gusto un' occasione speciale in cui accompagnato dal mercante di campagna Luigi Silvestrelli, e montato a cavallo e armato del pungolo proprio del mandriano romano, spinse nella città trecento capi di bestiame bovino selvatico ». Non per questo il Costa si astenne dal partecipare all'impresa disperata del Vascello. Questo e la casa Giacometti, come la casina situata fra questi due presso il cancello Corsini, formavano una linea avanzata, che la sera del 3 giugno Garibaldi aveva affidata alla cura di Giacomo Medici, il giovane ufficiale milanese di Montevideo e delle Alpi, quello stesso che ammonito dall'Anzani morente aveva fatta la promessa poi sempre fedelmente osservata, di non abbandonare il predestinato liberatore dell'Italia. Egli era arrivato a Roma con la Legione Medici forte di circa trecento uomini reclutati fra i suoi compagni d'armi dell'anno avanti nelle Alpi e fra gli studenti e i giovani lombardi di famiglia agiata. Avendo passato la sua prima gioventù non nelle Università italiane ma nelle campagne dei Carlisti, era un soldato rude, aspro e reciso nella disciplina, e sopratutto pertinace nella pugna. Avendo stabilito delle comunicazioni per mezzo di trincee fra il Vascello e le altre due case della linea avanzata e con la Porta San Pancrazio da cui riceveva rinforzi e provviste, egli tenne la posizione con la sua propria Legione sovvenuta a intervalli da distaccamenti di Bersaglieri e di Studenti, di Finanzieri e del Reggimento Unione. Giorno e notte i francesi tenevan viva la guerra contro gli avamposti, e una grandinata di piombo e di ferro imperversava senza posa sul corpo del Masina steso là sul terreno neutrale. Dall'altezza delle Ville Valentini e Corsini, le scariche dei nemici fioccavano nel giardino e sulle finestre del Vascello ; le loro trincee piene di tiratori si avvicinavano sempre più ; facevano attacchi notturni alla punta della baionetta, e con una batteria trincerata avanti alle rovine della Corsini frantumavano i muri del Vascello, a una distanza di circa 260 metri. Nei primi giorni dell'assedio la batteria della casa Merluzzo aveva potuto scagliare le sue palle sugli assalitori del Medici ; questi però non poteva stanziar dei cannoni nella sua linea. Eppure in queste condizioni la casa Giacornetti resistette per tre settimane e il 30 giugno il Vascello (o piuttosto i residui del suo pianterreno) teneva ancor fermo, se non che i suoi eroici difensori dovettero abbandonarne le rovine perchè le mura di Roma alle loro spalle, erano state prese. La resistenza inaspettata di questi avamposti ritardò di molti giorni la caduta di Roma perché impedì al Vaillant di spinger avanti le sue trincee verso la porta San Pancrazio e d' impossessarsi così della casa Merluzzo e dei due bastioni settentrionali ai lati della Porta, con un attacco diretto. Ma l'occupazione della villa Corsini gli dette modo di indebolire a poco a poco il fianco del Gianicolo con l'aprire trincee contro il Bastione Centrale e il Bastione della casa Barberini.
La prima linea degli approcci francesi, stendendosi così dal Convento San Pancrazio al Monte Verde, aveva l'estrema destra esposta al fuoco di fianco di una batteria romana, piuttosto remota e inefficace, situata sulla piccola elevazione del Monte Testaccio dall'altra parte del Tevere. Nel 1849, questo curioso monticello, nient'altro che il mucchio della spazzatura su cui ai tempi di Cesare la Capitale del mondo gettava tutti i suoi cocci, sorgeva circondato da qualche catapecchia nel bel mezzo di un deserto, uno dei molti tratti romantici e desolati allora compresi nelle mura di Roma, ch'era pur sempre ventisette anni dopo la morte dello Shelley —

... at once the paradise.
The grave, the city, and the wilderness.
... a un tempo paradiso.
Tomba, città, e deserto.

