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13 - La Repubblica Romana del 1849

19 maggio 1849 p1

19 maggio 1849: la battaglia di Velletri

La battaglia di Velletri

Spedizione contro l'Esercito Borbonico

Velletri.
L'esercito romano tra il 1º e il 16 di maggio s'era venuto via via ingrossando. Il battaglione Melara, prepotentemente catturato dall'Oudinot a Civitavecchia, veniva lasciato libero; i corpi distaccati nell'Ascolano erano rientrati; una Legione straniera si veniva organizzando; la Legione trentina ed una compagnia del 22º Reggimento, scappata dagli accantonamenti forzati della Spezia, erano riuscite a penetrare in Roma tra il 9 e il 10, e fuse insieme andavano a formare un altro battaglione di bersaglieri lombardi, che aggiunto al primo, sotto il comando del Manara promosso colonnello, prendeva corpo e nome di Reggimento. Finalmente venuta da Bologna, dopo 15 giorni di marcia, entrava dalla Porta del Popolo la Divisione Mezzacapo, forte di circa duemila uomini, preceduta da quella compagnia di studenti lombardi e toscani che formarono il nerbo dei futuri difensori del Vascello. Sommate queste forze nuove a quelle già esistenti al 30 aprile, si ha che Roma poteva disporre di circa diciottomila combattenti, non bastevoli certo a fare la guerra alla Santa Alleanza, accanitasi contro di lei, e neppure a vincere la Francia, ma, finché durava l'armistizio, più che sufficiente a cacciare dal territorio della Repubblica le truppe del Re di Napoli, e proteggere nel tempo stesso Roma da qualsiasi insidia. Restava la scelta del Generale in capo. Chi meglio di Garibaldi meritava tale carica? Nessun altro poteva contrastargliela. Il Triumvirato, per timore esagerato della sua indisciplinatezza, e forse anche per gelosia della sua popolarità sempre crescente, non volle nominarlo. Siccome però la sua superiorità era innegabile, il Triumvirato fece questa pensata; promosse Garibaldi Generale di Divisione, ed elesse Generale in Capo il colonnello Roselli entrato da poco a Roma, reduce dall'Ascolano, ove era stato a combattere il brigantaggio. Il Roselli generalissimo s'accinse senza ritardo, come voleva il governo, alla spedizione contro il Borbone. Pensò di attaccare i Napoletani, accampati fra Porto d'Anzio e Valmontone, sulla loro destra, spuntarli da questo lato e tagliar loro la ritirata: capitanava diecimila fanti, mille cavalli e dodici pezzi d'artiglieria. La prima brigata, sotto gli ordini del colonnello Marocchetti e la direzione del colonnello di Stato Maggiore Haug, composta della Legione Italiana, del terzo reggimento di linea, dello squadrone dei lancieri Masina, d'una compagnia di zappatori del genio e due pezzi d'artiglieria, in tutto duemila cinquecento uomini circa, formava l'avanguardia. Il corpo di battaglia componevasi di due brigate composte del reggimento dei Bersaglieri Lombardi, di un battaglione del primo fanteria, del secondo e quinto reggimento, della Legione romana, di due squadroni di dragoni e sei pezzi d'artiglieria; circa seimila uomini; e lo capitanava il generale Garibaldi in persona, colonnello Milbitz capo dello Stato Maggiore. La riserva e retroguardia era la brigata del generale Giuseppe Galletti, che marciava alla testa del sesto reggimento di fanteria, d'un battaglione di carabinieri a piedi, del battaglione zappatori del genio, di due squadroni di carabinieri a cavallo, e di quattro pezzi di artiglieria; in tutto duemila e cento uomini. Comandante l'artiglieria il colonnello Lodovico Calandrelli; quello della cavalleria il generale Bartolucci; capo dello Stato Maggiore generale il colonnello Pisacane. Generale in capo Pietro Roselli. Formato così il piano e l'ordine di marcia, uscirono la sera del 16 da porta S. Giovanni; marciarono per via Labicana; arrivarono alla mattina del 17 a Zagarolo, dove soggiornarono; ripartirono il giorno appresso per posizione a cavaliere delle due vie che da Valmontone conducono l'una a Velletri, l'altra a Terracina; che è quanto dire, sulla fronte e sul fianco dell'esercito Napoletano. Questo però non era rimasto immobile come il Roselli nel silenzio del suo studio aveva calcolato; ma appena avuto sentore dell'avanzarsi dei Romani, aveva frettolosamente abbandonato la linea dei Colli Latini, e s'era da tutte le parti ripiegato su Velletri. Era una notizia importantissima: il piano di campagna del generale Roselli poteva dirsi fallito prima che tentato: occorreva farne un altro, ma suprema necessità era prontezza d'occhio e celerità di esecuzione; il Roselli non affrettò d'un passo la sua marcia, non diede le occorrenti disposizioni; solo ordinava all'avanguardia di spingere il 19 di mattina ricognizioni fin sotto le mura di Velletri, mentre l'armata in ordine compatto, fiancheggiata da perlustratori, avrebbe secondato il movimento. All'alba del 19 l'avanguardia si era già messa in moto; ma, fatti pochi chilometri di strada, il Marocchetti mandava ad avvertire Garibaldi che scorgeva verso Velletri un confuso movimento di truppe nemiche, onde temeva di essere da un istante all'altro assalito da forze superiori. A tale annunzio Garibaldi montò a cavallo, e mandò avviso al generale in capo, dell'allarme dato delle mosse nemiche, come della sua partenza per trovarsi coll'avanguardia sul luogo dell'attacco, se attacco ci fosse stato, affinchè avesse provveduto mandando pronti rinforzi. A spron battuto raggiunse l'avanguardia, e raccolti dal Marocchetti gli ultimi rapporti, cavalcò ancora innanzi per