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17 - La Repubblica Romana del 1849

3 giugno 1849: La battaglia di Porta San Pancrazio parte 1

L'attacco dei francesi alla conquista di Villa Pamphili

L'attacco dei francesi alla conquista di Villa Pamphili

In sullo scorcio del mese di maggio, il ministero dell'EIiseo, conosciuto l'umore a sé favorevole dell'assemblea legislativa, ingrossato l'esercito di spedizione di nuove truppe, pose termine all'inganno, richiamando Lesseps, e dando ordine al generale ih capo d'entrare in Roma di viva forza e ad ogni costo. Invano il Triumvirato protestò per l'osservanza i de' patti fermati col ministro plenipotenziario, per quell'articolo almeno ove era determinato il tempo necessario pel riconoscimento o il rigettamento della convenzione per parte del governo francese. Invano Roselli chiedeva al comandante della spedizione il prolungamento di altri quindici giorni d'armistizio onde le «schiere romane potessero soccorrere le provincie già invase dalle armi austriache. Non assentiva il duce francese, e rispondeva avere ordini positivi di entrare in Roma al più presto possibile, e solo per dar agio e comodità a' suoi connazionali che volessero lasciar Roma, differiva l'assalto della piazza sino al giorno 4. I Romani ebbero troppa fede a queste parole, e vivevano disgraziatamente troppo spensierati e sicuri; ed anziché fortificarsi con ridotti ed altri munimenti di guerra nelle ville Pamfili, Corsini e Valentini che, situate sopra un piano elevato, erano in prossimità dell'armata nemica, le lasciarono quasi deserte, e quattrocento uomini appena guardavano la più dominante che é villa Pamfili. Senza aspettare il lunedì, come aveva scritto al generale romano, Oudinot alle due del mattino del 3 giugno (domenica), attaccò all'impensata de' nostri con quasi tutte le sue forze e con molto impeto le posizioni esterne di sopra descritte. Prima ad essere occupata fu villa Pamfili, la quale venne investita, come investite erano state d'improvviso pochi giorni prima, e prese, approfittando della tregua, quelle di monte Mario. Se queste non sono slealtà, se queste non sono arti che coprono di fango un uomo, noi non abbiamo più alcun criterio per giudicare del rotto e dell'onesto su questa terra.
Non si tosto giunse al Triumvirato la notizia dell'altacco, ne dava contezza al popolo e lo chiamava all'armi con queste parole:
"Alla colpa di assalire con truppe guidate da una bandiera repubblicana., una Repubblica amica, il generale Oudinot aggiunse l'infamia del tradimento. Egli viola la promessa scritta, che é in nostre mani, di non assalire prima di lunedì. — Su, Romani! alle mura, alle porte, alle barricate! Proviamo al nemico che neppure col tradimento si vince Roma. — La città eterna si levi tutta coll'energia di un pensiero! Ogni uomo combatta! Ogni uomo abbia fede nella vittoria! Ogni uomo ricordi i nostri padri e sia grande! Trionfi il diritto, e vergogna perenne all'alleato dell'Austria!"
Alle quali voci la popolazione si levò indignatissima; e, corsa in armi, dappertutto secondò l'impeto dei soldati della libertà.
Garibaldi conduceva tosto la Legione italiana contro la villa Corsini e la casa che un poco al dissotto vi si innalza, detta dei Quattro Venti, da cui si erano dovuti ritirare i Romani al momento della sorpresa. L'attacco si fece alla baionetta, senza un solo tiro di fucile, tanto concitati erano gli animi e bramosi di vincere o di morire. La Legione sostenne per tre quarti d'ora tutto il peso delle forze nemiche, perdendovi la maggior parte dei suoi ufficiali. La lotta era in ragione di uno contro cinque, ma non perciò si sbigottirono quegli animosi Italiani. Tutto quello che il furore poteva dare di forze, tutto quello che l'entusiasmo di una santa causa poteva dare di energia, era da quei prodi mostrato. Francesi e Italiani cadevano numerosi in quel conflitto serrato, micidiale, implacabile, e l'aria non risuonava più che di colpi e di gemiti di moribondi. Le file francesi stremate in quella fiera battaglia, venivano tosto riempite; nelle romane il valore suppliva al numero. Pochi Italiani restavano ormai per resistere alle forze ognora crescenti dei Francesi, quando sopraggiunsero i Bersaglieri Manara a rinfrescare le sorti della battaglia. Questi, avventatisi con impeto nel giardino, caricarono vivamente il nemico fin sotto le mura della villa. Sostenuti dal Vascello, massiccio fabbricato che occupava la Legione delli'invitto Medici, e che vomitava sui Francesi un fuoco terribile, essi interruppero la marcia progressiva del nemico, e impegnarono per quattro ore la più accanita lotta. Le artiglierie scompaginavano coi loro spessi e ben aggiustati colpi i Francesi, che più volte accennarono ritirarsi dalla villa Corsini, già coperta di cadaveri delle due genti. Il palazzo di quella villa e la casa dei Quattro Venti erano quasi ridotti in cenere dalle cannonate. La battaglia spietata durò dall'alba alla sera. I Francesi non rimasero possessori delle posizioni, proditoriamente occupate, che dopo aver versato un fiume di sangue, riconquistato a palmo a palmo il terreno. Quattro volte furono prese e riprese le ville Corsini e Valentini, e sempre caricando alla baionetta, o ad altre armi bianche, sotto la pioggia tremenda dei proiettili che le artiglierie dei due eserciti scagliavano.