Contro i cannoni italiani del Monte Testaccio, i francesi eressero una batteria sul Monte Verde, e le loro palle volando al di là del Monte, andarono spesso a cadere e scoppiare inosservate presso un cantuccio sacro e solitario, il camposanto degli eretici, il cui tacito sodalizio dormiva sotto i cipressi piantati dal Trelawney all'ombra delle mura e della piramide, sordo al lontano rimbombo della battaglia per la Libertà. Ne lo scoppio vicino delle bombe stesse dei tiranni aveva il potere di risvegliare colui che primo fra tutti gli uomini di tutti i tempi, sarebbe accorso sul Gianicolo a cacciarsi esultante fra i difensori repubblicani in mezzo al fischiar delle palle, e a parlare con Garibaldi e Ugo Bassi come ad amici lungamente sognati e cercati invano. Garibaldi si era scelto a quartier generale la Villa Savorelli torreggiante sopra la Porta San Pancrazio, perchè sebbene esposta al fuoco nemico, dominava il colpo d' occhio delle posizioni italiane e francesi meglio che ogni altra dentro le mura.
« Noi ufficiali » , scrisse Y Hoffstetter, uno degli amici intimi provati in battaglia che ora formavano lo Stato Maggiore : « noi ufficiali dormivamo nel gran salone della Villa, il Generale ed il Manara (fatto capo dello Stato Maggiore il 4 giugno) occupavano due stanzette attigue. La notte portava ben poco riposo a causa dell'incessante andare e venire dei messaggieri ». Allo spuntar del giorno, gli ufficiali, ritempratisi con « del buon caffè nero e sigari in quantità », due cose sempre in pronto per loro alle tre della mattina : « si adunavano intorno al Generale, ch'era sempre il primo a entrare nel Padiglione, dove lo aspettava il saluto dei tiratori francesi e dove rimaneva tutta la giornata oggetto della loro particolare attenzione. Gettata un' occhiata al nemico, Garibaldi accendeva il sigaro che non spegneva fino a sera, ascoltava i rapporti, impartiva ordini e non si ritirava che a notte tarda per qualche ora di riposo.
Sotto il bombardamento dei francesi, la Savorelli cominciò a sgretolarsi, ma dovette esser crivellata di palle da cima a fondo prima che lo Stato Maggiore si decidesse a sgombrarla il 21 giugno.
Una volta cominciato il fuoco delle batterie da breccia (il 13 giugno), Garibaldi non spese più V intera giornata nel Padiglione, ma passò costantemente la ronda, visitando i posti colpiti dal fuoco più vivo, riattizzando l'entusiasmo ora con una parola di simpatia personale, ora restando immobile come statua fra i compagni prostati ai suoi piedi quando una bomba scoppiava in mezzo al suo gruppo (").

… Nei primi diciassette giorni dell'assedio dal 4 al 21 giugno, mentre il zig-zag delle trincee francesi si stringeva più dappresso a ogni ora, e le batterie erette al riparo di quelle andavan sbriciolando poco alla volta le breccie del Bastione Centrale e del Barberini, gli assediati fecero parecchie sortite, di cui nessuna molto efficace e alcune anche a loro disdoro. Fu specialmente nelle sorprese notturne quasi mai condotte a compimento dai romani e talvolta eseguite a perfezione dai francesi, che si fece sentire la defìcenza di disciplina regolare fra i volontari. Una volta gli stessi Legionari furono assaliti da terror panico, e Garibaldi la mattina dopo disse loro che non eran degni d' esser suoi compagni d' arme, un rimprovero che se meritato, ebbe però il suo effetto. E vero che in altre occasioni non mancarono prove di altissimo valore, come quando un distaccamento del Reggimento Unione, esaurite le munizioni, continuò il combattimento a sassate. Anche i polacchi, contraddistinti dai lunghi baffi e dal rosso berretto nazionale a quattro pizzi, che, figli senza tetto di una madre svenata, offrivano generosi il loro sangue a servizio di ogni nazione in guerra con la tirannia sia nelle pianure ungheresi che sulle mura di Roma, erano fra i primi a sfidare la morte. Ma nessuna di queste sortite poteva ostacolare seriamente lo svolgersi dei piani d' assedio lenti ma ben studiati, del Vaiìlant.