cercare, come fu sempre suo costume, un posto elevato d'onde scoprire le posizioni e le mosse del nemico. Giunto alle Colonnelle sull'altura della vigna Rinaldi, smontò da cavallo; coperto dai canneti e dalle macchie della Vigna, s'inoltrò fino ad una sporgenza d'onde l'occhio poteva correre fin sotto le mura di Velletri; e vide abbastanza chiaro che i borbonici si preparavano ad un'azione imminente. Garibaldi senza perdita di tempo spiegò a destra e a sinistra della strada, che correva tutta incassata fra poggi e vigneti, la legione italiana e alcune compagnie del terzo di linea; e montato sul tetto d'una casa nella vigna Spalletti si rimise a spiare le mosse nemiche. I borbonici avanzavano su tre colonne; un battaglione di cacciatori pei vigneti a destra e a sinistra; uno squadrone di cavalleria appoggiato da un corpo di fanteria e da artiglieria, al centro della strada. Garibaldi sceso dal suo osservatorio non fece un passo per muovere loro contro; ma li aspettò di piè fermo. Trascorsi pochi minuti lo scoppiettio presso la salita di Villafredda avvertiva che i nostri erano stati scoperti e che il primo scontro era avvenuto. Potevano essere le 11 di mattina. Gli avamposti s'erano ripiegati sulle Colonnelle dove erano appostate le fanterie romane; l'attacco si svolgeva su tutta la linea; la fucilata era vivissima da ambe le parti; quando Garibaldi, vista spuntare sulla strada la testa della cavalleria nemica, spiccò il Masina coi suoi cinquanta lancieri ad arrestarla; e il Masina si slanciava seguito dai suoi compagni: ma o perché sopraffatti dal torrente della cavalleria nemica sei volte più numerosa, o perché i loro cavalli fossero nuovi a quel vertiginoso giuoco delle cariche, il fatto è che al primo cozzo furono travolti, e voltarono briglia tutti quanti, abbandonando il loro comandante alle prese col colonnello nemico che ne riportò la testa spaccata. Ma lo spettacolo accadeva troppo vicino a Garibaldi perché potesse starsene inerte spettatore. Visto il voltafaccia dei lancieri e il Masina circondato dai nemici, saltò a cavallo e scortato dal solo moro Aghiar, si mise a traverso la via per tentare col gesto imperioso, colla voce tonante e colla stessa persona, d'arrestare la rotta sfrenata. Tutto invano; ché egli stesso rovesciato di sella, venne travolto dall'onda commista degli amici e nemici, e impigliato il corpo sotto il proprio cavallo e pesto dalle unghie di cento altri, stava per cadere ormai morto o vivo nelle mani borboniche, se in buon punto la brava compagnia di ragazzi, detta della Speranza, appostata lì vicino, con una scarica ben aggiustata, non avesse fatto largo nella siepe dei cavalieri nemici, che già si serravano intorno al caduto, e investendoli poscia alla baionetta, non avesse salvata la vita al suo generale. Come se nulla fosse stato, quantunque ferito e ammaccato in più parti del corpo, e coll'impronta di un ferro da cavallo sulla mano destra, Garibaldi balzava come lampo in sella e riprendeva sereno e imperturbabile come sempre la direzione del combattimento. Nel frattempo però gli Ussari borbonici, trasportati dalla foga dei loro cavalli, erano andati a cascare nel fitto delle linee repubblicane e fulminati di fronte e dai fianchi da un fuoco micidiale vennero forzati a dar volta, lasciando sul terreno numerosi feriti e prigionieri, e trascinando nella fuga rovinosa la fanteria che li spalleggiava. I garibaldini non mancarono di approfittare della rotta, e slanciatisi tutti assieme alla carica accompagnarono i fuggenti colle baionette alle spalle fin sotto le mura della città. Là era forza arrestarsi. Garibaldi vide che il momento era critico. Un assalto a Velletri era impossibile; una ritirata, con gente già scompigliata dalla pugna, e più atta a caricare con furore che ritirarsi con ordine, sarebbe stata una follia; altro non restava che sollecitare il comandante supremo di correre in suo soccorso; e tenere frattanto in iscacco il nemico con manovre e scaramuccie. Mandò a gran carriera Ugo Bassi a dare notizia dell'accaduto al Roselli e pregarlo, se aveva cara, nonché la vittoria, la salute dei suoi, a correre senza indugio in suo aiuto; intanto pensava a coprire alla meglio le sue truppe dietro tutti i frastagli e gli scoscendimenti del terreno, in attesa degli invocati aiuti. Il Bassi trovò il Roselli a Valmontone gli fece l'ambasciata di cui era incaricato, usò di tutta la sua fervida eloquenza nel dipingere la situazione perigliosa dell'avanguardia; ma s'ebbe in risposta «dover prima aspettare che la truppa avesse consumato il rancio, poi si sarebbe mossa». Fortuna volle che alcuni corpi della seconda brigata, tra cui i bersaglieri Lombardi, accorressero da sé stessi al tuonar del cannone, onde Garibaldi man mano che arrivavano poteva condurli a riparare le file stremate dell'avanguardia. Così entrarono in linea i Bersaglieri Lombardi, la Legione romana, un battaglione del secondo reggimento, e parte dell'artiglieria del Calandrelli, che, controbattendo gagliardamente le batterie del nemico, gli levarono la tentazione di ripigliare l'offensiva. Ma tutto ciò a nulla approdava; i nostri non retrocedevano; i borbonici non avanzavano, ma restavano sempre forti e minacciosi, ed ogni istante che fuggiva andava a loro profitto; solo uno sforzo concorde di tutto l'esercito poteva assicurare e compiere la vittoria. Convinto di questo, Garibaldi mandò il capitano David, un animoso Bergamasco, tanto aitante della persona come caldo di parola, a