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11 - La Repubblica Romana del 1849

30 aprile 1849 - p.2

RAFFET Denis Auguste Marie: Una colonna di lancieri

RAFFET Denis Auguste Marie: Una colonna formata dal 20° e 33° lancieri, a passo di corsa sulla strada che conduce a Porta Cavalleggeri è accolto dalle cannonate partite dalle mura Vaticane. Sotto il torrione si intravede la Porta Pertusa.

30 aprile 1849: la prima battaglia

30 APRILE

Intanto che a Roma si preparavano le difese, Oudinot, anelante il ritorno del Pontefice, aveva ordinato a'suoi soldati di muovere per alla volta di Roma. E alle nove del mattino del 30 aprile, forte di 8000 uomini di fanteria, due squadroni di cavalleria e dodici cannoni da campo, presentavasi sui bastioni del Vaticano; e alle undici ordinava un attacco simultaneo alla Porta Angelica ed a quella Cavalleggeri, poste ai lati di Piazza san Pietro. Gli andava incontro pel primo il generale Garibaldi colla legione italiana; ed il fuoco incominciava tosto da ambo le parti. Il campanone del Campidoglio e quello di Monte Citorio mescolavano il loro suono d' allarme al fulminare dei cannoni. Le musiche militari romane suonavano l'inno dei Marsigliesi, cantato ai di 10 agosto del 1792, all'attacco delle Tuillerie. Ma quell'armonia, che doveva dire ai Francesi come noi fossimo loro fratelli, li offese; e stimandosi derisi, si cacciavano più arditamente sotto le mura, ove nulla poteva 1' arte ed il valore. Molti erano i feriti e gli uccisi nelle file avverse, pur non ismentivano il loro valore; ma alfine dovevano abbandonare la mal consigliata fazione, respinti su tutti i punti dalla spessa moschetterà e dagl'infallibili tiri dei cannoni diretti dal prode Ludovico Calandrella La battaglia durò sette ore; i Francesi fra morti, feriti e prigionieri perdettero circa mille trecento uomini. Noi deplorammo la perdita di sessantanove soldati, fra cui un ufficiale di cavalleria, Antonio Zamboni, Veneto, giovine colto e poeta, il quale cadeva il primo per difesa di Roma, non che due ufficiali d'artiglieria, Paolo Narducci e Enrico Pallini; l'uno caduto sopra il suo pezzo mentre incoraggiava i compagni a tener saldo contro il nemico, l'altro mentre portava un ordine. Ducente all'incirca furono i nostri feriti. Uno prigioniero, il Padre Ugo Bassi, ghermito da un drappello nemico, mentre consolava l'agonia d'un morente. Popolo e truppe gareggiarono in quella giornata di valore; e se i Romani avessero avuto cavalleria, il corpo di Oudinot era fatto tutto prigioniero. Armi, tamburi, ed altri oggetti da guerra, rimasero in potere dei vincitori. Angelo Masina, di Bologna, comandante i lancieri, sempre il primo ai pericoli, l'ultimo nella ritirata , mostrava al festante popolo parecchie spade e la mazza d'un tamburo maggiore. Crediamo pregio dell'opera narrare un fatto, che, mentre é di encomio al valore francese, fa vedere come i nostri lealmente combattessero. Infugati vari corpi nemici a colpi di baionetta, un battaglione del 20.° di linea, rimasto isolato , erasi chiuso in una casa ove si difendeva come da un fortificato castello, deciso di morire combattendo. Molte erano le sue perdite, e l'umanità chiedeva che avesse a cessare una strage senza scopo veruno.