La notte dal 20 al 21 giugno, quando si aspettava un assalto sui bastioni dove un furioso bombardamento aveva quasi ultimate le breccie per una scalata, i francesi attaccarono invece la casa Giacometti fuori le mura. Quel piccolo avamposto, chiuso in una fitta rete di trincee nemiche e crivellato di palle, era pur sempre imprendibile. La sentinella che sola vegliava nella casa, sentendo il fruscio e il calpestìo del drappello assalitore fra le viti pochi metri lontane, silenziosamente svegliò i suoi compagni, trentacinque uomini del Reggimento Unione, che fecero una scarica improvvisa sugli assalitori e li respinsero dopo una zuffa violenta alla baionetta. All'alba il Medici poteva ancora mandare un rapporto dal Vascello, dicendo che perfino gli avamposti della sua posizione avanzata, erano ancora intatti.
Il giorno dopo (il 21) Garibaldi celebrava la piccola vittoria in una lettera alla sua Anita ( ), che dopo esser rimasta con lui a Rieti dalla fine di febbraio al 13 aprile, era ritornata a Nizza sotto il tetto materno di lui.

« Mia cara Anita (scriveva egli dalla Villa Savorelli), Io so che sei stata e sei forse ancora ammalata; voglio veder dunque la tua firma e quella di mia madre per tranquillizzarmi.
» I Galli-frati del cardinale Oudinot, si contentano di darci delle cannonate e noi, quasi per perenne consuetudine, non ne facciamo caso. Qui i ragazzi e le donne corrono dietro alle palle e alle bombe gareggiandone il possesso.
« Noi combattiamo sul Gianicolo e questo popolo è degno della passata grandezza. Qui si vive, si muore, si sopportano le amputazioni al grido di Viva la Repubblica. Un' ora della nostra Vita in Roma, Vale un secolo di vita.
» Questa notte, 30 dei nostri, sorpresi in una casetta fuori le mura (casa Giacometti), da 150 Galli-frati, se l'hanno fatta a baionettate, hanno ammazzato il capitano, 3 soldati ; 4 prigionieri del nemico ed un mucchio di feriti. Noi un sergente morto e un milite ferito. I nostri appartenevano al Reggimento Unione. Procura di sanare, baciami mamma, i bimbi. Menotti mi ha benifìcato di una seconda lettera, gliene sono grato. Amami molto ».

La lettera partì, ma non raggiunse mai Anita che aveva già lasciato Nizza per Roma. Quando la notizia del 3 giugno e del destino che spettava a Roma, le avevano suscitato in cuore r apprensione che si avvicinava a gran passi una crisi disperata nella vita di suo marito, ella aveva presa nel tribunale della sua coscienza una gran decisione che doveva effettuare con la fermezza e l'inflessibilità di volere che le eran proprie, anche contro le più calde rimostranze di Garibaldi. Tre volte madre e sul punto di esserlo una quarta, era partita per il teatro della guerra, determinata a dividere gli estremi pericoli della fedeltà a una Repubblica morente, con l'uomo che ai suoi occhi era diverso dai mariti di tutte le altre, e più prezioso di un figliuolo. Ella non ha lasciato alla posterità ne il ricordo dei suoi motivi, ne la giustificazione della sua scelta, ma il suo proposito tacito, fermo e incrollabile, di rimanergli al fianco fino alla fine — qualunque questa fosse — parla per lei, più eloquente d' ogni parola.