sollecitare ancora una volta il soccorso dal Roselli. E il David, divorata la via, trovò il generale in capo, che seguito da tutto il suo stato maggiore, alla testa di circa cinquemila uomini marciava alla volta di Velletri. Il messaggio portato dal capitano David fece accelerare la marcia delle truppe. L'arrivo dei rinforzi diede modo a Garibaldi di tentare qualche mossa, che dalla tenuità delle forze gli era prima vietata. Veduto infatti sulla via di Terracina un insolito movimento e sospettando un preparativo di ritirata, mandò il colonnello Marchetti con un centinaio di fanti e mezzo squadrone di dragoni a imboscarsi nella selva che fiancheggiava quella via affinché piombasse sui fianchi e alle spalle del nemico appena gli fosse giunto a portata; e dispose un vigoroso assalto contro il Convento dei Cappuccini, che formava la chiave delle posizioni borboniche alla loro sinistra. Intanto che Garibaldi era intento a riprendere l'offensiva, ecco il fuoco dei Napoletani rallentarsi, le loro linee concentrarsi, la strada di Terracina nereggiare, e tutto accennare a precipitosa ritirata. In quel punto arrivava Roselli sul luogo dell'azione. Garibaldi lo ragguagliò di quanto era avvenuto e condusse il generale in capo al luogo che gli era servito da osservatorio in casa Blasi, e gli mostrò i preparativi dei Napoletani per una precipitosa ritirata, concludendo col fargli questo piano: «Egli, Garibaldi, si getterebbe ai fianchi del nemico fuggente; il Roselli coll'artiglieria del Calandrelli, la linea e i carabinieri della riserva resterebbe a difendere la posizione espugnata e appoggerebbe l'attacco». Ma il generale in capo non prestò fede né ai suoi occhi, né a quanto gli esponeva Garibaldi; secondo il suo giudizio, quei nemici che sfilavano sulla strada di Terracina erano brigate che si disponevano ad un nuovo attacco per l'indomani; la ritirata dell'esercito borbonico era una manovra! --Ma che manovra! ribatteva Garibaldi, non vedete che quello è un esercito che fugge? e lasciò il generale in capo a passare tranquillamente la notte in casa Blasi, e lui pure se ne andò a dormire coi suoi all'aperto. Al nuovo mattino non c'era più a Velletri un solo Napoletano! Si è voluto fare un'accusa a Garibaldi di avere attaccato battaglia col borbonici contro l'ordine del generale in capo. Garibaldi fu attaccato, non attaccò, e giudicando pericolosa la ritirata e per di più disonorevole, prese posizione difensiva, in attesa dell'arrivo del grosso delle nostre forze. Si tenga in mente che Garibaldi era all'avanguardia, e si trovò senza provocarlo alle prese col nemico; in quanto all'ordine di non attaccare, Garibaldi ha sempre dichiarato sul suo onore di non averlo ricevuto che tardi, quando già era impegnato--e la parola di Garibaldi non può essere da nessuno messa in dubbio. La mattina del 20 il generale in capo mandò sulla strada di Terracina qualche squadra volante di fanti e di cavalli a perseguitare il nemico; ma Garibaldi aveva già idea di buttarsi nel Regno ed accendervi la rivoluzione. Ne scrisse perciò lo stesso giorno al Roselli con la seguente lettera: «Generale. «Io profitto della vostra compiacenza ad ascoltarmi, e vi espongo il mio parere. Voi avete mandato ad inseguire l'esercito Napoletano da una forza nostra; ed è molto bene.
«Domani mattina dobbiamo col Corpo d'esercito tutto prendere la strada di Frosinone, e non fermarci fino a giungere sul territorio Napoletano, le popolazioni del quale bisogna insurrezionare. «La divisione che seguita la strada di Terracina non deve impegnarsi con forze superiori, e deve ripiegarsi sopra noi in caso di urgenza; ciò che potrò, farò anche traverso le montagne, non impedito dal peso dell'artiglieria. Velletri, 20 maggio 1849. G. Garibaldi.» Il generale Roselli, come era debito suo, trasmise la proposta di Garibaldi al Ministro della Guerra, esponendo le difficoltà dell'impresa e declinandone la responsabilità. Il governo Romano richiamò a Roma il Roselli col grosso delle forze; e lasciò Garibaldi con una brigata coll'incarico apparente di liberare i confini dalle masnade dello Zucchi, ma con quello reale di tentare l'impresa dell'insurrezione del Regno di Napoli. Il 23 di sera Garibaldi era coll'avanguardia a Frosinone, da dove il Zucchi era già partito; il 25 a Ripi; il 26 sconfinava a Ceprano, e saputo che Rocca D'Arce, posizione fortissima, era occupata dai Napoletani, inviava tosto i suoi bersaglieri ad assalirla. E i bersaglieri si slanciarono arditi su per l'erta scoscesa, aspettandosi da un momento all'altro d'essere salutati dalla mitraglia, ma arrivarono senza dare e ricevere un colpo, fino nel paese, ove non trovarono anima viva
All'annunzio dell'approssimarsi di Garibaldi, soldati ed abitanti colti da timore avevano sloggiato. Non fu toccata in quel paese la più piccola cosa. Le truppe si coricarono sulla piazza, tranquille, senza tentare di rompere un'imposta e vi passarono la notte. Garibaldi, saputo che un corpo di Svizzeri l'aspettava a San Germano ordinò al mattino di riprendere la marcia. Egli aveva in mente che se avesse potuto vincere una battaglia, la vittoria gli avrebbe aperta le porte del Regno. Altri però erano i pensieri del governo di Roma. L'invasione austriaca s'avanzava minacciosa; mentre Wimpfen s'inoltrava verso Ancona, un corpo sotto gli ordini del Lichtenstein marciava su Perugia; Roma poteva essere in pochi giorni stretta da braccia di ferro; fare argine a tanto pericolo era un'assoluta necessità