Dove il conflitto infierì di più da ultimo e chiuse la giornata, fu in quelle posizioni stesse della villa Pamfili che i Francesi avevano per le prime occupate.
Se negli altri luoghi fu guerra accanita, là fu veramente guerra da giganti, e tutti i rinforzi di cui poteva disporre il generale Oudinot gli furono necessari per mantenere quelle posizioni contro cui per tre volte i Romani si avventarono. Le scariche di fucile si facevano colà alla distanza di quattro passi; tutti, Francesi e Italiani, risparmiavano ivi i colpi e non volevano avventurarne un solo in fallo. Le file degli uni e degli altri cadevano intere, e altre file sopravvenivano per dar morte o per riceverla. Era come un duello a tutto sangue fra due eserciti, era un modo di guerra quale non s'era veduto mai più. Quasi tutti gli uffiziali romani e francesi furono in quel luogo uccisi o feriti, e senza il sopraggiungere delle tenebre, può dirsi che i due eserciti si sarebbero in quelle posizioni completamente distrutti entrambi, tanta era la rabbia che infiammava allora tutti i cuori. Purché morisse il nemico, ognuno faceva volentieri getto della propria vita; vedendo tanto furore, non v'era più alcuno che credesse che giunto per tutti non fosse l'estremo fato. Le tenebre sole posero fine a quell'orrendo macello; le artiglierie, che avevano tuonato per tutto il giorno, mandarono i loro ultimi colpi; le scariche dei moschetti finirono, e più non si udì allora che il rantalo dei moribondi e il suono lontano dei tamburi che battevano a raccolta.
Tutta Roma fu palpitante di aspettazione, e ad ogni ora ricevette i bullettini che l'ammonirono delle varie vicissitudini di quella terribile giornata.
E mentre l'aria fu assordata dal rimbombo delle artiglierie, venne allietata dai concerti delle bande che suonavano la marsigliese. Le mura dell'eterna città furono piene di popolo, che guardava i progressi della battaglia, facendo voti al cielo pel trionfo della più santa delle cause.
Dire i fatti parziali di valore che si compierono in quella memorabile giornata sarebbe materia di un intero volume; toccheremo dei principali, a mostrare di quali uomini si componessero le file dei soldati italiani.
Il giovine colonnello Angelo Masina, da Bologna, ferito in un primo scontro, correva a farsi medicare, scongiurando i suoi compagni di aspettarlo prima di andare all'assalto della forte posizione Corsini. Dopo breve ora riedeva al campo fasciato e indebolito dal sangue perduto, ma né per rimostranze, né per preghiere desisteva dal suo proposito di tornare alla carica. Guidando il suo piccolo drappello (una ventina forse di cavalieri), egli si slanciava a tutta corsa contro una posizione occupata da 300 Francesi e cadeva con una metà dei suoi trapassato da cento palle. Egli apriva gli occhi un momento e li chiudeva per sempre, sollevando il supremo grido di Viva l'Italia.
Il colonnello Daverio, capo dello stato maggiore del generale Garibaldi, il maggiore Ramorino non cadevano meno gloriosamente. La villa Corsini era da loro ripresa con un pugno di gente, né ritirarsene volevano, allorché i Francesi in numero dieci volte maggiore tornavano ad assaltarla. «Questo è il nostro posto, qui dobbiamo morire » dicevano essi a coloro che addimostravano come sarebbe stata saviezza l'evitare l'urto del momento per riunirsi ai Romani e tornare con forze competenti alla carica. Venti contro cento restavano, venti contro cento combattevano per alcuni minuti sicuri di soccombere; ma più lieti di ciò che di ritirarsi fosse per un istante davanti ai nemici. Daverio e Ramorino cadevano senza aver ceduto un pollice di terreno, spettacolo di ammirazione pei nemici medesimi, a cui quel valore ricordava i fasti di Cambronne.
