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5 - La Repubblica Romana del 1849

marzo 1849

Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini

Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini

« Entrai in Roma, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma era — ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi — il Tempio dell'umanità ; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, unità morale all'Europa... Trasalii, varcando Porta del Popolo, d'una scossa quasi elettrica, d' un getto di nuova vita » (*).
(*) Mazzini, Note autobiografiche.

Gli avvenimenti del marzo 1849

... Volemmo quest'importante discussione riferire alla distesa, affinché tutti veggano se fosse impeto inconsiderato quello che spinse a proclamare la Repubblica, se opera di non sappiamo quali mazziniani maneggi, anziché effetto di pura necessità, eseguita e compiuta dal popolo a ragione veduta e con pieno conoscimento di ciò che stava per fare. Giuseppe Mazzini giunse a Roma soltanto il 5 marzo, quando cioè non rimaneva più nulla a desiderare circa la forma del reggimento politico. Che la proclamazione della Repubblica fosse effetto di quel principio che da anni il Mazzini con costante perseveranza va predicando, noi non discuteremo; ma lo ripetiamo, respingiamo come bugiardi gli asserti de' narratori ignoranti, o maligni delle politiche vicende di Roma.
Pio IX non volle, né seppe essere principe italiano, da che protestava contro la santissima guerra della libertà; Pio IX non volle, né seppe mantenere gli ordini costituzionali, da che pretendeva che i Ministri fossero ligi a'i suoi voleri, e negava la sanzione anco alle più urgenti leggi delle Camere; Pio IX fuggì, rompendo ogni patto dello Statuto, né il popolo cercò punirlo, ma in quella vece gli mandava messaggi a richiamarlo; Pio IX ebbe rabbia che, lui
partito, pur quieto il popolo sen stesse e tranquillo, che a sturbarlo non giovassero punto i tentativi e i denari della reazione, e quasi ad ultima prova per suscitare disordini lanciò la scomunica. Roma l'accolse come guanto di sfida, e rispose eleggendo con suffragio universale l'assemblea costituente, la quale rimediassi} agli errori del principe, impedisse i danni della sua irragionevole assenza, e provvedesse un governo. A niun miglior partito poteva appigliarsi il Parlamento, di quello di dichiarare decaduto per sempre dal poter temporale il papato, e di ritornare la Repubblica sull'antico seggio del Campidoglio usurpato dai Cesari e poi dai Pontefici. Era a temere un' invasione straniera; il cuore a tutti lo presentiva, eppure l'assemblea decideva per la Repubblica, e il popolo dell'alma città e quello delle provincie la festeggiarono, giurando avrebbero saputo per essa morire. Il Papa calunniò i Romani, la Diplomazia buttò loro in faccia sarcasmi, il fanatismo li denunziò per empi alla coscienza dei pupilli, e una Crociata di bigotti accorse colle armi dei despoti a rinsediare il papato. Le bajonette di Francia, d'Austria, di Spagna e di Napoli poterono coll'andare dei mesi fare, su cadaveri di Martiri, una via al ritorno del Papa in Roma; ma non giunsero , come potenza mai giungerà, a fornirlo di popoli che lo amino come sovrano politico.