Ricordi di un garibaldino

Incerto il numero della gente che mosse da Roma alla impresa di Velletri, chi dice 8,000, e chi 10,600, certi corpi, e li comandava il colonnello Morrocchetti, ed Haug erano preposti all'avanguardia, il Garibaldi alla battaglia, alle dietro guardie ed alla riserva il Galletti. Altri notò e bene quanto malvagio partito fosse quello di mettere a capo di una divisione due Generali pari in grado permanente, all'uno dei quali si conferiva il supremo comando; di fatti indi a poco il Garibaldi si faceva cedere dal Morrocchetti anco il comando della vanguardia, dissidente o non consapevole il Roselli, e certo questo fu grave fallo del Garibaldi: non importa ricordare qui gli esempi rigidissimi co' quali i Romani mantennero la disciplina, imperciocchè ogni uomo comecchè imperito di milizia vada persuaso come senza disciplina si abbiano torme di predoni non già soldati; ed io per quanta reverenza porti al Garibaldi non posso difenderlo dalla colpa commessa; lui scusano l'amore immenso per la Patria, l'anima ardente di sacro entusiasmo, ed il sentimento del sapere e del potere, e tuttavolta la colpa rimane.

Chiunque vuol conoscere come fossero disposti i Napoletani può cavarsene la voglia leggendolo nell'Hoffstetter, e nel Torre, ma in questo meglio che nel primo, il quale assai mi ha l'aria di arruffone e di millantatore; al mio bisogno basta esporre, che i nostri instando sul centro del nemico avrebbero fatta mala prova sempre, perchè difficile vincerlo in questo lato difeso stupendamente dalla natura e dall'arte, e quando vinto egli poteva ritirarsi senza una molestia al mondo; né compariva più savio partito assalirlo al fianco sinistro, dacché il nemico poteva ripiegare l'ala sul centro, e noi inoltrati circuire col centro stesso disteso dietro le nostre spalle, costringendoci a deporre le armi, ovvero a morire senza pro; ottimo avviso battagliare dal lato destro, dacché qui il terreno montuoso si adattasse meglio al modo di combattere scompigliato dei nostri, i quali arieno potuto esercitare la prestanza individua, mentre per converso il nemico poco vantaggio o punto avrebbe cavato dalla sua disciplina; oltre questa occorrevano altre ragioni e del pari gagliarde, che per istudio di brevità si tacciono. I nostri delle due vie che conducono al nemico stanziato presso Valmontone, Frascati, Albano, Genzano. Velletri, e per le terre, che si avvicinano al mare presero quelle che da Zagarolo mena a Valmontone ed a Montefortino più lunga, ma meno esposta alle molestie nemiche. Le spie messe dietro allo esercito napoletano riportavano come egli con celeri moti si raccogliesse intorno a Velletri non lasciando indovinare se per allestirsi alla battaglia, ovvero per evitarla con la ritirata; per noi qualunque fosse il concetto di lui urgeva assalirlo, ché riusciva impossibile ad uomo frenare lo impeto dei soldati; ma dove non valeva l'uomo, valse la fame: mancarono i viveri; di qui le querimonie scapigliate contro l'amministrazione ed a torto, imperciocchè non a lei, bensì allo stato maggiore corresse l'obbligo di vigilare che gli ordini del supremo Comandante sortissero adempimento, i quali furono che ogni soldato si portasse le cibarie per due giorni. Questo negozio delle munizioni in ogni tempo sperimentammo arduo. I Romani recavano seco armi di ferro atte così alla offesa come alla difesa, scudo, lorica, elmo, e per di più il palo onde ad ogni fermata costruivano il vallo, e per giunta il nutrimento di quindici dì: oggi le razze non so se nascono più affrante, ma certo per manco di esercizio, o per uso intempestivo, e troppo delle forze vitali le proviamo di nerbo sotto alle antiche e di molto. Al pane si potrebbe surrogare biscotto, il quale se fatto nelle regole, e di roba buona risparmia macinatura, cottura ed altre faccende di simile sorte né facili né brevi per le milizie in campagna, dacché lo vediamo quotidianamente sopperire ai lunghissimi viaggi di mare.

Perderono dunque per via tempo maggiore, che non avessero voluto; pure il Garibaldi trascorrendo oltre arriva co' suoi la mattina sotto Velletri avendo però mandato avviso al Generale Roselli perché si affrettasse a rinforzarlo, e questi gli rispose: andasse cauto, si astenesse da ingaggiare battaglia, solo attendesse a spiare ogni mossa del nemico, ricordasse essergli giunte testé le vettovaglie in campo, ed esperienza, e insegnamenti dissuadere la zuffa con milizie sconfortate di cibo e di bevanda. Ora gli emuli del Garibaldi lo appuntano della seconda colpa, la quale fu, postergato ogni consiglio o piuttosto ordine, avere continuato la marcia, anzi pure attaccato la mischia, e non è vero.

Velletri è città di 12,000 anime, situata in cima ad un colle; la via che mena a lei per circa tre miglia prima di arrivarci è tagliata ad angolo retto, a destra ed a sinistra, da talune eminenze fra mezzo alle quali essa procede; il Garibaldi con disegno accorto dietro queste eminenze dispose grosse squadre di soldati regolari mentre egli coi legionari, e volontari suoi prosegue per la via: passate coteste alture la campagna si stende con piano inclinato, e la via continua traverso a quelle, quasi chiusa, fra due argini che la sovrastano una trentina di braccia e più; tutta questa stesa appellano i colli latini; e qui pure il Garibaldi ordinava i suoi dal manco lato e dal destro in modo che tagliassero la strada con linee parallele e diritte. Il Garibaldi disposte le sue genti a quel mo', dopo avere spediti qua e là stracorridori a speculare si mise a sedere sotto un pino che ombreggiava la via, ed essendo ormai le ore otto voltosi ai compagni disse loro: «Orsù vediamo di rompere un po' il digiuno.» Dentro un tovagliolo allora gli portarono tre panini, quattro once di salsamento, e forse altrettante di cacio cavallo; non mancava il vino, forse un bicchiere e nemmeno: i convitati otto, col Garibaldi nove. Taluno disse al Generale: «mangi tutto lei, almanco uno di noi si caverà la fame.» Egli al contrario: «no abbiamo a mangiare tutti, capisco che non ci è pericolo di morire per ripienezza.» Mentre egli recatosi in mano un panino faceva atto di spezzarlo ecco un lanciere sopraggiungere da Velletri a briglia abbattuta, e domandare da lontano: «dov'è il Generale?» Qui, fugli risposto, ed egli tostochè lo vide: «Generale dalla città sboccano in massa cavalleria e fanteria.» Il Garibaldi, che teneva fra le dita un pezzo di pane lo depose per bene nel tovagliolo, si levò, e fregatasi due o tre volte col palmo della destra la fronte si abbassava la falda del cappello su gli occhi, poi con voce forte e pacata ordinò al lanciere: «Tornate addietro, e date ordine che tutti i corpi avanzati si ripieghino in ritirata.» Il lanciere volte le groppe del cavallo, tocca di sproni, e via; dopo ciò il Garibaldi accenna della mano al dottore Ripari e gli dice: «tu fa voltare le mule ed i cannoni, e torna indietro a piccolo passo.» Il buon Ripari che di queste cose m'informa, ingenuamente aggiunge: «voi capite, che anco al medico col Garibaldi tocca a fare un po' di tutto.» Gli ufficiali di stato maggiore furono lanciati in questa parte ed in quella a portare ordini, il dottore se ne torna bel bello in giù a capo di quattro cannoni, e di quaranta mule cariche di munizioni rasentando l'argine a manca per lasciare libera per quanto più poteva la strada, il Generale anch'egli seguitava lento a cavallo dietro l'ultimo cannone. Intanto giovanetti a corsa passano domandando l'uno all'altro: «dove vai?» A chiamare il Roselli, rispondevano. «Ed io pure.» Già i traini erano giunti alle eminenze negli intervalli delle quali il Garibaldi aveva disposto i soldati regolari, quando dalla parte di Velletri fu udito strepito di moschetteria, e indi a breve arriva tempestando un cavaliere che sussura nelle orecchie al Generale un motto, per cui questi mutata fronte va via di corsa col cavaliere. Il Ripari piantato lì in asso non sapeva, che farsi; statosi alquanto sopra di se ordina sostino le mule, e i cavalli della batteria, ed egli pure dietro al Generale.