Nino Bixio, lo stesso che nelle guerre successive seppe col suo valore acquistarsi il grado di generale, si slanciò, con un nodo d'armati, verso il luogo occupato tuttora dali' inimico; egli stava per isforzarne la porta, quando questa si apriva, e sul limitare mostravasi il maggiore Alessandro Piccard. Bixio in fretta gli faceva conoscere il vero stato delle cose, e lo esortava a Costituirsi prigione. NelP atto che il maggiore pronunciava parole confuse, e che i suoi soldati gli si facevano attorno, l'animoso italiano lo strappava dall'infausto luogo. In pari tempo il Franchi di Brescia, prendeva il sottotenente Termalet; que' Francesi, disarmati e bendati, venivano condotti da Garibaldi. Scoraggiati, co me erano, gli altri ufficiali e soldati ancora validi si arrendevano. I feriti vennero trasportati all'ospedale dei Pellegrini, ove, come in quello di S. Maria della Scala, fra le più amorose sollecitudini, altri erano già curati da pietose signore, corse volonterose nelle ambulanze provvedute di tutto: ai morti fu data onorevole sepoltura. Codesto fu il tranello (guet-à-pent) con cui credette insultarci l'Oudinot, il Bonaparte e i rabbiosi gazzettieri di Francia. Qualche servile scrittore francese poi qualificò il combattimento del 50 aprile una semplice ricognizione; ed oltre che il fatto per sé stesso dimostra il contrario, quell'asserto viene smentito da altre prove. La condizione che Oudinot chiedeva al Manara, mostra che egli sperava per quel giorno di aver in suo potere Roma. Il 29 una pattuglia di cavalleria,, condotta dal capitano Oudinot, si spinse sino agli avamposti, e fu salutata dalle prime schioppettate dei Romani, i quali uccisero un soldato, ed un altro condussero prigioniero; prova sufficiente che la città eterna era parata a difesa. Toglie al postutto ogni dubbio l'ordine del giorno rinvenulo nella tasca di un capitano di Stato-maggiore ucciso, in cui, con ridicola iattanza, prescrivevasi alle truppe di « attaccare Roma alle due porte più salienti, inseguire il nemico colla baionetta nei reni, e riunirsi sulla piazza di S. Pietro, e raccomandavasi di risparmiare il sangue francese. » I prigionieri nemici furono accolti come fratelli, e come tali- trattati; non vi fu cura, non ufficio d'amore che ad essi non venisse prodigato. Molti di quei prigionieri doloravano la fratricida impresa a cui erano stati condotti; il popolo, quel buon popolo che ha il cuore sulle labbra, che ama anche chi lo odia, li racconsolava con teneri detti. Festeggiati quei prigionieri, furono di lì a poco rilasciati in libertà fra gli applausi dei Romani, che vollero accompagnarli fino alle Porte, ed essi si mostravano riconoscenti per tanta espansione di affetto (12). Ma non si tosto al proprio campo, quei soldati pagavano i Romani della più nera ingratitudine; essi pregavano il loro generale li ponesse nelle prime file, ove si fossero di bel nuovo rotte le ostilità contro Roma. Toccata la sconfitta, il satellite del Bonaparte raggranellò i fuggiaschi alla tenuta Bravetta, e, dopo breve sosta, mosse verso Castel Guido, ove accampò. E da quivi contraccambiava la generosità dei Triumviri, inviando libero in Roma, ma disarmato, il battaglioue Melara, mentre egli erasi impadronito di quattro mila fucili, che trovò al momento del suo sbarco in Civitavecchia. La Commissione delle barricate, istituita in quei giorni, contribuiva potentemente a mantenere l'entusiasmo del popolo e ad informarlo ai più santi affetti di patria. Anima di quella commissione era Enrico Cernuschi, milanese, uno dei più bei caratteri della prima nostra rivoluzione, uomo che per la sobrietà di pensieri, per l'indomato affetto di patria, ritraeva un po'dell'antico, e in vederlo ti faceva credere colle parole e cogli atti a tutta la virtù del sacrifìcio che l'umana razza nobilitò in Grecia e in Roma. Con un fare popolaresco, misto di gravita e di facezia, Enrico avvezzava gli animi a ridere della morte, a sostenere tutto per la causa augurata in Roma, a disprezzare i nemici contro cui combattevasi e i mezzi che adoperavano per agghiacciare il coraggio del popolo. Le