Il capitano Enrico Dandolo, giovane di 22 anni, perì in uguale maniera. Capitanando i suoi fra una grandine di palle, che diradava ad ogni istante la sua compagnia, egli si era avventato dinanzi a tutti sullo spianato che circonda la villa Corsini. Là vedeva egli uscire dal palazzo una compagnia di Francesi con alla testa un ufficiale che gli gridava che erano amici. Dandolo fé' sospendere il fuoco, che alla vista del nemico era scoppiato vivissimo, e credé, leale e ingenuo com'era, a quelle mendaci dimostrazioni. Giunto a trenta passi, l'ufficiale francese si trasse a parte, e un'orribile scarica atterrò un terzo della compagnia italiana. L'eroico Dandolo vi ebbe il petto trapassato; il giovane Mancini, il tenente Silva, il sottotenente Colombo vi toccarono gravi ferite. I pochi superstiti si arretrarono pieni di sgomento a quella infamia, recando con sé il moribondo il loro capitano, che moveva le labbra in atto di pregare, e che nel penoso tragitto rendé l'anima a Quegli che glie l'aveva data.
Il capitano Luigi Scarani non disdisse morendo quella fama di invitto valore che goduta aveva sempre in vita. Ordinatogli dal generale Garibaldi di andare a riprendere con trenta uomini la villa Valentini, che due compagnie di Francesi occupavano, non si arretrò davanti a quel comando, volonteroso si accinse a eseguirlo per quanto disperata fosse quell'impresa. Giunto a pochi passi dalla villa, ebbe la mano sinistra trapassata da un colpo di carabina, e una scarica di tutta una compagnia di Francesi abbatté una metà dei suoi uomini. Né la ferita, né le stremate forze che seco guidava valsero a sgomentarlo. Alzando la mano sanguinosa per l'aria, gridò ai suoi con coraggio: «Innanzi; vendichiamo questo sangue! » Le parole gli furono tronche da tre colpi di moschetto che lo stesero cadavere.
L'aiutante maggiore Peralta, il capitano David, il colonnello Pollini con eguale valore soccomberono; i tenenti Bonnet, Lorete e Gazzaniga subirono eroicamente un fato che la sproporzione delle forze contro cui combattevano rendeva inevitabile. Non mai più grande eroismo aveva rifulso in un'armata italiana; e l'ultima parola dei mille che in quel giorno morirono fu sempre Viva l'Italia!
La ferita mortale che toccò in quel giorno il capitano Goffredo Mameli, la morte del colonnello Pietro Mellara accrebbero quel martirologio glorioso. Adolescente quasi il primo, figlio dell'ammiraglio genovese, amato e stimato da tutta Italia pel canto ispirato con cui aveva compianto le sventure della regina dell'Adria, giovinetto di intemerata fede repubblicana, si avventò come un leone, al fianco di Garibaldi, contro i Francesi, né dal conflitto si distolse finché poté reggere la spada. Ferito gravemente, esortò caduto i suoi a vendicarlo, e le sue dolci sembianze, già coperte del pallore della morte, si composero ad un sorriso che non doveva più da esse dipartirsi. Date a Venezia un obolo, così il giovine poeta aveva nei suoi ultimi giorni cantato, e dopo la prece per Venezia, egli per l'Italia dava il sangue.
Il colonnello Mellara di Bologna , di li a breve pure moriva per la ferita tocca in quella giornata. La vita, che non fu che una lunga aspirazione verso la redenzione della patria, fu da lui cento volte arrischiata per attuare il suo santo desiderio, e raccolse una corona di sangue in quella guerra memorabile. Combattendo dove era maggiore il pericolo, spronando più che colla voce coll'esempio i suoi a seguitarlo, egli volle mostrare negli estremi suoi giorni come dalle premesse di tutta la sua vita non discordassero i suoi ultimi proponimenti. Accompagnato di lì ad alcuni giorni il suo mesto feretro dai suoi compagni, che come fratello lo avevano sempre amato, un Francese ardì strappare dal suo petto l'onorata nappa che in morte aveva voluto portare; scellerato insulto che coperse di ludibrio chi vi si abbandonò, raddoppiando la venerazione verso quel nobile caduto.
Monfrini, sergente-furiere nei Bersaglieri lombardi, giovanotto di 18 anni, aveva da un colpo di baionetta rotta la mano. Pochi minuti dopo ricompariva nelle file. « Che vieni a far qui? gli domandò Manara. Non servi a nulla, ferito come sei; vattene. — » Colonnello, rispose il giovine, mi lasci qui; alla peggio servirò a far numero.» In un attacco ci faceva numero diffatti fra i più avanzati, scriveva Emilio Dandolo, e colpito la seconda volta nella testa cadde e spirò. »
II tenente Bronzetti, saputo che una sua ordinanza, a cui portava singolare affezione, era caduta morta a villa Corsini, prese con sé quattro uomini risoluti, si spinse di notte fin negli avamposti nemici, e ne levò il cadavere, cui dié pietosa sepoltura.