Adesso narro cosa che a parecchi saprà di agrume, ma io la vo' dire perché tante sono le prove del valore italiano, che davvero egli non può patire manco di fama per qualche colpa commessa; e poi tanto mi uggisce la jattanza francese di non averne tocche mai, che quasi mi piace raccontare come gl'Italiani non repugnino dal confessare per essi talvota non essersi compito il debito. Il Masina capitanava novantasei lancieri, bolognesi la più parte; prodi uomini tutti ma nuovi, egli poi comecchè giovane di anni, vecchio di perigli e di prove; militò in Ispagna, e dappertutto dove si combatteva per la libertà; per lui niente impossibile, il numero non contava come pel Garibaldi, usi a mutare in vere realtà le fantasie dello Ariosto: costui vedendo ruinargli addosso due squadroni di cavalleria napoletana si volse ai suoi, e parendogli che nicchiassero, con parole di obbrobrio li vituperava aggiungendo poi: «e che vi ha da importarre che i nemici sieno mille? O che me ne importa? O che fa averne di fronte quattro od otto? Su giovanotti alla carriera.» Ed egli via a precipizio; comecchè fosse cavaliere se non unico raro, pure montando certa cavalla inglese ardentissima storna di pelame, appena gli riusciva tenerla agguantando con le due mani la briglia; a quella guisa correndo primo e solo andò a dare di fronte nella cavalleria napoletana. Il Colonnello di quella vecchio di anni e di mestiere facendosi cuore gli si avventò contro menandogli un gran fendente sul petto il quale per ventura non lo arrivò; Masina allora abbandona le briglie, e trae in un attimo la sciabola tenendola voltata e ferma al collo nemico; la cavalla libera scorre via come saetta, il colpo coglie fulminando il Colonnello, che rovesciato a terra perde la vita. Il Sacchi nelle sue memorie afferma che il Masina trapassasse il Colonnello napoletano con un colpo di lancia, ma non è vero, ché egli non andava armato di lancia in cotesta congiuntura. Ora mentre il Masina tutto bollente si volge per incorare i suoi ecco si trova solo, imperciocchè i suoi lancieri, essendosi appressati ai nemici, e scorto com'essi di cinque volte e sei li superassero, e subito dopo venissero le fanterie a battaglioni, invilirono; presi da paura voltate le groppe fuggono. Il Generale Sacchi ne incolpa i cavalli sbrigliati, non assueti alla vampa ed allo strepito delle armi, ed è menzogna pietosa: i lancieri del Masina sotto Velletri scapparono abbandonando il Capitano a morte quasi sicura; ed anco peggio essi fecero se pure peggio si poteva, imperciocchè il Garibaldi pensando che il suo aspetto bastasse ad arrestarne la fuga, si pose col cavallo di fianco traverso la strada, e seco lui il moro Aguiar; ma lo aspetto non valse, né il grido, né il cenno, ché via trascorrendo lui, e il moro mandano sossopra, alcuni in essi inciampando rotolano per terra, onde in breve cotesto luogo fu ingombro da un mucchio di cavalieri caduti, e di cavalli. Afferma il Torre, che Garibaldi caduto stesse sul punto di restare trafitto dal Colonna maggiore napoletano se prevenendolo un lanciero non lo avesse morto prima di vibrare il colpo, e confonde forse col fato del Masina; altri, l'Hoffestetter, racconta come il Garibaldi avesse feriti la mano e il piede di palla, e né manco questo è vero. Crediamo il Garibaldi che così mi narra il fatto, ed io tal quale lo trovo scritto nei suoi ricordi lo riferisco altrui. «Una compagnia di ragazzi che si trovava alla mia destra vista la mia caduta si scagliò su i napoletani con tal furore da fare stupire: io credo dovessi la mia salvezza a cotesti prodi giovanetti poiché essendomi passati parecchi cavalli sul corpo ne rimasi contuso per modo, che a fatica poteva rialzarmi, e rialzato mi toccava le membra per vedere se vi era nulla di rotto.»

Il Ripari visitandolo dopo la vittoria trovò il Generale ammaccato in tutta la parte destra del corpo, al malleolo esterno, al ginocchio, all'avambraccio, al cubito, ed alla spalla; la mano destra sul dorso riteneva la impronta di un ferro da cavallo; però finché durò la battaglia il Garibaldi pareva non sentisse dolore, e forse l'anima sua tutta versata altrove non lo sentiva.

Dei ragazzi di cui parla il Garibaldi così mi occorre scritto nelle note fornitemi dal Generale Sacchi: «erano giovanetti di 16 anni o meno, che componevano insieme una compagnia comandata dal Capitano Airoldi bergamasco, e formavano parte del mio corpo: qui a Velletri si distinse per prova di stupendo coraggio assaltando i nemici alla baionetta, e molti di essi facendo prigionieri, i quali poi strana figura facevano di sé, tratti in mezzo a cotesti fanciulli; né a Velletri solo ma nello assedio di Roma, e nella ritirata a San Marino sempre comparve indomita di coraggio, e pagò largo, ahimè! troppo largo tributo di sangue alla Patria.»