Mentre Garibaldi scriveva quest' ultima lettera alla sua Anita, il 21 giugno, la villa Savorelh gli si sfasciava a pezzi sotto i piedi. Ma il fuoco più vivo era contro i Bastioni Centrali e Barberini, dove le cannonate e le fucilate delle trincee francesi, ora soltanto a pochi metri dalle mura, si mantennero furiose fino al calar della sera e cessarono soltanto quando le breccie sgretolandosi, offrirono una facile ascesa agli assalitori. Allora gli italiani si prepararono contro un assalto notturno ; colmarono gli spaldi in sfacelo con cataste di canne per appiccarvi fuoco al primo allarme e formare un muro di fiamme. l'Hoffstetter che era venuto in persona dal quartier generale a appostar la guarnigione sui bastioni e sulle case lungo le mura, non ritornò che dopo aver impartito ordini strettissimi alle sentinelle, sicuro che in ogni caso le posizioni non avrebbero potuto cadere per sorpresa, prima che le riserve raccolte intorno alla Savorelli avessero tempo di accorrere. Ma il Reggimento Unione messo a guardia delle brecce, era molto stanco per le fatiche sostenute nelle due settimane precedenti con ripetute prove di valentìa non comune. Quando si riscossero dal sonno sul Bastione Centrale trovarono una colonna francese nel loro mezzo, al di qua dei mucchi di canne, e dopo una sola scarica fuggirono interroriti. SuU' altra breccia si oppose resistenza dalla casa Barberini e due ufficiali francesi caddero mortalmente feriti ai piedi delle mura, ma in pochi minuti le porte furono sfondate e la casa occupata. I due bastioni erano in mano del nemico.
Tanta era la confusione e il panico delle linee italiane che fra i testimoni fuvvi chi temette che se i francesi avessero incalzato in massa avrebbero potuto impossessarsi della Savorelli e di San Pietro in Montorio prima dell'alba, e metter così fine all'assedio. Garibaldi vide il pericolo e, più savio di molti critici, rifiutò di guidare le truppe scoraggite a riconquistare le posizioni perdute, — impresa che sarebbe indubbiamente fallita e avrebbe probabilmente portata anche la perdita della linea interna. Invece di tentar l'impossibile, egli si dette a fortificare e munire la seconda linea di difesa lungo le mura Aureliane, e con tanta energia che ai primi albori la nuova posizione era saldamente occupata e la paura che il Gianicolo cadesse per un colpo di mano, scongiurata.
Con pari cautela, i francesi, non lasciandosi tentare dalla fuga del Reggimento Unione a fare un passo oltre i bastioni, avevano impiegato il rimanente della notte nell'alzar trincee al di qua di essi, e nel montare le batterie sulle breccie per poter esser pronti a bombardare al più presto la nuova posizione di Garibaldi.
Allo spuntar del giorno, Roma apprese con gran costernazione che il nemico si era piantato sulle sue mura, « passo fatalissimo » come dice Arthur Clough in una lettera a casa.
Il Mazzini e il Roselli, che ben poco sapevano dello stato di cose sul Gianicolo, sollecitavano Garibaldi a ricuperare i bastioni a ogni costo. II Mazzini, per cui era un articolo di fede che un popolo possa sempre riconquistar le mura della sua propria città, assembrò i romani a questo fine, con grande indignazione di Garibaldi che non voleva lasciarli salire a crear confusione fra le sue linee ora circoscritte.
Il Roselli nella sua qualità di Generale in Capo, e l'abile Ministro della Guerra Avezzana, arrivarono sul Gianicolo nelle prime ore del mattino per costringere all'attacco il recalcitrante Capo della Divisione : ma non subito esaminate le cose sul posto, l'Avezzana fu persuaso dell'impossibilità di abbracciare quel partito. infatti gli ufficiali stessi dei reggimenti impegnati, il Manara sopra tutti, avevan supplicato Garibaldi di non mandare i loro soldati a un attacco ancor più disperato che quello del 3 giugno, perchè lo slancio che li aveva ispirati quel giorno aveva ceduto il posto all'esaurimento del corpo e alla cieca disperazione dello spirito ; e tutto ciò che i più bravi domandavano con la caratteristica passività di coraggio degli ultimi giorni d'un assedio, era il permesso di morire nelle posizioni ancora in possesso.

…. La seconda parte dell'assedio di Roma — i nove giorni di difesa delle mura Aureliane (22-30 giugno) — meravigliò i francesi e gli stessi italiani, che potevan a malapena credere ai propri occhi ogni mattina, vedendo che il nemico non si era ancora impadronito delle loro posizioni intenibili. Nella prima parte dell'assedio, i difensori si erano spesso comportati con coraggio a tutta prova ma avevan anche sperimentato momenti di panico, e ora che un risultato felice della difesa era fuor di questione, si sarebbe potuto aspettarsi che come altri eserciti in casi simili, rifiutassero di continuare la lotta che, prolungata, sembrava anche ad alcuni dei più valorosi ufficiali, un delittuoso sperpero di vite. Tale infatti era indubbiamente dal punto di vista militare.