bombe, che coi loro fragori e i loro scoppi avevano tanto colpita l'immaginazione delle donne specialmente, chiamava molto strepito per nulla, le diceva pretesti e non altro per far capitolare le città; di Oudinot, che si era milantato di voler pagar tutto, diceva pagasse gli arazzi di Raffaello guastati da suoi proiettili; dei Francesi, che erano voluti entrare in Roma, diceva che erano infatti entrati, ma prigionieri. Esortava poi più che colle parole coll'opera i Romani a star saldi, li ammoniva che vi sarebbero state in breve nuove e più sanguinose battaglie; s'inebbriava dei trionfi della libertà, e il popolo con sé ne inebbriava; infaticabile correva giorno e notte Roma, salutato dal popolo con lunghe e vive acclamazioni. Instancabile a tener accesa nel popolo la fiamma .dell'entusiasmo, pur dobbiamo accennare Padron Angelo Brunetti, il popolano del rione del popolo, più conosciuto dal soprannome di Ciceruacchio, l'uomo che,, fin dal primo svegliarsi degli Italiani, seppe muovere e frenare ad un tempo le moltitudini romane. Povero Angelo! ci par proprio ancor di vederti. Quei tuoi capegli d'un biondo-scuro, fini e ricciuti, quei tuoi occhi chiari e ridenti, quelle gote piene e rosee, quel naso profilato e giusto, quel labbro superiore sporgente in perfetta armonia col perpetuo sorriso dell'occhio, mai si dipartono dalla nostra memoria, come pure quella tua facilità del discorso, quella tua mano incallita dal lavoro, che si stendeva per istringere l'altra d'un amico colla stessa facilità che porgevi l'obolo al poverello, il soccorso al caduto. Tu, o Angelo, eri il vero tipo di quel popolo che noi non possiamo ricordare senza commozione, di quel popolo di Roma, di sentimenti alteri e generosi, pronto, magnanimo, eloquentissimo, capace delle più eroiche azioni. E la nera coorte del Vaticano ti odiava perché tu, o Angelo, amavi tanto la patria, ed é per questo che ti sprezzavano i despoti, e ti vollero morto! Il Triumvirato e l'assemblea ringraziarono i Romani della loro eroica condotta/e, cessato il conflitto, continuarono ad intrattenersi con tutta la calma primitiva delle leggi che dovevano guidare Io Stato. La parte della difesa affidata al potere esecutivo, dava campo ai Triumviri di spiegare tutta la loro energia. Mazzini aveva raccolto in Roma i vari corpi militari sparsi per le provincie, giudicando giustamente che sino a quando l'eterna città sussistesse, la Repubblica era salva. Così quelle provincie divenivano facile pasto dei nuovi predoni che v'irruivano. La brigata Garibaldi fu ordinata a coprire la posizione tra porta Portese e porta San Pancrazio; quella di Masi distribuita tra porta Cavalleggieri e porta Angelica; la riserva composta dalla brigata Galletti, dai dragoni Savini, dai bersaglieri Manara, schierata tra Piazza Navona, la Lungara e Borgo; i bastioni furono coronati di nuovi pezzi, le batterie del Vaticano rinforzate; tutto ciò disposto in buon ordine; di modo che Roma si tenne pronta a ributtare gli assalitori. Il 30 aprile le vedette di San Pietro annunziarono lo spuntare di una colonna francese sulla via di Civitavecchia. Erano circa dodicimila uomini, divisi in due brigate sotto il comando dei generali Molière e Lavaillant, con due batterie da campagna; credevano davvero che gli italiani non si sarebbero battuti; dovevano presto accorgersi del loro folle giudizio e chiamare poderosi rinforzi. Alcuni colpi aggiustati dal Calandrelli fecero capire che si pensava a respingere sul serio gli assalitori, ma erano pur sempre francesi, gli agguerriti soldati dei combattimenti africani. Essi quindi avanzarono da prodi secondo l'ordine ricevuto per l'attacco; non restavano i nostri dal fulminarli colla mitraglia e coi fucili. Ai difensori, specialmente agli artiglieri, nuocevano le carabine dei cacciatori di Vincennes; ma le nostre artiglierie egregiamente servite e dirette, facevano vuoti sanguinosi nelle file avversarie. Un notevole vantaggio avevano ottenuto i francesi, fin dal principio; il generale Oudinot aveva ordinato alla brigata Molière di occupare la Villa Panfili, il battaglione