Il Garibaldi rimontato a cavallo ordina a talune milizie disposte per le frastagliature dei colli latini avanzino celeri e chiudano la strada, alle altre poi comanda non si movano, rimangano ai lati del nemico, il quale improvvido delle insidie era trascorso oltre, lo fulminino nei fianchi, e così fecero, sicché le palle percotevano sopra masse dense e compatte, però quanti colpi tante morti e forse più morti, che colpi; cascavano giù come frutti colti dalla grandine; miserabile il luogo, impossibile vincere; da prima venne meno la baldanza, poi subentrò la voglia di ritirarsi, all'ultimo cadde su l'anima di costoro la paura, e a rifascio per cotesta via incassata i cavalli tempestando stornarono, le colonne della fanterie susseguenti rovesciano, pestano, e passano; anco i non percossi disposti sopra i rialzi laterali della via sono travolti nella fuga.

Il re Ferdinando era presente alla battaglia, e la stava mirando, col cannocchiale da una finestra del palazzo Angelotti; visto il caso non volle saperne altro; ordinato pertanto ai suoi soldati il celere ritirarsi, nei passi retrogradi, li precedeva: il suo posto era dietro quando essi camminavano avanti; avanti quando camminavano indietro.

Nella fuga ruinosa lasciarono cavalli, ed uomini feriti, armi sparse, zaini, e vesti; tanta carta avevano addosso costoro, che sparsa a terra parve ci fosse nevicato. Al Masina, cercando, venne fatto rinvenire il Colonnello napoletano morto da lui, scese da cavallo, e gli tolse la tracolla orrevole di dorature, della quale come di spoglia opima meritamente si decorò.

E né anco voglio omettere un fatto strano, perché anch'egli dimostra a qual misero stato di errore conduca la falsa religione il volgo di Napoli, e forse il volgo tutto dei cattolici; i soldati napoletani ripresi agramente della poca resistenza opposta rispondevano a scusa, che tanto avevano visto il combattere inutile, dacché la gente del Garibaldi uccisa, appena tocca terra resuscitava; errore, che ebbe origine da questo: i giovanetti di membra agilissime e spigliati appena esploso il moschetto si lasciavano ire a terra dove giacenti lo ricaricavano, e poi di un tratto sorgevano a replicare i colpi.

I soldati di Garibaldi non paiono contenti di ricacciare il nemico; lo vonno spento; e' fu lo inseguimento feroce: dove i napoletani levano il piè, lo pongono i Garibaldini; il Daverio, il Masina con altri animosi cacciaronsi in mezzo a loro lupi fra pecore, e stette a un pelo, che menati via dalla corrente non entrassero alla rinfusa con essi nella terra, e vi cadessero prigioni; altri si spinsero fin sotto l'altura dei Cappuccini ira di cannoni, e senza curarsi della mitraglia, che schizzava a diluvio, dissero: «qui siamo venuti per combattere, e combattere vogliamo,» pregaronli a ritirarsi, e non approdavano; non l'Hoffstetter vi riusciva, non il Manara; intanto la mitraglia semina la morte, e non per questo rimovonsi dal disperato proposito; allora i due ricordati si consigliano andarsene ad avvisare il Generale e così facendo poco oltre incontrano una mano di soldati, i quali ebbri dallo strepito dei cannoni, e dall'incessante clangore delle trombe incuranti delle granate, che ruinavano giù in mezzo a loro ballavano; appena essi giunsero ecco un colpo di mitraglia ferisce due danzatori; sostano tutti, ed esitano un momento, ma il Manara subito grida alle trombe: «musica!» e gli altri più frenetici che mai ripigliano i salti. Anco il principe di Condè si legge, che in Ispagna quando i suoi si accinsero a salire su la breccia di Leira fece sonare i violini: queste jattanze non invidinsi ai Galli; devono gl'Italiani affrontare la morte da eroi, non irriderla come giullari.

Ma che tarda il Roselli? Se arriva in tempo questo combattimento non si risolverà solo in onoranza delle armi italiane, ma forse avrà virtù di mutare le condizioni della guerra: disperso l'esercito regio, in potestà nostra le armi, e gli arnesi guerreschi di quello, sbigottiti i nemici già ciondolanti, i popoli levati a novità, aperte le porte dello stato, il re vinto dalla paura più che dalle armi; a Napoli tutto procede a mo' di lava, tanto il fuoco che irrompe dal Vesuvio, quanto la passione, che trabocca dall'anima degli uomini. Ecco arriva finalmente il Roselli non con la foga di cui voglia avventarsi allo sbaraglio, bensì con la circospezione di quale teme venire sorpreso; il Garibaldi lo attende dentro una casupola a destra, dove ei si sta speculando lo irrequieto affaccendarsi del nemico; appena lo vide in questi precisi accenti li favellò: «Generale, mirate; se vi regge la vista vedrete ad occhio nudo, se no pigliate il mio cannocchiale; ponete mente a cotesta linea nera sopra la strada, quegli è il nemico, il quale non si ritira, ma fugge.»—«È vero! È vero! Risponde il Roselli.» Orsù via, soggiunse il Garibaldi, «addosso alla coda del nemico, e pigliamogli più roba che possiamo: due strade ci si parano davanti per agguantarli; la prima è quella, che gira sotto le mura, e a questa non ci si ha da pensare, perché esposta troppo ai cannoni, ed ai moschetti nemici; l'altra più lunga, ma più sicura ci corre qui a sinistra in mezzo ai campi, che potendosi tagliare a diagonale ci lascia agio di giungere a tempo: è l'ora di Marengo, le 4 e mezzo pomeridiane.—Sì, sì, replica il Roselli, bisogna fare a quel mo' e lo faremo.»—«E sia Generale, replica il Garibaldi, «ma avvertite, che i miei uomini stanno al fuoco dalle 8 di stamattina fino ad ora, bisogna rilevarli.»—«Avete ragione, così faremo;» conchiuse il Roselli.