Il 5 marzo giungeva in Roma Giuseppe Mazzini. Il grande italiano recavasi il giorno dopo al Parlamento, ove veniva accolto con un applauso prolungato, generale dei congregati e degli ascoltatori. Il presidente, interpretando quel segno d'onore, invitava V illustre esule ad assidersi al suo fianco.
Ecco il bel discorso che Mazzini profferì in quella circostanza:
« Se le parti dovessero farsi qui tra noi, i segni di applauso, i segni di affetto che voi mi date, dovrebbero farsi, o Colleghi, da me a voi, e non da voi a me: perché tutto il poco bene che io ho, non fatto, ma tentato di fare, mi é venuto da Roma. Roma m sempre una specie di talismano per me: giovanotto, io studiava la storia d'Italia, e trovai-che mentre in tutte le altre storie tutte le nazioni nascevano, crescevano, recitavano una parte nel mondo, cadevano per non ricomparire più nella prima potenza, una sola città era privilegiata da Dio del potere di morire, e di risorgere più grande di prima ad adempiere una missione nel mondo, più grande della prima adempiuta. Io vedeva sorgere prima la Roma degl'imperatori, e colla conquista stendersi dai confini dell'Africa ai confini dell'Asia: io vedeva Roma perir cancellata dai barbati, da quelli che anche oggi il mondo chiama barbari; io la vedeva risorgere, dopo aver cacciato gli stessi barbari; ravvivando dal suo sepolcro il geme dell' incivilimento; e la vedea risorgere più grande a muovere colla conquista non delle armi, ma della parola; risorgere nel nome dei Papi, a ripetere le sue grandi missioni. Io diceva in mio cuore: é impossibile che una città, la quale ha avuto sola nel mondo due grandi vite, una più grande dell'altra, non ne abbia una terza. Dopo la Roma che operò colla conquista delle armi, dopo la Roma che operò colla conquista della parola, verrà, io diceva a me stesso, verrà la Roma che opererà colla virtù dell'esempio: dopo la Roma degl'imperatori, dopo la Roma dei papi, verrà la Roma del popolo. La Roma del popolo é sorta: io parlo a voi qui della Roma del popolo: non mi salutate di applausi: felicitiamoci assieme. Io non posso promettervi nulla da me, se non il concorso mio in tutto che voi farete pel bene della Italia, di Roma, e pel bene dell'umanità, dell'Italia. Noi forse avremo da traversare grandi crisi: forse avremo da combattere una santa battaglia contro l'unico nemico che ci minacci, l'Austria. Noi la combatteremo; e noi la vinceremo. Io spero, piacendo a Dio, che gli stranieri non potranno più dire quello che molti fra loro ripetono anche oggi, parlando delle cose nostre, che questo che viene da Roma è un fuoco fatuo, una luce che gira fra i cimiteri: il mondo vedrà che questa é una luce di stella, eterna, splendida e pura come quelle che risplendono nel nostro cielo. Non interrompo di più i lavori dell'assemblea. »

Carlo Alberto infrattanto rompeva la tregua coll'Austria. Cadendo però nell'errore dell'anno innanzi, senza fissare alcun concerto cogli altri paesi italiani, che pur anelavano alla riscossa, volle che il solo suo esercito tentasse le sorti della guerra. Quest' annuncio comprese di dolore le provincie condannate ad essere inerti spettatrici di un conflitto da cui dipendevano le sorti tutte della patria. Il gran concetto nazionale bandito da Dante, da Castruccio, da Lorenzo dei Medici, da Galeazzo Visconti, fu nuovamente immiserito sotto meschinissime gare, per insensati spaventi. Roma altamente si commuoveva; e l'assemblea chiedeva spiegazioni al ministro degli esteri. A placare le suscettibilità giustamente offese, questi rispondeva che il ministero piemontese aveva spedito da qualche settimana a Roma Lorenzo Valerio, ma che, per imprevvedute cagionis aveva egli dovuto trattenersi in Toscana, che i tempi correvano rapidi, che le ostilità erano state precipitate dagli avvenimenti, che il Deputato non tarderebbe a giungere, e in breve si sarebbe appianata ogni mala intelligenza. Calmavasi la tempesta, ma non tanto che qualche Deputato, a cui rimaneva un po' di cruccio per l'incomprensibile obblio di Torino, non dicesse poiché la guerra si voleva fare senza i sussidi di Roma, più saggio consiglio fosse starsene freddi spettatori d'un conflitto a parte del quale Roma non si era voluta. Il poco nazionale concetto però veniva tostamente da cento voci ribattuto; gridavasi trattarsi d'Italia, e per l'Italia doveva versare il sangue chiunque non credeva parole vane que' santi nomi di nazionalità e di patria. Il dibattimento era breve; e ad un'immensa maggioranza passavano approvate le disposizioni del governo per prender parte alla guerra. Un piccolo, ma ardimentoso esercito di 10,000 uomini, comandato da Mezzacapo, partiva da Roma; l'assemblea l'accompagnava col seguente proclama:
« II cannone italiano, annunzio di battaglie e di riscatto, tuona di nuovo nelle pianure lombarde. All'armi. Tempo é di fatti non di parole. Le schiere republicane insieme alle subalpine, calle altre italiane combatteranno: non sia fra loro gara che di valore e di sagrifizi. Maledetto chi nel supremo arringo divide dai fratelli i fratelli.
« Dall'Alpi al mare non é indipendenza vera, non é libertà, finché l'Austriaco conculchi la sacra terra.
« La patria domanda a voi uomini e danaro. Sorgete e rispondete all'invito. Alr armi e Italia sia. »
Questa disposizione dimostra come fosse villana calunnia quella che, mentre i Piemontesi correvano a dar la vita per la patria comune, diceva Roma torpisse fra ciancie vergognose, bandendo decreti in nome di Dio e del popolo.
Non é del nostro compito il descrivere l'infelice guerra che ebbe fine a Novara, di quel disastro che, più che disastro piemontese, fu nazionale sciagura. Durante quella lotta di quattro giorni, vi fu un momento in cui l'Italia credette le sue sorti assicurate. Ma fu breve quel gaudio: la verità co'suoi terribili particolari non tardò a farsi strada dappertutto. Roma da giuliva che era, divenne d'un tratto come città colpita dalla maledizione di Dio. L'assemblea si convocò d'urgenza; e il presidente, scorgendo come troppo più depressa fosse di ;!uanto convenisse ad un corpo di Rappresentanti d'un libero popolo, cercò con energici accenti di rinvigorirla. « Le notizie giunteci, sclamò egli, anziché sbaldanzirci, devono in noi trasfondere coraggio maggiore. Adesso abbiamo tutti un sacro dovere a compiere, di volare alla difesa della nostra patria. Il nemico ci minaccia, rispondiamogli col grido di Viva l'Italia! » Salirono quindi alla ringhiera Mazzini e Sterbini, e le loro parole sempre più rinfrancarono gli animi. Venne dimandato, terminati i discorsi, il Comitato segreto per deliberare sui casi della patria; e, dopo un tempestoso dibattimento, era stabilito che per l'ingrossarsi dei tempi urgeva il concentrare l'azione governativa. Per la qual cosa, abolito il Comitato esecutivo, che fino allora aveva rette le cose, fu creato un Triumvirato nelle persone di Mazzini, Saffi ed Armellini. Il decreto che lo insediava era così concepito:

REPUBBLICA ROMANA
IN NOME DI DIO E DEL POPOLO.
L'assemblea costituente Considerando che nella gravita delle attuali circostante é necessario di concentrare il potere senza che l'assemblea stessa sospenda l'esercizio del suo mandato,
Decreta:
Art. 1. Il comitato esecutivo é sciolto.
Art. 2. È istituito un Triumvirato, cui si affida il governo della Repubblica.
Art. 3. Al medesimo sono conferiti poteri illimitati per la guerra dell' indipendenza e la salvezza della Repubblica.
I Triumviri con un proclama esponevano la situazione e chiarivano le intenzioni del nuovo potere. La rivoluzione entrava nel suo ultimo stadio; l'alma città era fatta il centro dell'azione italiana. Il nome di Mazzini segnava una linea netta fra il passato e l'avvenire; determinava i criteri di tutti i partiti condotti a giudicare della situazione dell'Italia centrale. In quella guisa che il sangue affluisce al cuore del moribondo, così la vita rivoluzionaria della penisola, dipartendosi dalle estremità, a poco a poco andava concentrandosi in Roma, quasi in punto vitale designato dalla Provvidenza. La rivoluzione pericolante in Sicilia, pericolante in Toscana, in Venezia, sconfitta a Novara, domata a Milano si era venuto stringendo in Roma, la quale, iniziatrice del movimento nazionale, allora accoglieva gli ultimi intenti di quel movimento, la suprema parola dei caduti fratelli. La Roma del popolo / ultimo faro della libertà, non piegava sotto il pondo che la schiacciava , ma sempre uguale a sé stessa, in quei supremi istanti, alto parlava ancora di patria e d'indipendenza. La Roma del popolo, come la Niobe della favola, vide a cadere a sé d'intorno i popoli insorti alla sua voce; ma, dissimile da quella madre sventurata, non impetri per dolore; raccolse tutte le sue forze e giurò che non sarebbe come vittima andata all'altare.
Frattanto gli inviati in Parigi dalla Repubblica romana erano stati officiosamente ricevuti dal nuovo presidente e dal suo ministro degli affari esteri, Drouin de Lhuys; ma ogni loro studio era venuto meno a fare che la Repubblica francese riconoscesse oflìcialmente la Repubblica romana. Per quanti argomenti adducessero a mostrare la giustizia della causa che patrocinavano, e per quante memorie cercassero di suscitare in Bonaparte a conciliare la sua simpatia ad un rivolgimento, che pur esso aveva tentato effettuare sotto Gregorio XVI unendosi agii insorti romagnoli, egli già indettato con Gaeta, rispondeva che allora erano altri tempi. E i tempi erano infatto mutati: allora era proscritto: ora presidente d'una Repubblica che doveva tradire. Veduta inutile ogni prova presso il Bonaparte si volsero al suo ministro, adoperandosi con stringente logica a venire con esso ad una soluzione. II signor Drouin de Lhuys, appoggiato alle relazioni di nemici di Roma, aveva un pessimo concetto di quella Repubblica. Doveva averlo. Forse più degli inviati romani eia convinto della mendicità di quanto gli era scritto, —al postutto se avesse voluto chiarirsi del vero stato di quella città non gli sarebbero mancati mille mezzi, —_ ma Thiers aveva detto che bisognava credere a quanto di male si diceva di Roma; Montalembert, facente per la Russia e per l'Austria, aveva detlo che bisognava crederlo; e che potevano mai gli argomenti degli inviati romani contro quegli inappellabili dettati"? Ma un po' di pudore forse, le oscillazioni .della Costituente, dove tuttodì tuonava la voce di Ledru-Rollin, e le interpellanze che la montagna andava facendo sul proposito di Roma, fecero riflettere a Drouin de Lhuys non potersi restringere cogli inviati ad un assoluto silenzio. Cominciò col dire che i tempi si facevano assai torbidi, che forse una nube stava per aria, che gravi pericoli potevano essere imminenti, e concludeva consigliando sottomano stimare saggio consiglio che la Repubblica romana elegesse la Francia arbitra e mediatrice delle sue sorti. Gli inviati, che non avevano mandato per fare quell'atto, ne scrivevano a Roma al ministro degli esteri, il quale, per nulla postergando la dignità della Repubblica, rispondeva loro dicessero al signor Drouin de Lhuys ch'essi erano andati in Francia per far riconoscere la Repubblica romana dalla sua adulta sorella non per invocare un patrocinio e una mediazione che l'avrebbero disonorata. Se l'equità dei principi, se la santità dei diritti non bastavano a tutelarla, a farla riconoscere da chi quei principi e quei diritti aveva del paro propugnati, indegno sarebbe stato di Roma il commettersi ciecamente alla fede di chi nessuna prova di affetto aveva dato fino allora, di chi non era neppure leale abbastanza per dire da quali pericoli fosse minacciata la nascente Repubblica. Nobili parole, sentimenti magnanimi tanto più degni di encomio, quanto più meno som devano le sorti d'Italia!

