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GIUSEPPE MAZZINI

 GIUSEPPE MAZZINI

Il Presidente Ciampi indica nell’eredità di Mazzini la stella polare: indivisibilità dell’Italia e garanzie di un diritto uniforme.

Mazzini, dimenticato padre della Patria

GENTILE Augias, corre l'anno 2005, bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini, che infatti è stato proclamato "anno mazziniano". Che cosa accadrà? Scommetto quasi nulla. Forse un francobollo: ce n'era già stato uno nel 1972, ricorrenza della morte. Il presidente della Repubblica Ciampi, attento osservatore, deve essersene reso conto e ha provato a dare un segnale suggerendo un film su Mazzini quando ha ricevuto i rappresentanti dello spettacolo. Eppure ci sarebbero tanti, ma tanti, motivi per parlare, discutere, criticare in positivo e in negativo l'opera e il pensiero del grande genovese. Sarebbe interessante chiedere come mai quest' uomo provochi sempre la stessa risposta: “Mazzini? ah sì....però...”, tra i sabaudi, i liberali, i cattolici, i fascisti, i socialisti, i comunisti. Eppure Mazzini, Gobetti, Granisci, Matteotti, Moro meriterebbero un ben diverso destino se il nostro fosse un paese capace di maggiore riconoscenza. Invece succede a Mazzini e agli altri grandi di diventare icone appese-su un qualche muro mentre i loro principii si perdono in chiacchiere gattopardesche.

IL SIGNOR M*** ha ragione, il destino di Giuseppe Mazzini è stato un pò quello di dispiacere a tutti e del resto era già successo mentre era in vita. Eppure le sue intuizioni giovanili erano state formidabili, s'era battuto per l'unità della nazione in forma repubblicana quando l'Italia era ancora un insieme di staterelli semifeudali; aveva capito che un moto irredentista non poteva essere una cospirazione limitata a pochi circoli di anime belle ma che doveva investire grandi masse se voleva avere possibilità di successo; aveva capito che di queste 'grandi masse' avrebbero dovuto far parte i lavoratori; tanto è vero che dette vita all'"Unione degli operai italiani" nel 1840 (appena trentacinquenne), con mezzo secolo d'anticipo rispetto al Partito dei lavoratori italiani nato a Genova nel 1892.
Successe però che negli ultimi anni della vita smarrì il suo folgorante intuito politico litigando, secasi posso dire, con tutti, da tutti amareggiato e deluso. Eppure basterebbe la Costituzione della Repubblica Romana del 1849 a dire chi fu. Quella Repubblica fu il primo Stato europeo a proclamare: “Dalla credenza religiosa non dipende l'esercizio dei diritti civili e politici”; il primo a eliminare la pena di morte facendo propri i diritti della Dichiarazione Universale. Nella carta si dice:
"Il regime democratico ha per regola l'eguaglianza, la libertà, la fraternità";
"I Municipi hanno tutti uguali diritti. La loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato";
"Il domicilio è sacro; non è permesso entrarvi che nei casi e nei modi determinati dalla legge";
"La manifestazione del pensiero è libera... ";
"L'insegnamento è libero... ";
"Il segreto delle lettere è inviolabile. .. ";
"L'associazione senz'armi e senza scopo di deflitto è libera. .. ";
"Nessuno può essere costretto a perdere la proprietà delle cose, se non per causa pubblica, previa giusta indennità".
Mai nessuno in Italia aveva formulato regole così avanzate. Infatti durò pochissimo. In paese meno immemore Mazzini avrebbe un suo memoriale come quello di Lincoin a Washington, pieno di bandiere, di corone, di scolari in gita. La Patria, insomma.