Ma il carattere italiano ha in se qualcosa che oltrepassa i limiti del ragionevole ; quando tutto era perduto, l'idea di perire per quella Repubblica assassinata, parve rinvigorire il morale e sferzare i nervi di quegli uomini esausti ; la loro condotta divenne più uniformemente eroica che non fosse stata per due settimane, finche era stato ancor plausibile lusingarsi con l'ombra di una speranza.

….. La scena dell'ultima lotta era degna degli attori e della loro causa. Lassù dove s' ergeva in rovina la Savorelli, Servio Tullio aveva eretto l'Arx Janìculensis che, e i Garibaldini lo ricordavano con compiacenza, aveva servito come forte esterno alla Repubblica Romana quando il Laerte Porsenna aveva tentato di rinstallarvi il Papa-Re dei suoi tempi. Da lassù fino al basso Trastevere, scendevano le mura costruite dall'Imperatore Aureliano per tener lontano i barbari transalpini quando il dominio di Roma sul mondo cominciava a indebolirsi, e dietro ai loro avanzi era allineata la fanteria di Garibaldi. I cannoni erano stanziati alle loro spalle, pronti a far fuoco al disopra delle loro teste, dalla piattaforma di San Pietro in Montorio e dal contiguo colle del Pino — così detto a causa di un grande albero all'ombra del quale gli artiglieri italiani combatterono. Fra le batterie sull'alto e la fanteria in basso lungo le mura, stava il nuovo quartiere generale di Garibaldi, la Villa Spada, una casa modesta, allora come oggi isolata nel mezzo del suo giardinetto. Il bastione Merluzzo sulle mura di Urbano VIII, era occupato come avamposto, e fra esso e la porta San Pancrazio era allineata una batteria.
Questa nuova posizione era bombardata di fronte e di fianco ; r artiglieria francese stazionata sulle breccie conquistate, sparava sul tratto aperto e avvallato che divide la Villa Barberini dalla Spada, mentre le batterie presso la Corsini e il Convento San Pancrazio sfondavano la linea italiana dell'ovest. Di più, il nemico innalzò delle trincee e piantò una batteria da breccia proprio sotto l'angolo sud del Bastione Merluzzo ; operazione divenuta possibile quando la valorosa guarnigione della casa Giacometti si ritrasse finalmente nel Vascello, la notte dal 23 al 24 giugno.
Per otto giorni il fuoco dei cannoni e dei moschetti infuriò senza posa. l'accuratezza dell'artiglieria italiana sorprese i francesi e ne ritardò l'attacco ; anzi il primo giorno i cannoni degli assediati ebbero la meglio in quel duello, e un manipolo della Legione Medici che trovavasi dentro le mura potè, coperto dal loro fuoco, fare irruzione nella villa Barberini non ritraendosene che dopo un conflitto ostinato e con quindici feriti di baionetta. Ma ben presto il fuoco francese cominciò a prevalere e dentro e fuori le mura. Le bombe bucherellarono i muri della villa Spada esplodendo nelle stanze nel bel mezzo dello Stato Maggiore ; il tetto della chiesa di San Pietro in Montorio fu sfondato ; quasi tutti i cannonieri sul Colle Pino e alla Porta San Pancrazio uccisi o feriti, e soppiantati di mano in mano dalla fanteria e dagli artisti e da altri volontari accorsi dalla città. I Legionari di Garibaldi e i Bersaglieri del Manara indefessi nel loro zelo, consentirono a star di sentinella per settantadue ore di seguito e , estremamente incuranti della morte , lavorarono all'aperto a riattare i fragili ripari che il fuoco frantumava.
I feriti, non appena ricuperato tanto di forza da trascinarsi sulla fronte, si affrettavano a riprendere il loro posto.