FELICE VENOSTA: ROMA E I SUOI MARTIRI (1849) - 1863

GARIBALDI E LA DIFESA DI ROMA

Ma gli eventi sospingevano inevitabilmente verso la Repubblica, senza alternativa a altra forma di governo giacche il Papa si rifiutava di venire a patti. Nel febbraio fu convocata un'Assemblea Costituente e Garibaldi ritornò a Roma come rappresentante della città di Macerata, dove si era guadagnato popolarità con la presenza sua e della sua Legione. L' 8 febbraio prese parte entusiastica alla proclamazione della Repubblica Romana.
Uno dei primi atti del nuovo Stato votato nell'Assemblea all' unanimità, fu di dare la cittadinanza al Mazzini, che arrivò in Roma al principio di marzo, accoltovi come il suo ultimo e il suo più gran cittadino. Il periodo losco della rivoluzione democratica finiva, e cominciava quello dell' idealismo e dell' eroismo.
Il Mazzini si affrettò a rimuovere dal Governo popolare gli elementi criminali e coercitivi, rimpiazzandoli con uno spirito di tolleranza e di libertà quasi senza esempio in tempi di pericolo nazionale.
Garibaldi infuse ai fatti d' armi di quei repubblicani estremi, uno spirito affine a quello dei greci alle Termopoli, così spesso decantato da oratori che facevan commercio del loro corredo di storia classica, ma trasportato nella regione dei fatti soltanto dalle camicie rosse.
Questi due uomini così poco teneri l' uno dell'altro, trasformarono un floscio movimento rivoluzionario, cominciato con un assassinio e con i discorsi rimbombanti delle società, in un grande evento storico. La Repubblica Romana, opera di una fazione estrema, mostrò gli errori ma anche più abbondantemente le virtù della sua origine. La sua storia è riboccante di quell'appello all' ideale che spesso guida la vita degli individui ma di rado trova manifestazioni dirette nei governi degli uomini, eccetto in quei rari e brevi momenti di crisi e di passione concentrata in cui qualche negletto « ideologo » è sollevato sulla cresta del maroso presso a cadere.
« Entrai in Roma, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma era — ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi — il Tempio dell'umanità ; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, unità morale all'Europa... Trasalii, varcando Porta del Popolo, d'una scossa quasi elettrica, d' un getto di nuova vita » (*).
(*) Mazzini, Note autobiografiche.