da La Repubblica lettere a Corrado Augias

Vittoria della reazione

....Dopo la disfatta di Carlo Alberto nell'estate del 1848 le correnti radicali e nazionaliste avevano guadagnato terreno. A Roma la situazione si era fatta minacciosa al punto che il papa ritenne prudente lasciare la città per riparare nella fortezza di Gaeta, in territorio napoletano, dove fu ospite di Ferdinando II, il più reazionario di tutti i monarchi della reazione. A questo punto Mazzini e Garibaldi comparvero a Roma; il papa profugo a Gaeta venne dichiarato decaduto dalla sovranità temporale e nel febbraio del 1849 veniva proclamata la Repubblica Romana. In seguito Mazzini scrisse:
«Sono entrato a Roma con un sentimento di profondo rispetto, quasi di venerazione. Roma era per me il santuario dell'umanità».
Nel marzo del 1849 Carlo Alberto di Piemonte-Sardegna subì una nuova disfatta che gli riuscì fatale: dopo aver rotto l'armistizio con l'Austria venne sconfitto da Radetzky a Novara e, per consentire al suo paese di ottenere una pace onorevole, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele. La pace fu sottoscritta in agosto : la Sardegna poteva conservare la propria Costituzione, sebbene Radetzky avesse in un primo tempo preteso il contrario. Questo fatto doveva avere grande importanza in futuro.
Purtroppo anche Roma dovette rinunciare alle istituzioni repubblicane. In appoggio al papa giunsero truppe austriache, mentre da sud si operava un attacco convergente delle truppe napoletane. Decisiva fu la spedizione inviata a Roma da Luigi Napoleone, il nuovo presidente francese. Questi si era professato fervido sostenitore della libertà italiana, ma amava ancor più il potere e per conservarlo gli era necessario il sostegno dei "clericali francesi”. Da ciò la decisione di affiancarsi al papa e di scacciare da Roma i radicali. In seguito avrebbe dovuto rammaricarsene.
In giugno le truppe francesi ponevano l'assedio alla ; capitale, la cui difesa era affidata a Garibaldi, che si trovava cosi per la prima volta alla ribalta della scena mondiale.
Furono vicende da epopea, ma in definitiva l'artiglieria francese ebbe il sopravvento e costrinse i repubblicani a cedere. Mazzini fuggì in Inghilterra, mentre Garibaldi e un gruppo di fedeli si avviò verso la Romagna, .continuando la lotta nelle campagne. Anita fini per soccombere alle fatiche e agli stenti della ritirata, ma Garibaldi riuscì ad attraversare le linee austriache e ad imbarcarsi per Nizza. Intanto i Francesi, entrati a Roma, ripristinavano il potere temporale del Vaticano. La lotta per l'Italia era momentaneamente finita.