Un giorno, il 25 giugno, il francese Laviron, repubblicano e artista, addetto allo Stato Maggiore di Garibaldi e amato da tutti i suoi compagni d' arme, indossò per la prima volta la camicia rossa, avendo notato, come disse agli amici, che chi la portava godeva in maniera particolare del favore popolare. Ma si era appena mostrato sulla fronte che trapassato da una palla cadde nelle braccia di Ugo Bassi, lo baciò e morì. La morte per mano dei suoi compatriotti in carne e ossa non aveva orrore per chi come lui era in ispirito cittadino della Repubblica ideale sognata dagli uomini del '48.
La mattina dopo Anita Garibaldi appariva improvvisamente sulla soglia della casa Spada già crivellata di palle, e suo marito le si gettava fra le braccia con un grido di sorpresa e di gioia.
Aveva trovato la via da Nizza alla città assediata, ancor prima ch'egli sapesse della sua intenzione di intraprendere un viaggio ch'egli non avrebbe approvato.
Al di là delle mura la tempesta si scatenava ancor più furiosa sul Vascello, mira alla mezza dozzina di pezzi del poggio Corsini, che vi scaricavano sopra giorno e notte « non meno di quattrocento proiettili da 36 », oltre « grande quantità di bombe e granate ».
Si doveva alla protratta resistenza del Vascello se Roma non era caduta da un pezzo. Come scrisse il Moltke allora, r inaspettato successo della difesa di quella Villa « strana di forma, ma solidissima », aveva forzato i francesi a fare un attacco laterale invece di uno diretto sui bastioni alla Porta San Pancrazio. Alla fine la maggior parte del vasto edificio cadde con uno scroscio formidabile in una nuvola caliginosa, come vulcano in eruzione. Una ventina dei suoi difensori rimasero sepolti nelle rovine, gli altri, protetti da porzioni del pianterreno ancora in piedi, corsero fuori coperti da uno strato di polvere e si appiattarono prontamente fra le macerie per resistere all'attacco. « Mi piacerebbe avere una dagherrotipia di queste ruine », disse il Medici all'Hoffstetter. La notte, i francesi li investirono da ogni parte con la baionetta in canna ; per tre ore nel cuor della notte, la battaglia infierì su quel mucchio di rottami, solo residuo della magnifica Villa d' una volta. All'alba il Medici ne era ancora in possesso. Roma poteva esser presa, ma non il Vascello! Finita la guerra, le macerie furono asportate, ma per fortuna i muri del pianterreno non furon toccati e ora che Roma è libera, rimarranno intatti per sempre fino a che gli italiani si glorino della loro storia. Dal muro che forato di palle fiancheggia la strada, pendono alcune ghirlande di lauro bianche di polvere, e sulla lapide a cui esse sono appese, il viandante può leggere in parole che ivi non sono vana boria, come « non conti i nemici chi combatte per la libertà e per la patria ». Intanto dentro le mura, i difensori del Gianicolo erano sottoposti giorno per giorno agli effetti dell'ultimo terribile cannoneggiamento, ne le altre parti della città ne erano del tutto esenti. Non soltanto i Trasteverini abbandonavano in folla le loro case crollanti ; anche il Campidoglio, e altri punti nel centro stesso di Roma, erano danneggiati. L'artiglieria francese da campo che era sulla riva sinistra, bombardava la città tanto per creare una diversione dall'attacco principale ; ogni qualvolta vi era r intenzione di fare un assalto importante sulle mura del Gianicolo, si operavano diversioni da San Paolo al sud e dai monti Parioli al nord ; Roma veniva bombardata da questi due quartieri e le bombe piovevano nella Piazza di Spagna e nelle sue vicinanze con danno considerevole. Fin dal 25 giugno, l'Oudinot aveva ricevuto una protesta contro la distruzione delle proprietà private e delle opere d' arte come contro la morte dei pacifici cittadini, firmata dai Consoli degli Stati Uniti, della Prussia, Danimarca, Svizzera e Sardegna, a istigazione del Console inglese Freeborn, il cui nome stava in capo alla lista e la cui amicizia per l'Italia era tanto calda da non fare concessioni alle esigenze militari dei nemici di lei.