Appena entrato in Roma, il Mazzini fece, fra le prime cose, una visita a una signora americana, Margaret Fuller, con la quale si era spesso incontrato presso i Carlyle ed altri del loro circolo.
« Ieri sera — scrisse essa il 9 marzo — ho sentito una scampanellata, poi qualcuno che profferiva il mio nome; riconobbi subito la voce. Egli pare più divino che mai, dopo tanti nuovi e strani patimenti... E rimasto due ore, e abbiamo parlato, di corsa è vero, ma di tutto. Spera di venir spesso, ma la crisi è tremenda e tutto ricadrà su lui, perchè se qualcuno può salvare l'Italia dai suoi nemici interni ed esterni, non può esser che lui. Ma egli dubita assai che sia possibile; i nemici sono troppi, troppo forti, troppo astuti ». Sei settimane più tardi egli, parlando con Arthur Clough, ammetteva di nuovo la probabilità che la Repubblica Romana cadesse.
Ne il Governo di lui, ne la difesa del Gianicolo, ne le battaglie e le marce di Garibaldi potevano salvare il nuovo Stato : pure questi eventi affrettarono l'affermazione graduale dell'unità, dando un nuovo carattere all' orgoglio locale dei romani e indicando Roma al mondo intero come la capitale dell'Italia e la sola mèta rispondente alle aspirazioni nazionali.
Era l'ora degli ardimenti disperati. I Re e i moderati hanno tradito il popolo, dicevano i repubblicani: che il popolo stesso prenda la sua causa in mano ; non più mezze misure. « Osate! osate! e osate ancora! » . Così aveva detto Danton quando gli eserciti avevano minacciato l'esistenza della Repubblica madre di tutte le repubbliche moderne: e così dicevano ora in sostanza i democratici di Roma : ma la loro era l'audacia di chi ha in fondo ben poca speranza di successo immediato. L'ardore per la Repubblica Romana fu meno poderoso ed efficace che la furia francese del 1793, ma fu più puro nel suo concetto morale. Fu meno efficace perché non si estese fuori della città; il contadino degli Appennini non fu trascinato a impugnare le armi, come « Jacques Bonhomme » era stato trascinato a formare i battaglioni della difesa nazionale. Ma la Repubblica Romana non fu crudele, e dopo il suo avvento, il terrorismo anzi che crescere, fu soppresso. Nei primi mesi del 1849, il nuovo Stato cadde sotto l'influenza di uomini molto migliori degli Sterbini e dei Carlo Bonaparte, prominenti in Roma al tempo dell'assassinio del Rossi. L'Assemblea Costituente eletta di fresco era migliore o per lo meno assai meglio guidata che non lo fosse stato il Consiglio dei Deputati. Nelle prime settimane della Repubblica, essa ebbe a capi: l' Armellini, avvocato romano, il Muzzarelli, prelato liberale, e il mite Saffi di Forlì, che alla fine di marzo, quando si formò il Triumvirato, furono lieti di cedere il potere in mano al Mazzini fino a allora semplice membro dell' Assemblea, sebbene dal suo ingresso in Roma ne fosse stato in realtà il primo cittadino e il vero capo politico.
La speranza che il Mazzini trasfuse al popolo di Roma, era di unire la penisola in una sola Repubblica: il suo proprio sogno era che il lavoro di liberazione cominciato a Roma si estendesse da uno Stato all' altro, in un ordine di espansione geografica che era proprio l' opposto di quello in cui l' unità italiana fu alla fine effettuata.