tratto da Storia Universale di Carl Grimberg 1941 – dall’Oglio editore 1966

Il Tentativo democratico in Italia

In Italia, il fallimento della guerra federalista e poi di quella sabauda di Carlo Alberto favorì la ripresa del partito democratico, 'sostenitore della guerra insurrezionale di popolo e della soluzione del problema politico italiano mediante una Assemblea Costituente, anziché mediante le annessioni al regno sardo.
In Lombardia, Giuseppe Garibaldi, che era accorso dall'America offrendo la sua spada a Carlo Alberto, rifiutò l'armistizio Salasco e si gettò alla montagna con un corpo di volontari. Dopo uno scontro a Morazzone (26 agosto 1848) con gli austriaci, tuttavia, fu costretto dal numero soverchiante degli avversar! a riparare in Svizzera. Analogo fallimento ebbe un tentativo insurrezionale, promosso dal Mazzini in Valle d'Intelvi, nel Comasco.
In Sicilia, i patriotti proclamavano decaduta la dinastia di Borbone e costituivano un governo provvisorio, presieduto da Ruggero Settimo, disponendosi alla resistenza contro l'esercito napoletano, che attaccava Messina (settembre 1848) con un feroce bombardamento, il quale valse a Ferdinando II l'appellativo di Re Bomba. A Venezia, Daniele Manin proclamava nuovamente la Repubblica di San Marco, organizzando altresì la difesa contro gli austriaci. In Toscana, saliva al potere un ministero democratico, presieduto dal Guerrazzi. Tosto però il granduca fuggiva, riparando a Gaeta presso il re di Napoli, ed il potere passava ad un Triumvirato, formato dal Guerrazzi, dal Mazzoni e dal Montanelli, col 'programma della convocazione di una Costituente Italiana,
A Roma, i democratici si agitavano contro il pontefice. Questi compì un tentativo di frenarli, affidando il governo all'energico Pellegrino Rossi, un giurista di tendenze liberali moderate. Ma il Rossi cadde pugnalato da elementi di estrema sinistra il pontefice, sgomento, abbandono Roma riparando a Gaeta, mentre nella città veniva "proclamata la Repubblica Romana (9 febbraio 1849). Accorreva allora, accolto da travolgenti dimostrazioni di entusiasmo, il Mazzini e costituiva un triumvirato per il governo della repubblica, unitamente a Carlo Armellini ed Aurelio Saffi.
In Piemonte, altresì, le correnti democratiche si rafforzavano e reclamavano la ripresa della guerra contro l'Austria. Un tentativo di mediazione fu compiuto da un ministero presieduto da Vincenzo Gioberti (dicembre 1848 - febbraio 1849), che propose un intervento militare piemontese in Toscana per restaurare il granduca e tenere lontana l'Austria, salvando così. almeno a Firenze, il regime costituzionale. Ma i colleghi del Gioberti e lo stesso re non vollero seguirlo su questa strada, obbligandolo a dimettersi. Si arrivò perciò alla ripresa della guerra ed alla rottura dell'armistizio, come volevano le correnti di sinistra (12 marzo 1849).
L'esercito però era scorato ed impreparato; molti degli ufficiali stessi erano contrari a ricominciare le ostilità contro l'Austria. Data la prova mediocre fatta dai generali piemontesi l'anno precedente, si ebbe l'idea, tutt'altro che felice, di affidare il comando al generale polacco Chrzanowski, un veterano di Napoleone, già combattente della rivoluzione del 1830, che non sapeva nemmeno l'italiano e male si intendeva con i suoi subordinati. Tra il 21 e il 23 marzo l'esercito piemontese si batté con coraggio in una serie di scontri attorno a Novara, ma dopo qualche successo iniziale, finì con l'essere sconfitto. Il popolo bresciano, che alla notizia della ripresa della guerra era insorto contro gli austriaci, si batté con disperato valore nelle Dieci giornate di. Broscia. guidato dall'intrepido Tuo Speri. Anche la resistenza di Broscia, tuttavia, fu soverchiata dalle forze avversarie.

II pontefice Pio IX fece appello contro la Repubblica Romana a tutte le potenze cattoliche, perché concorressero a sopprimerla. Così, mentre gli Austriaci continuavano l'avanzata, assediando Ancona, intervennero anche forze del re. di Napoli, della Spagna, nonché un potente corpo di spedizione francese, inviato dal presidente Luigi Napoleone, per compiacere il partito cattolico.
La repubblica, benché attorniata da tanti eserciti, decise la resistenza ad oltranza. A combattere per lei accorsero allora i volontari di ogni regione italiana, tra cui quelli di Giuseppe Garibaldi, indossanti la camicia rossa, già famosa per i combattimenti del Sud amm.it. francesi, al comando del generale Oudinot, tentarono un attacco alle mura di Roma, sul colle del Gianicolo (30 aprile 1849), ma furono costretti a ripiegare da un contrattacco garibaldino. Si aprirono allora trattative per un armistizio, durante le quali il Garibaldi uscì da Roma e sconfisse i borbonici a Palestrina (9 maggio) ed a Velletri (19 maggio), rovesciandoli in fuga. L'Oudinot, rotte le trattative, annunzio la ripresa delle ostilità per il 4 giugno, ma iniziò invece l'assalto il giorno 3, per cogliere alla sprovvista i difensori. Nelle ville patrizie, che circondano Roma dalla parte del Gianicolo, trasformate in altrettanti fortilizi, si accese allora una furiosa lotta, che durò sino al 30 giugno. In quest'ultima, si distinse Giacomo Medici, già compagno del Garibaldi in America, per la tenace resistenza nella villa del Vascello. Attorno a villa Pamphily e villa Corsini cadevano Luciano Manara, l'eroe delle Cinque Giornate di Milano, ed il poeta genovese Goffredo Mameli, autore dell'inno famoso « Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta! ». Soltanto il 4 luglio, il triumvirato ordinò la cessazione del fuoco, per risparmiare la vita dei superstiti difensori. Nel contempo, l'Assemblea Costituente romana, in segno di affermazione ideale, davanti alla sopraffazione delle armi, proclamava dal Campidoglio la Costituzione repubblicana.
Uguale eroismo dimostra intanto la repubblica di Venezia, bloccata per mare e per terra dagli austriaci. Daniele Manin, proclamato dittatore, sostiene la difesa con sovrumana fermezza. A fianco ai veneziani, si battono i napoletani di Guglielmo Pepe. Mancando i mezzi materiali per la resistenza, i veneziani offrono a gara i loro risparmi, i loro gioielli, i loro ori per farne monete, le loro vesti e le loro biancherie per farne bende per i feriti. Al bombardamento austriaco si aggiunge, a rendere più terribile la situazione, la fame imperversante nella città e lo scoppio di epidemie di tifo e di colera. Dopo ventidue giorni di cannoneggiamento ininterrotto, il forte di Marghera, chiave dell'accesso a Venezia dalla terraferma, è distrutto dalle artiglierie austriache ed i suoi difensori sono costretti ad evacuarlo (26 maggio). La Repubblica Romana stessa finisce per cadere. Ma Daniele Manin non piega ancora. Soltanto il 24 agosto, dopo che il Piemonte ha firmato ormai la pace con l'Austria e gli ungheresi hanno dovuto arrendersi a Vilagos, esaurita ogni umana possibilità di difesa, l'eroica Venezia, ultima tra tutte le città italiane, abbandona la lotta. Gli austriaci stessi rendono omaggio al valore dei difensori, concedendo loro l'onore delle armi ed accordando un'amnistia completa, salvo l'esilio di 40 cittadini, tra cui il Manin, il Tommaseo ed il Pepe.