universitario sostenne valorosamente i primi assalti, ma scarso di numero, in confronto degli assalitori, dopo di avere contrastata la preziosa posizione dovette abbandonarla, ritraendosi al riparo dietro il Casino de' Quattro-Venti. Ma da quella parte, attento a tutte le fasi del combattimento, stava vigile Garibaldi e il trionfo dei francesi non doveva essere di lunga durata. Infatti il generale, scorto il pericolo, chiamò a sè la legione italiana e la lanciò a baionetta contro il nemico. Questi non temette l'attacco, e da quell'istante intorno a Villa Corsini, per le aiuole e i prati del parco Pamfili, dietro ogni muro e ogni siepe, s'impegnò una lotta corpo a corpo, petto a petto, palmo a palmo, a vita ed a morte. A favore dei francesi erano il vantaggio delle armi, la bontà della posizione che li proteggeva, l'abitudine alla disciplina, l'esperienza del combattere; per gl'italiani era presidio la coscienza della giusta causa, la religione della patria, la fede nella baionetta e il comando di Garibaldi. Ormai troppo già durava il contrasto: e Garibaldi sentì venuta l'ora del colpo decisivo. Con l'aiuto di mezza brigata Galletti, riunite tutte le forze che aveva sotto mano si rovescia per la Valle sul fianco destro francese, lo rompe, lo sfonda ed incalza con la baionetta alle reni e costringe in brev'ora tutto l'esercito assalitore, già ributtato dal fronte su tutta la linea, a battere in precipitosa ritirata. La giornata del 30 aprile sarà ricordata dalla storia come una delle più belle pagine militari dell'indipendenza italiana. Più di trecento morti, cinquecentotrenta feriti, duecentosessanta prigionieri dovuti all'eroismo di Nino Bixio, fecero pagar cara alla Francia l'insana aggressione e dimostrarono al mondo che gl'italiani si battono. In confronto le perdite degli italiani furono lievi; sessantadue morti, un centinaio di feriti; un solo prigioniero--Ugo Bassi. Onore ai prodi rapiti troppo presto ai futuri cimenti della patria. Il battaglione universitario comandato dal Maggiore Andreucci si distinse assai nella gloriosa giornata. «Avanti ragazzi» tuonava Garibaldi--«avanti alla baionetta» e i ragazzi, da veterani si lanciavano impavidi contro gli agguerriti soldati della Francia combattendo da eroi. Fra tutti primeggiò Nino Bixio che con audacia da leone, come già fu detto, fece prigioniero con pochi uomini un battaglione del 20º reggimento di linea col Maggiore che lo comandava. Il primo merito della gloriosa giornata spetta al generale Garibaldi. Fu unanime il sentimento di tutta Roma nella sera stessa del combattimento; e la storia lo conferma col suo ponderato giudizio. Egli rimase ferito nel più caldo della mischia e non ne fece mostra; solo alla sera il dottore Ripari, il carissimo amico suo, volle a forza curarlo. Fatto caratteristico del combattimento fu questo, che, nelle lievi perdite subite dai nostri, chi più ne sofferse furono gli ufficiali, sempre i primi ad esporsi al fuoco nemico; così, oltre a Garibaldi, furono feriti il maggiore Marochetti, il tenente Ghiglione, il tenente Teglio, i sottotenenti dall'Ovo e Rota, e feriti a morte il maggiore Montaldi, il maggiore Scianda, i tenenti Grassi e Righi e il sottotenente Tresoldi. Garibaldi combatté tutto il giorno, affrontando il nemico in aperta campagna, ne scoperse il lato debole, lo assalì quando ravvisò il tempo opportuno, e decise della giornata. Avrebbe fatto di più se in quel giorno avesse egli avuto il comando supremo, o se fosse stato ascoltato il suo consiglio. Garibaldi aveva infatti intenzione di completare, quella sera stessa, la vittoria, tagliando ai francesi la ritirata su Civitavecchia; e il progetto sarebbe stato senza dubbio attuato; dopo lo scacco sofferto, il morale del nemico era depresso ad incominciare dall'Oudinot, sfinito, inoltre i francesi mancavano di cavalleria per coprire la ritirata, mentre Garibaldi coi lancieri del Masina e coi dragoni di linea, tutta gente fresca che nulla aveva sofferto dal combattimento, poteva giungere a Civitavecchia prima dei francesi e suscitare quelle popolazioni contro lo straniero. Che se non si