La notizia della nuova disfatta del Piemonte arrivò a Roma alla fine di marzo. Malgrado la necessità di tenere i Garibaldini sul confine napoletano, alcune truppe romane eran state mandate sul teatro della guerra, ma troppo tardi per essere coinvolte nel disastro. Il primo risultato del disastro fu che l'Assemblea proclamò la Dittatura del Mazzini, del Saffi e dell' Armellini sotto il titolo di «Triumvirato» con pieni poteri esecutivi. In verità però, il Mazzini diresse assolutamente la politica dei suoi due colleghi come il primo Console Bonaparte aveva diretto la politica del Siéyès e del Ducos. Ma il suo non era il dominio di una capacità suprema, ne dell'egoismo, bensì di una virtù quasi sovrumana, di un'essenza celeste che lunghi anni di patimenti e di abnegazione avevano soffuso in tutto r essere suo, di modo che guardandolo e ascoltandolo si era costretti a riconoscer reverenti l'elemento divino nell'umano.
Mentre Garibaldi si veniva foggiando in eroe sugli aperti altipiani del Brasile, si era venuto elaborando in Londra per un processo di undici anni, fra lo squallore e le nebbie tenebrose di una stamberga d'affitto, la ben più penosa formazione di un santo. E ora finalmente, il prodotto di tanta pena e di tanta virtù rifulgeva in pieno sole italiano sul gran palcoscenico di Roma, davanti all'Europa tutta. Quella santità che il Carlyle riconosceva a pieno sebbene non volesse lasciarsene persuadere, esercitava ora il suo fascino sul popolo romano. Sotto il puro stimolo della sua nobiltà, tutti eseguivano i suoi cenni alla lettera e in ispirito, fatti obliosi d'ogni inerzia e codardia, pronti a rinnegare al suo appello la passione stessa della vendetta. « Qui, in Roma», disse egli nell'Assemblea, « non possiamo essere mediocrità morali » . Se Carlyle avesse avuto occhi e orecchi per gli eventi contemporanei, avrebbe scorto nell'amico che rattristò spessissimo con il suo scherno altisonante per i progetti della redenzione morale dell'Italia, la più imponente illustrazione della sua propria teoria che afferma il dominio dell'uomo sugli uomini.

Nella primavera del 1849 l'influenza di Garibaldi rialzò il tono morale della Repubblica e rinfocolò il coraggio dei difensori.
Dalla fine del gennaio alla metà dell'aprile, i Garibaldini rimasero di stazione a Rieti, città di confine, faccia a faccia con l'esercito borbonico. Quivi la Legione crebbe in numero, da 500 a 1000 uomini circa, e fu finalmente disciplinata, organizzata e equipaggiata. Non pochi alterchi sorsero fra i Garibaldini e la Guardia Nazionale di questa città i cui abitanti non erano tutti animati dagli stessi sentimenti verso la Legione Q; ma nel complesso questo reggimento era il più popolare di tutti presso il partito liberale della Repubblica, perché rappresentava in forma concreta l'idea nazionale e democratica. « L'Italia è qui nel nostro campo, l'Italia è Garibaldi, e siamo noi », aveva detto Ugo Bassi, mandato dal Mazzini a funzionare come cappellano di Garibaldi.
A Rieti, al primo vedersi, si strinse fra Ugo Bassi e Garibaldi una forte e bella amicizia. Da allora sino al martirio del frate, essi furono sempre insieme, in battaglia, in marcia, al bivacco. Garibaldi persuase il Bassi a cambiare la tonaca con la camicia rossa dei suoi ufficiali di stato maggiore e in quel costume egli continuò il suo apostolato a gran soddisfazione dei Legionari.
I sottufficiali e i soldati semplici non indossarono la camicia che verso la fine dell'assedio di Roma, ma ora portavano per uniforme una tunica sciolta di un blu cupo, un cappotto verde e il cappello alla calabrese con la tesa spiovente e spesso ornato di piume di struzzo nere : e in questa foggia brigantesca resa famosa dal palcoscenico, romantica e magnifica, di gran lunga preferibile al piccolo e antiestetico chepì, essi compirono le loro gesta guerresche del 1849.