La fuga di Giuseppe Garibaldi
Giuseppe Garibaldi non intende abbandonare la lotta, neanche allora. Esce da Roma, con un migliaio di irriducibili, e si getta nell'Umbria, tentando di raggiungere Venezia ancora in armi. Sfuggendo con abilità miracolosa alla caccia datagli da austriaci, francesi e spagnuoli, arriva a portare i suoi sul territorio della repubblica di S. Marino e quivi scioglie il suq esercito, consunto dai combattimenti e dai disagi. Poi, con un pugno di intrepidi, tra cui la moglie Anita, il frate barnabita Ugo Bassi, animatore con la sua parola infuocata dei difensori di Roma, e Ciceruacchio, il popolare tribuno trasteverino, riprende la marcia, cercando di lasciare la costa romagnola, a Cesenatico, su qualche barca da pesca. Ma le barche sono scoperte dalla crociera austriaca e costrette a tornare a terra. Dispersi l'uno dall'altro, il Bassi, Ciceruacchio e gli altri compagni di Garibaldi sono catturati dagli austriaci e fucilati. Anita si spegne di febbri in una capanna di boscaiuoli nella pineta di Ravenna. Il leggendario condottiero è solo con un compagno ferito. Ma i romagnoli lo nascondono alle ricerche degli austriaci. Un prete patriotta, don Giovanni Verità, parroco di Modigliana, riesce a fargli passare l'Appennino ed a portarlo in Toscana, da cui finalmente arriva ad imbarcarsi verso la salvezza.

tratto da Dalla Preistoria ad Oggi di Giorgio Spini – edizioni Cremonese 1967

Giuseppe Mazzini e la "Giovine Italia"