Mentre la città bassa soffriva più o meno duramente, le posizioni sul Gianicolo andavano in sfacelo sotto una grandine di proiettili. Era evidente che malgrado l'eroismo dei difensori, i francesi avrebbero potuto in pochi giorni al più, sorprendere la linea delle mura Aureliane, In presenza di questa situazione il dissidio fra Garibaldi e Mazzini scoppiò di bel nuovo. Fin dal 14 giugno Garibaldi aveva domandato al Mazzini il permesso di uscire alla campagna per « dare la sveglia alle provincie d' Italia » , lasciando il resto dell'esercito a sostenere la difesa del Gianicolo. Il 25 e il 26 aveva scritto a più riprese, insistendo sulla proposta sortita come diversione che sola avrebbe potuto salvar Roma, e proponendo che il comando del Gianicolo fosse affidato al Manara mentr'egli stesso sarebbe andato con la sua propria Legione e 200 uomini di cavalleria a tagliare le comunicazioni fra l'esercito assediante e Civitavecchia.

…. La sera del 27 giugno Garibaldi vedendo un' altra volta respinto il suo consiglio, non volle più saperne del comando, e in uno scoppio di collera affine all'ira primitiva e fanciullesca d'Achille, si portò via i Mirmidoni della sua Legione, dal Gianicolo nella città bassa. Gli ufficiali dei reggimenti rimasti, inorridirono al trovarsi abbandonati ; e quando il Roselli venne in persona a prendere il comando di Garibaldi sulla riva destra, e rifiutò financo di visitare le linee, rimanendo invece nella Villa Spada a ruminare sulle carte, la loro ansietà crebbe a mille doppi, avanti alla sua evidente incompetenza. Il Manara corse giù a cercar Garibaldi, gli fece delle rimostranze sulla sua condotta e gli espose le fatali conseguenze che ne sarebbero risultate.
Garibaldi lo ascoltò, rientrò in se stesso, e ritornò al suo posto fra gli evviva della popolazione e la gioia più intensa dei difensori del Gianicolo. Senza l'opportuno intervento del Manara — l'ultimo ma non il minimo servizio reso da lui all'Italia — l'assedio di Roma sarebbe finito nella discordia e nell'onta, e Garibaldi avrebbe portato per tutta la vita lo stigma di un' azione ingenerosa che la collera sola aveva suggerita, ma che molti dei suoi compattrioti sarebber stati più che pronti a qualificare di tradimento.
Quando il 28 giugno allo spuntar del giorno ritornarono sul Gianicolo per partecipare all'ultimo eccidio, i Legionari garibaldini ricevettero un' accoglienza ancor più entusiastica perchè era la prima volta che tutte le loro file apparivano nella camicia rossa fin' allora distintivo del solo Stato Maggiore. Infatti molti, ignorando la crisi scongiurata, supposero che la Legione fosse scesa in città al solo scopo di cambiare la vecchia uniforme nella nuova.
Indossando la camicia rossa negli ultimi giorni dell'assedio di Roma, e portandola fedelmente tutto il mese seguente, quei bravi avevano scelto deliberatamente un costume che esponeva chiunque lo portasse, a essere cacciato come un lupo o preso a schioppettate a prima vista, da un capo all'altro della Penisola.
In meno di venti anni i tempi dovevano cambiar di tanto, e quel costume d'eroi diventar tanto famoso, che talvolta i poltroni lo adottarono a camuffar per vero il loro patriottismo interessato e rimbombante che non sapeva sostenere l'urto della battaglia. Ma se è vero che con l'invecchiar del fondatore e con il declinar delle sue forze, anche il sodalizio della camicia rossa declinò, è altrettanto vero però che prima che quegli morisse, questo sodalizio aveva condotto a compimento l'opera sua e l'Italia era libera.

GEORGE MACAULAY TREVELYAN
GARIBALDI E LA DIFESA DELLA REPUBBLICA ROMANA
TRADUZIONE DI EMMA BICE DOBELLI
BOLOGNA - NICOLA ZANICHELLI - MCMIX