GEORGE MACAULAY TREVELYAN
GARIBALDI E LA DIFESA DELLA REPUBBLICA ROMANA - 1909

Gli avvenimenti del marzo 1849

Ma mentre cresceva l'audacia dei costituenti romani, aumentavano le perplessità e i timori dei similari movimenti rivoluzionari italiani. Gli Stati italiani che erano risorti a libertà e dai quali si attendeva una concreta collaborazione, si dimostravano subito esitanti o contrari. La Toscana di Guerrazzi e di Montanelli, che Mazzini aveva visitata prima di giungere a Roma, riluttava a proclamarsi repubblica e riluttava altresì a creare un'unione doganale e politica con Roma. Invano l'Assemblea Costituente rinnovava i suoi indirizzi per un9alleanza fra i liberi Stati italiani, preludio alla futura unità italiana; quegli appelli, dettati spesso per incarico dell'Assemblea dallo stesso Mazzini, ormai dominatore dei cuori e degli intelletti, restavano lettera morta per la timidità di coloro a cui venivano indirizzati. Venezia, che aveva risollevato il Leone di S. Marco, e, riprendendo la sua tradizione repubblicana, non poteva logicamente avversare il carattere repubblicano di Roma, temeva che una stretta alleanza con lo Stato che aveva in animo di convocare la Costituente italiana per sopprimere i singoli Stati, pregiudicasse il suo destino. Il suo rappresentante in Roma, Giovanni Castellani, per quanto amico degli elementi mazziniani, non si sentiva abilitato dal suo Governo a stringere intese precise per una ricostruzione unitaria e repubblicana d'Italia. Più cauta ancora la Sicilia. Il movimento siciliano si era originariamente innestato, sopra un movimento indipendentistico isolano, il quale perciò non poteva collegarsi intimamente con un movimento nazionale e unitario come era quello che Mazzini aveva suscitato intorno alla Repubblica Romana. Il padre Ventura, che la Sicilia aveva inviato a suo legato nella capitale cristiana, copriva abilmente con la sua fervida personale simpatia la freddezza e la perplessità del suo Governo di fronte all'audacia mazziniana.
Più freddi ancora erano i rapporti della Repubblica col Piemonte regio. Gioberti fisso nella sua vana speranza di una soluzione federalistica, nella quale il Papa avrebbe avuto un ufficio preminente, considerava il tentativo repubblicano di Mazzini come un grave ostacolo al suo disegno. Per questo non aveva esitato nel mese di gennaio (e l'Assemblea Costituente ne apprese la notizia tra fremiti di indignazione) a promettere un nerbo di soldati piemontesi per restaurare il papato contro la sedizione mazziniana. Non era, dunque, possibile ottenere dal Piemonte una collaborazione con Roma neppure nell'imminenza della ripresa guerriera che Torino si era impegnata a tentare. Solo alla vigilia della lotta, il Piemonte - per utilizzare tutte le risorse possibili - inviò a Roma il deputato Valerio, ambasciatore più delle correnti democratiche piemontesi,^ che del suo Governo. Ma quando il Valerio giunse in Roma e potè parlare all'Assemblea Costituente la battaglia di Novara si era già, nella sera del 23 marzo, sciaguratamente conclusa, talché la disfatta delle armi piemontesi era ormai irreparabile.
Alla fine di marzo la Repubblica romana ebbe la chiara sensazione del suo isolamento. Accertata la diffidenza degli stessi Stati italiani risorti a libertà, esperimentata la vanità degli auguri meramente verbali dei molti partiti democratici che, da tutte le parti d'Europa, rispondevano ai calorosi indirizzi della Costituente, valutati i pericoli che le minaccie dei restauratori della sovranità papale facevano chiaramente intravedere, l'Assemblea riconobbe la necessità di aderire al consiglio di Mazzini: accentrare in poche mani il potere perché, con la maggiore rapidità e decisione, preparasse la suprema difesa della Repubblica. Fino allora la Repubblica aveva creato, al di sopra dei ministri, un comitato esecutivo composto di Armellini, Saliceti e Montecchi, ma l'esperimento non aveva sortito l'esito desiderato. Occorreva accentrare di più il potere esecutivo e dargli facoltà amplissime per la guerra che si presentiva imminente. L'Assemblea Costituente discusse la forma di questo potere accentrato, e si decise per l'istituzione di un Triumvirato al quale « conferire poteri illimitati per la guerra d'indipendenza e la salvezza della Repubblica».
Nella stessa seduta del 29 marzo l'Assemblea procedeva all'elezione dei Triumviri: Giuseppe Mazzini raccolse 132 voti, Aurelio Sani 125, Carlo Armellini 93. Naturalmente si dovette rimaneggiare il Gabinetto anche per il passaggio di Aurelio Sani dal ministero degli interni, che egli reggeva, al nuovo incarico di triumviro.

L'ASSEMBLEA COSTITUENTE DELLA REPUBBLICA ROMANA - IVANOE BONOMI