Il tenente A. Mangiagalli, scagliatosi con pochi soldati in villa Valentini, e rinforzato poi dal capitano Ferrari, ebbe a sostenere la più tremenda resistenza e a combattere per le camere e sulle scale. Ebbe rotta la spada nel calare un fendente, e dovette difendersi colla mezza lama rimasta, finché, uccise molti nemici, e fatti numerosi prigionieri, rimase la villa de' nostri.
Il soldato Dalla Longa, milanese, vedutosi cadere allato il caporale Fiorani, ferito a morte, non volendo lasciar il moribondo amico senza soccorso, se lo prese in ispalla, e mentre pietosamente lo recava all'ambulanza, colpito, cadde morto vicino al compagno.
Un soldato della Legione italiana, di cui la storia non poté sapere il nome, mentre si combatteva il nemico in una casipola, si appressò al capitano Augusto Vecchi dicendogli: « Capitano, e se io mi cacciassi colà dentro che parvi? » — Faresti opera da forsennato, gli rispose il Vecchi. — «Nessuno potrà impedirmi di morire a mio modo!'» E varcò la soglia, e si udirono grida e voci confuse; quando due colpi di cannone facevano crollare un pezzo di muro e parte del tetto. «I Francesi uscirono e furono male accolti, scrive il Vecchi; il mio soldato più noi rividi. Morì di ferro o schiacciato sotto i rottami? Al certo lieto nell'aver calmato la febbre del suo desiderio.
Cadaveri di Italiani e di Francesi stavano ammonticchiati ad ogni piè sospinto. Francesi e Italiani agonizzanti, posavano gli uni accanto agli altri, si stendevano la mano in atto di riconciliazione in quei supremi istanti. Si narra di due ufficiali francesi moribondi, che vedendo gli ultimi aneliti di due Bersaglieri lombardi, gridarono loro: « Perdonateci la vostra morte, ché noi pure morendo facciamo espiazione di questa guerra scellerata! » E mille pietosi fatti si raccontano d'uomini che illesi avevano voluto lasciarsi uccidere sui loro estinti compagni, d'altri che pietosamente trasportando i loro fratelli feriti lungi dal campo di battaglia, trovata avevano la morte nel tardo andare a cui li forzava l'assunto carico. Era uno spettacolo tremendo e compassionevole il vedere tanto amore, tanto eroismo troncati nel flore dell'esistenza in mille giovinetti, che le loro prime ed ultime prove avevano voluto fare in quella terribile battaglia.
I Francesi lasciavano sul campo, fra uccisi e feriti, un migliaio d'uomini; i Romani il fiore dei loro prodi. I contorni, che dominano la città, restavano in possesso dei Francesi che vi si afforzavano; ai Romani rimaneva il Vascello e alcune altre case.
II 3 giugno sarà ricordato come una delle più onorate pagine di Roma e dell'Italia; esso rese per sempre impossibile l'insulto che gli Italiani non si battono. La sera le strade di Roma, piene di barricate, furono illuminate a festa, come lo furono durante tutto l'assedio. Un inno di gloria echeggiava in ogni canto; ma a quegli inni si associavano pensieri di lagrime e di sangue. Le bare avevano portato in lunga processione per tutto il giorno i feriti e gli estinti che sul campo venivano raccolti, e un doloroso sentimento stringeva il cuore degli abitanti in vedere gli avanzi di tanti animosi poche ore prima pieni di vita e di entusiasmo.
Ad ogni nuova bara che era sopravvenuta era stato un affollarsi ansioso di donne e di vecchi che tremanti avevano chiesto il nome di quello che racchiudeva. Molte madri rividero così in quel giorno i loro figliuoli; molte figlie raccolsero così tutto quello che loro restava dell'autore dei loro giorni. Erano scene pietose, e a quegli incontri funesti le lagrime prorompevano da tutti gli occhi, e molte infelici famiglie dovettero essere strappale da quei feretri su cui giacevano i loro cari coperti del pallore della morte. Due fanciulle, vedendo il padre loro ucciso, svennero sul cataletto, e l'una di esse non si riebbe più che' demente; una madre, riconoscendo il cadavere del figliuolo suo, si slanciò sovra di esso, e abbracciandolo e inondandolo di un mare di pianto, disse che l'avrebbe in breve raggiunto; ella attenne la parola: e tre giorni dopo era morta di dolore.

Roma e i suoi martiri