Presenti fra gli altri a cotesto colloquio il colonnello dei Dragoni Marchetti, e il colonnello di stato maggiore Daverio, il quale disse al primo: «Marchetti, quanti cavalli hai teco?»—«Adesso quaranta o cinquanta, l'altro rispose.»—«Ebbene soggiunse il Daverio, va tu innanzi per campi di traverso con quanta gente più puoi, e acquattata dove ti paia più destro: io mi ti lego per fede di sovvenirti fra breve.» Il Marchetti andava, il Torre dice con 120 uomini (forse questi più gli si saranno aggiuti per via) e si pose in agguato nella selva che spessissima fiancheggia la via consolare fra Velletri e Cisterna. Però nonostante la buona volontà dimostrata dal generale Roselli tanto egli che il suo colonnello di stato maggiore Pisacane non procedevano di buone gambe in cotesta impresa però che eglino le mosse del nemico non giudicassero fuga, all'opposto maneggi per circuirli, e mettersi in parte da presentare battaglia con profitto il prossimo giorno. Mirabile il giudizio subitaneo del Garibaldi quanto il concitato comando: entrambi quasi sempre infallibili: le prove di ciò replicate e continue: onde quanti con esso lui militarono in America gli avevano cieca fede; non così gli altri un po' perchè lo conoscevano meno, un po' per saccenteria di regole e un po' per astio, le quali cose tutte, comecchè in particole pure si appigliano anco allo spirito dei migliori. Da siffatto screzio nacque, che invece di spingersi gagliardi contro Velletri si gingillarono in avvisaglie alla spicciolata fino a notte; fu spedita sopra la strada di Terracina una scarsa banda di gente buona a raccattare prigioni, non atta a combattere nemici: le tenebre posero termine al combattimento, e diedero principio al votare della città: bene si accorse della ragia il Marchetti, che non essendo rinforzato mandò messi su messi affinchè lo ingrossassero; aspettato lunga pezza invano, da una parte egli si vedeva tolto fare cosa che approfittasse, e dall'altra non gli pativa l'animo di tornarsene senza costrutto: tenendosi sempre prossimo alla selva per rintanarsi al bisogno si gittò su la strada dove mise le mani addosso sopra nove mule cariche di gallette, e per poco non fece preda troppo più importante, il fratello del re che in quel punto giungeva: fu salvo in grazia della stupenda velocità dei suoi cavalli.

Verso le due ore del mattino il tenente colonnello Leali ebbe ordine di occupare col battaglione del 5.º reggimento l'altura dei Cappuccini, che trovò deserta. Emilio Dandolo con soli 40 uomini stracorso ad esplorare la città s'imbatte in due contadini, i quali lo accertano della partenza dei Napoletani; fattosi oltre scavalca le barricate, ed entra nella città abbandonata del pari; solo il nemico ci aveva lasciato i feriti e i prigionieri.

Con questi esempi lo esercito napoletano non si educava a gesti eroici; e più tardi a piccolo urto noi lo vedemmo cedere; però prima di cotesta infamia fu chiaro in armi, e lo ridiverrà in breve, chè la colpa non ispetta a lui, bensì al codardo guidatore ed educatore. Di rado i Borboni di Napoli mostraronsi prodi come sovente feroci, chè ferocia e viltà paiono più presto sorelle che cugine, e Velletri se con Ferdinando vide una fuga vergognosa, lei fecero illustre i medesimi napoletani condotti da Carlo III quando colà percotendo gli austriaci salvarono le terre del regno dalle offese di cotesti barbari. Ferdinando fino al Duomo di Gaeta sostenne la parte di cui turpemente fugge; nel Duomo assunse quella di vincitore, e in rendimento di grazia per la ottenuta vittoria cantava il Tedeum; cosa da fare ridere i celicoli, se lassù in cielo queste nostre miserie toccassero; intanto i diari del governo annunziavano le milizie regie congiunte alle francesi combattere aspre battaglie; vinta Roma; con maschio valore averne i Napoletani espugnato due porte; nè diversamente era da aspettarsi da uomini, quali avevano promosso santo Ignazio da Loiola, stipite dei Gesuiti, al grado di perpetuo maresciallo di campo del re di Napoli!

Chi poi non si sapeva consolare di cotesta vittoria era il Masina; sbuffava, e tempestava urlando, che a quel modo non si espugnano terre; se gli fosse riuscito avrebbe preso pel collo il re di Napoli e costrettolo a rientrare in Velletri, perché se da re non aveva saputo difenderlo lo difendesse da uomo; ma intanto che col re non si poteva sfogare non dava pace ai compagni, e gli destava a calci, pur sempre sclamando: «e ora bella forza prendere Velletri! Sono stato in città e non vi è più né manco l'odore di Napoletanni.»