fosse voluto precorrere i francesi in quel posto, si poteva prenderli di fianco nella loro ritirata: giacché Garibaldi avrebbe potuto ingrossare le sue truppe coi due reggimenti di linea che non avevano ancora combattuto, e così trarre il miglior frutto della vittoria. Ma indarno Garibaldi insistette appoggiato da Galletti: Mazzini non voleva esporre la Francia ad una completa disfatta, e provocarne i risentimenti. Egli era il capo del triumvirato, e se i nostri si arrestavano nel momento il più propizio, era lui che doveva risponderne alla storia. Utilizzata o no la vittoria del 30 aprile si doveva capire che i francesi avrebbero voluto prendere la rivincita; meglio era dunque trarre partito della giornata, annientare il primo corpo di spedizione, circondando di una aureola gloriosa i difensori di Roma, ammirati da tutta Europa, poi prepararsi a far degna accoglienza al secondo corpo di spedizione, che la Francia ostinata nel volere ristaurato il potere dei papi ed ormai impegnata, avrebbe senza ritardo ordinato. Unica impresa che venne concessa dal Triunvirato a Garibaldi il 1º maggio, fu una ricognizione sul nemico che si ritirava per la via di Civitavecchia, verso Castel di Guido, dove i Francesi avevano passata la notte in armi nella certezza di essere assaliti. Egli uscì colla sua legione da porta S. Pancrazio, mentre il Masina coi lancieri e coi dragoni usciva da porta Cavalleggeri; entrambi si unirono all'osteria di Malagrotta, dove i Francesi si erano preparati alla resistenza. Ma per volere di Mazzini non si venne alle mani, come Garibaldi avrebbe desiderato. E ciò anche perchè l'Oudinot mandò a Garibaldi un parlamentario, per avvertirlo che trattava col governo Romano un armistizio; quasi contemporaneamente Garibaldi stesso riceveva un ordine di ritornarsene a Roma; e l'ordine fu eseguito nel giorno stesso. Così i Francesi ebbero modo di guadagnar tempo, e ritornare con forte nerbo di forze e grosso materiale di guerra a riprendere l'attacco dell'eterna città con certezza di successo. Ma se la giornata del 30 aprile non ebbe quelle conseguenze che erano da aspettarsi dopo una vittoria così bella, essa però provò al mondo che Garibaldi era qualche cosa di più di un semplice guerrigliero Americano, e che non gli mancavano le doti tutte del generale delle grandi fazioni; come provava al mondo che gl'Italiani, se ben condotti, sapevano battersi.

FELICE VENOSTA: ROMA E I SUOI MARTIRI (1849) - 1863

30 aprile 1849: la prima battaglia

30 APRILE

L' Oudinot, lasciato un piccolo distaccamento a guardia delle sue comunicazioni con il mare, avanzava su Roma con sei o sette mila fantaccini e una completa artiglieria da campo. Le informazioni ricevute dai clericali di Roma, lo avevano facilmente persuaso che i suoi proclami, — da cui tutto ciò che si poteva arguire in mezzo a contraddizioni ed evasioni d' ogni genere, era che egli intendeva ripristinare il Governo Papale con alcune garanzie contro le peggiori forme reazionarie, — davano agli abitanti la scusa che cercavano per spalancare le porte alle sue truppe. Veniva perciò non che senza artiglieria d' assedio, senza attrezzi per dare la scalata, e si avanzava in colonna a tiro di cannone dai bastioni. In realtà, di mano in mano che si avvicinavano a Roma, non mancavano segni di resistenza poiché le strade e le case erano abbandonate e coperte di stampati a grosse lettere contenenti il testo del quinto articolo della costituzione francese allora in vigore : « La Francia rispetta le altre nazionalità ; non userà mai la sua potenza contro la libertà di un popolo » Ma checche ne pensassero i soldati, certo 1' allusione ironica andò perduta per gli ufficiali, in cuor loro antirepubblicani quasi tutti e più che desiderosi di veder andar al diavolo tutti gli articoli della costituzione. Sebbene i più cauti fossero allarmati da questi indizi sparsi sui loro passi, pure non furon emessi ordini ne di perlustrazione, ne di sviluppo delle colonne ; chi era al comando era sempre convinto che tutt'al più sarebbe bastata una scarica di mitraglia per procacciarsi l'entrata in Roma.
L' avanguardia marciava in linea diretta verso il punto più alto del Vaticano coronato da una torre medievale reliquia delle fortificazioni di Leone IV contro i saraceni, che ritta sull'orizzonte serviva loro di faro. Proprio sotto a questa torre stava la Porta Pertusa per la quale dovevano entrare nella città. Le vedette precedenti di pochi metri la colonna, scantonavan già la strada al punto da cui la Porta Pertusa appare improvvisa, quando una scarica di mitraglia da due cannoni sulle mura, dette il segnale che Roma resisterebbe. Si era oramai di pieno meriggio, uno dei più infocati meriggi italiani, e i soldati che durante la marcia, grondanti sudore sotto il greve scirocco, avevan lanciato occhiate d' invidia alle ombre invitanti dei pini ombrelliferi d' Italia, erano contenti di un cambiamento qualunque nell' ordine del giorno. Si distaccò subito una batteria e si aprì un fuoco di moschetti e di cannoni contro le mura vaticane ; ma gli assalitori erano allo scoperto e i cannoni romani sui bastioni erano ben maneggiati ; non era possibile andare più avanti. Il piano fatto era di entrare per la Porta Pertusa, ma giunto il momento di sfondarla, si scoprì che la Porta non esisteva. Era stata murata da molti anni, ma il cambiamento non era segnato sulle carte dei geografi parigini. Dopo un urto disperato contro il muro impenetrabile, i francesi si trincerarono dietro i fossati e i ciglioni circostanti da cui continuarono a far fuoco sui bastioni torreggianti su di loro. Fu giocoforza sviare l'attacco dalla Porta chiusa alla Porta Cavalleggieri, cambiamento che imponeva di attraversare circa mille metri di vigneti aperti, giù per una ripida costa, sotto un vivo fuoco di fianco della Guardia Nazionale, accorsa in folla sulle mura, e delle batterie romane stazionate sui bastioni vicini a San Pietro.
Questa volta si trattava di una vera Porta « in esistenza », ma situata al fondo di una stretta valle, in un angolo rientrante delle mura, così che gli assalitori rimanevano scoperti, a portata del fuoco incrociato dei posti di rinforzo ai due lati della porta. Nello stesso tempo un' altra colonna e un' altra batteria si incamminavano dalla Porta Pertusa per fare il giro dei giardini vaticani nella direzione opposta, con la mira di aprirsi l' accesso per la Porta Angelica vicino a Castel Sant' Angelo.

Militarmente parlando, questo era un passo falso ma motivato dalle informazioni erronee degli agenti dell' Oudinot, che lo avevano assicurato essere in quel quartiere le forze clericali abbastanza forti per aprirgli la porta. Le truppe spedite in questa marcia viziosa resa più lenta dalla ripidità della scesa e dal pessimo stato delle strade, furono esposte al fuoco severissimo dei giardini pensili sul loro fianco destro, perché la sola viottola per cui potessero far avanzare l' artiglieria scorreva proprio rasente alle mura (^). L' eccidio fu tale che un chirurgo già passato per tutte le campagne d' Africa dichiarò di non aver mai visto i suoi compatriotti ridotti a così mal partito. Date queste condizioni, gli attacchi sui baluardi nord e sud del Vaticano erano destinati a fallire, il tentativo disperato di arrampicarsi sulle mura con l' aiuto di grossi rampini, basta a mostrare a qual passo fosse stato ridotto il valoroso esercito francese per mancanza di preparazione. A mezzogiorno o subito dopo, il nemico aveva fallito nel tentativo di presa della città, ma non era ancora stato respinto. Garibaldi che dalla terrazza della villa Corsini lo aveva visto rinculare a Porta Pertusa e a Porta Cavalleggieri, decise di assumere l'offensiva dalla sua posizione sul Gianicolo non ancora assalita, e convertire cosi quel primo scacco inflitto sotto le mura, in una disfatta in campo aperto. Per effettuare l' uscita dalle ville Corsini e Pamfili sui vigneti del nord, bisognava che le sue truppe attraversassero la via ora nota come via Aurelia Antica, una stretta e cupa viottola infossata fra due muri, che congiunge la Porta San Pancrazio con la strada maestra di Civitavecchia. Per questa viottola si avanzavano circa 1000 fantaccini della 20° Ligne inviati dall' Oudinot a proteggere la retroguardia e il fianco dell' attacco principale, e in essa fu sostenuto l' urto del primo scontro in quella direzione. L' avanguardia di Garibaldi, i due o trecento studenti ed artisti romani costituenti una brigata a parte, scendevano a gran passi dai giardini Pamfili per infilare la viottola, quando, sotto gli archi dell'acquedotto Paolino, incapparono nella colonna francese.