Adesso nelle mie note trovo scritto un caso che parmi ottimo a riferire; forse taluno osserverà, com'ei non si addica al sussiego della storia e di ciò non curo, però che io reputi degno della storia tutto quanto ammaestra la vita: Garibaldi a Velletri pose stanza nel medesimo palazzo dove albergò il re Ferdinando; colà adagiato sul letto mandò pel medico perché gli visitasse l'affranta persona, e vedesse un po' se vi era verso di farlo soffrire meno: il medico venne, e gli ordinò il salasso, ma ei non ne volle sapere; allora un bagno, e a questo aderì: mentre per tanto ei se ne stava immerso nell'acqua fu udito dalla contigua stanza dare in iscoppio di riso, onde il trombetta Colonna che lo serviva da cameriere entrato nella stanza gli domandò: «che ci è da ridere Generale?» Ed egli: «rido perché mi è caduta la camicia nel l'acqua, ed io l'ho figlia unica di madre vedova.»—«Aspetti un minuto, replicava il trombetta, vedremo di rimediarci.» Ed uscì fuori interrogando i presenti se potessero prestargli una camicia, ma quanti udi si trovavano nei medesimi piedi del Generale, eccettochè a loro la camicia non era cascata nell'acqua. Messo alle strette il giovane Colonna si accosta al dottore Ripari e si gli dice: «io ce lo avrei il ripiego, ma non mi attento.» Il dottore di rimando: «parla franco.» Allora il trombetta: «oh! la senta, nel convento degli Agostiniani a Palestrina nella camera di un frate, mi saltarono, sto per dire, da se nelle mani parecchie camicie, ed io per non fare il superbo con la Provvidenza me le riposi nello zaino, dove a tutt'oggi si trovano; però se le paresse cosa io ne darei una al Generale…—Certo, che la mi pare cosa da farsi, rispose il dottore.»—A quel modo Garibaldi poté adagiarsi nel letto di un re con la camicia di un frate! Vicende del mondo, bizzarrie di cervello secondo la indole italiana. Nella sala del palazzo Angelotti o Ancillotti a Velletri ci era un trono, tutto damasco ed oro, dove si assideva nella sua maestà il Cardinale legato: al dottore Ripari prese il capriccio di mettercisi a sedere fumando la pipa: il dottore notò che ci si stava come in qualunque altra seggiola ordinaria; forse peggio; ed io poi aggiungo, che l'azione che ci fece egli, certo fu la migliore di quante il Cardinale ce ne avesse mai fatte. E un'altra ventura non meno piacevole è questa: i ragazzi del Sacchi, co' feriti meno gravi stanziarono dentro un convento, distribuendoli soldatescamente, con le sentinelle, le veglie, e con gli altri tutti ordini, per bene: non andò oltra un'ora, che da quella parte fu udito uno schiamazzo da assordare la gente a un miglio di distanza: accorsero per vedere che disgrazia fosse accaduta; non trovarono sentinelle, le porte sprangate, più e più volte chiamarono, e in mezzo a quel diavolìo non fu possibile farsi sentire; atterrarono le porte, e rinvennero i ragazzi, non esclusi i feriti, a corrersi dietro urlando freneticamente inebriati di chiasso; li ripresero, e si misero a ridere, li minacciarono e risero più che mai: che pesci pigliare? Soldati erano di undici a sedici anni.

Il Garibaldi inseguiva i Napoletani, ma per quanto affrettasse il cammino non li poté raggiungere; lo abbandonava il Roselli richiamato a Roma, ed egli aggiuntasi la brigata Masi si gittò su la provincia di Frosinone a purgarla dalle bande dello Zucchi, uomo nel trentuno tenuto in pregio e più tardi comparso a prova cattivo soldato, e pessimo cittadino; il peggio è vivere troppo. Allo accostarsi dei nostri le bande dello Zucchi spulezzavano; i nostri dovunque mostravansi come liberatori venivano acclamati; forse erano coteste accoglienze sincere, ma siccome i popoli le profferiscono a tutti, così riportando l'effetto non giudichiamo lo affetto. Questo poi è sicuro, che i Napoletani non opposero resistenza né ad Arce né a Rocca di Arce: stavano in procinto di avviarsi a San Germano quando richiamati a Roma rifecero i passi per Frosinone, Anagni, e Valmontone.

Anco questa questa impresa andò fallita perchè al Roselli pareva zarosa troppo, dovendo assalire un nemico potente di artiglieria, e di cavalleria, e due cotanti più forte appoggiato alle fortezze di Capua, e di Gaeta; le sono saccenterie di uomini mediocri, che a sé, e ad altri danno ad intendere per sapienza; con cento volte meno di forze il Garibaldi più tardi mandava in fasci cotesto reame; e il Roselli avrebbe dovuto dirmi se reputava più agevole tornarsi addietro per combattere con le forze della repubblica romana la repubblica francese. Il Triumvirato poi fra i due partiti o di richiamare tutte le milizie a Roma, o di spingerle tutte contro Napoli e' si apprese ad un terzo e fu il peggiore, le scisse in due senza saperne il perché.

Lo Assedio di Roma - Guerrazzi

La sera del 16 maggio uscivano di Porta San Giovanni dieci mila Romani con dodici pezzi di artiglieria, comandati da Roselli. Il popolo, che numerosissimo accorse alle mura, festeggiava le milizie, e le acclamava ad alte grida non per odio ai Napolitani, che erano pure Italiani e fratelli, ma a quel loro Nerone così crudele ed ostinato.
La sera del 18 giunse Roselli sotto Valmontone, avendo l'avanguardo a Montefortino; ivi seppe che il nemico muoveva da tutti i punti verso Velletri. Garibaldi colla prima brigata di 2500 uomini e due pezzi d'artiglieria si accostò, quasi in ricognizione, a poca distanza dalla città. I Regi, vedendo questa poca truppa, uscirono per combatterla, ma furono respinti da prima, quindi ripresero il vantaggio sui nostri colla loro cavalleria, la quale alla fine vigorosamente attaccata dalla Legione italiana retrocesse colle altre schiere in città. Intanto sopraggiungeva il nerbo delle nostre truppe. Il Borbone. benché occupasse quella forte posizione, ed avesse un esercito assai superiore di numero al repubblicano, decise di ritirarsi, e fu egli il primo a dare il male esempio della fuga. I Romani continuarono ad investire la città da cui rispondevano i Napolitani, che tutto il giorno fecero incessante fuoco d'artiglierie, e specialmente dall'altura de' Cappuccini presa particolarmente di mira dai soldati repubblicani, che più volte vi spinsero le loro colonne d'assalto e pugnarono sino a che la notte non venne a por fine al combattimento. Protetti dalla oscurità i regi sgombrarono Velletri, che !a mattina del 20 fu occupata dalle truppe della Repubblica.

Morti nel combattimento del 19 maggio.
Ufficiali.
Perdita Bernardo di Genova , maggiore della Legione italiana.
Sott'Ufficiali e Comuni.
— Della Legione de'Finanzieri mobili : il caporale Polini N. di Ancona.
— Del 1° reggimento di fanteria: il caporale Ratti Luigi di Roma.
— Della Legione degli Emigrati: il sergente Sammarlini Francesco di Milano.
— Della Legione italiana : Prodi N.-di Lodi, Pontt'ggiati Vittorio di Forlì, Barrelti Raffaele.
— Della Legione Romana: Ricci Domenico romano.
— Due altri non riconosciuti di nome.
— Ed un terzo parimenti ignoto della Legione italiana.

FELICE VENOSTA: ROMA E I SUOI MARTIRI (1849) - 1863