Era il loro battesimo del fuoco ; alla prima, sotto l'impeto del loro attacco, i francesi indietreggiarono, ma ben presto la disciplina e il numero prevalsero e gli studenti furon respinti nei giardini, il nemico li incalzò alle calcagna, e la Legione Garibaldina accorse in loro aiuto. Ne seguì una mischia confusa e serrata, nella quale al cozzo con i veterani della 20° il grosso degl'italiani rinculò, lasciandosi dietro alcuni drappelli che tennero fermo in vari punti occupati nei pressi della Villa Pamfili. Fra questi Nino Costa, — allora un giovane di ventidue anni ancora ignoto come artista ma già così noto per la prodezza spiegata nella Campagna di Lombardia che Garibaldi gli aveva fatto pressione speciale perchè entrasse nel suo Stato Maggiore, — sostenne con un pugno di Legionari la difesa di una casa vicina alla villa, nel bel mezzo dei francesi vittoriosi. Finalmente Garibaldi vedendo che parte della Legione teneva fermo nella Villa Pamfili e parte era respinta fin sotto le mura stesse di Roma, mandò a cercare le forze di riserva del colonnello Galletti ; questi lasciò i soldati regolari della sua divisione dentro le porte, a protezione delle mura contro qualsiasi sorpresa, e marciò fuori la Porta S. Pancrazio alla testa della Legione Romana, 800 volontari anziani, impazienti di ripagarsi delle sfortune toccate l'anno avanti in Lombardia non certo per mancanza di valore.
La crisi decisiva della battaglia era prossima ; il fiore dei volontari democratici era chiamato a provare se fosse capace di sbaragliare le truppe nemiche regolari appostate dietro le case e i muri delle vigne. Garibaldi, messosi alla testa dei suoi uomini e rinforzato dalla Legione Romana del Galletti, comandò le cariche decisive con le quali sperava di poter riguadagnare le posizioni ora in mano dei francesi, ai due lati della via Aurelia Antica. Per prima cosa si dovevan riprendere le ville Corsini e Pamfili. Air infuori di Tivoli e Frascati vi sono pochi posti nei dintorni di Roma più incantevoli dell' angolo settentrionale della tenuta Doria-Pamfili, dove i primi calori estivi si temperano in una soave atmosfera satura di mollezza e di sogni, e gli uccelli gorgheggiano nella penombra dei viali di elei sempreverdi, ne giunge altro suono. Ivi il muro di cinta su cui si stende una spianata a terrazza, sorge a perpendicolo per parecchi metri su una viuzza bassa e scura (la via Aurelia Antica), correndo parallelo per un certo tratto al vecchio acquedotto dell'acqua Paola. Al di là della viuzza, attraverso gli archi dell' acquedotto, l'occhio può vagare dalle vigne circostanti alla cupola di San Pietro, ai villaggi remoti dei colli in fondo alla campagna, posandosi finalmente sulla massa del Lucretile e del Soratte : scena ed atmosfera che rendon facile il capire perchè gl'italiani corrano il pericolo di passare il tempo nell' assimilazione passiva delle impressioni. Ma gli italiani che vi accorsero quel giorno — artisti, bottegai, operai e nobili, — eran tutti ispirati dalla resurrezione morale del loro paese a ideali più nobili che quello del piacere e della passività ; eran tutti pronti a rinunciare al privilegio di esser vivi e di vivere in Italia, purché r Italia si spaziasse libera sulle loro tombe. Il poggio della Villa Corsini e la vallata e il fiumicello che lo separano dalla Villa Pamfili, brulicarono di Legionari che irruppero impetuosi nei boschetti. Gli ufficiali Garibaldini, « le tigri di Montevideo » con la loro barba lunga e i loro capelli in anella sulle spalle eran fatti bersaglio alla mira nemica, contraddistinti come erano dai camiciotti rossi scendenti sin quasi al ginocchio. Era finalmente venuto il giorno tanto bramato in esilio, avevan finalmente raggiunto la meta per cui avevan varcata tanta immensità d' Oceano! Sulle loro orme seguiva l' Italia, e sopra quel fluttuare di giovani acclamanti, ebbri del loro primo sorso alla coppa della guerra, sorgeva Garibaldi a cavallo, maestoso e calmo come sempre e più che mai nell'infuriar della battaglia, con il suo poncho bianco svolazzante alle spalle quale vessillo d' attacco. Così piombarono sui giardini battendosi alla baionetta fra i roseti in fiore, nei quali il giorno dopo trovaronsi i cadaveri dei francesi ammucchiati l' uno sull' altro. Il Costa e i suoi compagni soccorsi proprio agli estremi, catturarono alcuni dei loro assalitori, fra i quali un gigantesco tambur-maggiore le cui belle proporzioni avevan dato nell'occhio all' artista. I nemici furon ricacciati fuori dai giardini al nord della via Aurelia Antica attraverso la quale s' incrociaron le schioppettate delle due parti, finche gì' italiani saltati giù dal loro muro si inerpicarono sull'altro e s' impadronirono dell' acquedotto.
Di là, i Legionari e gli studenti dilagarono nei vigneti e misero in fuga i francesi, dopo una lotta feroce, corpo a corpo, con fucili, mani e baionette. Durante questa carica vittoriosa, essi circondarono parecchie centinaia della 20° che non si erano ritirati in tempo dalla Villa Valentini e dalle fattone al nord della via Aurelia Antica. Il Masina e il suo pugno di lancieri furono spediti sul posto e caricarono contro i francesi che cercavano di aprirsi il passo per uscire, prendendoli come prigionieri della Legione ; parecchi ufficiali consegnarono la spada al prode Masina stesso. Fra questi e gli altri catturati dalla Legione Romana nelle case lì intorno, tre o quattrocento francesi in tutto si erano arresi ai due reggimenti. Garibaldi aveva ricevuto una palla nel fianco, una ferita che sebbene non lo rendesse inabile alla guerra costante dei due mesi seguenti, gli fu però causa di molte sofferenze. Era ormai tardi nel pomeriggio, ma la vittoria era assicurata. A Porta Cavalleggieri fu fatta una sortita sull'Oudinot che minacciato anche dai Garibaldini avanzanti, si affrettò a raccogliere i suoi uomini presi fra due fuochi e si dileguò per la strada di Civitavecchia. I Legionari vittoriosi scendendo dalla Villa Parafili, l' incalzarono alle spalle, attaccando la 33° Ligne e r artiglieria che coprivano la sua ritirata. Alle cinque, dopo circa sei ore di combattimento, tutte le forze francesi eran state respinte con una perdita di 500 fra morti e feriti e 365 prigionieri. Quella sera la città fu illuminata, le strade formicolarono di una folla acclamante e trionfante, e si sarebbero potute contare sulle dita le finestre senza lumi anche nei più poveri angiporti, vecchi avanzi medievali. Non era la celebrazione di una conquista comune : dopo secoli di avvilimento, quel popolo si era finalmente riscattato a dignità, e dai più umili ai più alti, tutti sentivano che erano « di nuovo romani ». Da quel giorno datava anche il fatto che Garibaldi, messo alla prova, si era assicurata la posizione che i suoi compatriotti gli avevano già accordata nell' imaginazione popolare.

GEORGE MACAULAY TREVELYAN
GARIBALDI E LA DIFESA DELLA REPUBBLICA ROMANA