Le rivoluzioni italiane del 1820-21 e del 1831, ispirate e dirette dalla Carboneria, erano state il contraccolpo di quelle avvenute in Spagna e in Francia. La seconda aveva fatto assegnamento capitale per la propria riuscita sulla politica del governo francese. Ambedue avevano avuto carattere regionale piuttosto che nazionale e non avevano affrontato il problema unitario della creazione di una nuova Italia. Il loro spirito animatore era prevalentemente quello di riprendere l'opera del periodo rivoluzionario-napoleonico.
Il fallimento della rivoluzione del 1831 segnò altresì quello definitivo della Carboneria, che da allora in poi si può dire sopravvivesse a se stessa, perdurando più a lungo in Romagna e nelle Marche. Incertezze di programma, insufficienze di organizzazione, meschinità di capi avevano, insieme con le circostanze contrarie, causato il suo insuccesso. Ma le condizioni dell'Italia erano ancora tali che un'azione politica per gli interessi nazionali non si poteva in gran parte condurre che segretamente; e alla Carboneria e alle altre sètte affini subentrò un'altra società segreta, la Giovine Italia, ben differente però dalle prime. Non si trattava più di una molteplicità di associazioni, diverse anche nel nome e nel programma, senza nessun vincolo organico fra di loro, ma di una associazione unica con un programma preciso, maturato e formulato da un capo energico ed instancabile, Giuseppe Mazzini.
Giuseppe Mazzini era nato a Genova il 22 giugno 1805, in un ambiente di tradizioni repubblicane, poco devoto alla dinastia sabauda. Nel 1821, ragazzo ancora, era stato profondamente impressionato dalla vista dei profughi politici piemontesi che s'imbarcavano per l'estero. Nel 1827 si era iscritto alla Carboneria, e nel 1830 era stato arrestato e detenuto nel forte di Savona, ove le sue idee politiche avevano incominciato a maturare. Esule a Marsiglia, si era trovato a contatto con i profughi del 1831, e il modo con cui il movimento era stato condotto ed il suo fallimento avevano finito di convincerlo delle manchevolezze della Carboneria. Bisognava, secondo lui, che il moto per il Risorgimento d'Italia non si limitasse all'azione empiricamente politicante di pochi individui o di ristretti ceti sociali, ma fosse una corrente ampia e profonda di rinnovamento spirituale, di carattere religioso e morale innanzi tutto, fondata sopra una fede salda e profonda in Dio, e nell'Umanità depositarla della legge divina di progresso, fede che doveva investire e trascinare tutto il popolo. Questo non doveva attendere dai sovrani la salvezza, ma effettuarla per opera propria; e alla redenzione politica doveva accompagnarsi quella sociale. La rivoluzione italiana doveva essere l'esplicazione per l'Italia di un programma destinato a trasformare tutta l'umanità, e che si riassumeva nel binomio « Dio e popolo». All'Italia toccava, in questa opera di redenzione umana, la parte d'iniziatrice, di propugnatrice, di modo che la sua causa diveniva quella dell'umanità medesima, ed essa acquistava una funzione ed un valore universali, per cui la Roma italiana avrebbe dovuto succedere, superandole moralmente, alla Roma imperiale ed a quella papale. Sotto la guida italiana i popoli associati contro i governi dovevano realizzare le libere e solidali società nazionali, dalla cui cooperazione (ciascuna secondo la propria misura e le specifiche attitudini) sarebbe scaturita l'Europa nuova, organizzata per nazioni e gruppi di nazioni, e con essa l'Umanità associata e redenta, avanzate sulla via di un progresso indefinito verso una sub-umazione divina.
Mosso da tali idee, il Mazzini fondò nel 1831, a Marsiglia, la Giovine Italia. Diceva il programma di questa: «La "Giovine Italia" è la fratellanza degli Italiani credenti in una legge di Progresso e di Dovere, i quali, convinti che l'Italia è chiamata ad essere nazione, che può con forze proprie crearsi tale..., che il segreto della potenza è nell'unità e nella costanza degli sforzi, consacrano uniti in associazione il pensiero e l'azione al grande intento di costituire l'Italia in nazione di liberi ed eguali, Una, Indipendente, Sovrana». «La "Giovine Italia" è repubblicana e unitaria, repubblicana perché tutti gli uomini di una nazione sono chiamati per legge di Dio e dell'Umanità ad essere liberi, eguali e fratelli, e la istituzione repubblicana è la sola che assicuri questo avvenire; unitaria perché senza unità non vi è forza, e l'Italia circondata da nazioni unitarie potenti e gelose ha bisogno anzitutto di essere forte». «La nazione è l'università degli Italiani affratellati in un patto e viventi sotto la legge comune».
Novità politica capitale del programma nel periodo della Restaurazione era l'idea dell'unità italiana, adesso miraggio incerto di pochissimi, e
in forma cosi precisa e risoluta non professata, si può dire, da alcun altro. Una tale idea, propugnata dal Mazzini con quell'intimo entusiasmo e con quell'altezza d'idealità che erano proprie del suo spirito, fece di lui uno dei fattori capitali della nuova Italia; mentre con l'associazione intima del programma politico a un'azione di rinnovamento morale e all'idea religiosa di una missione a pro di tutta l'umanità egli elevò il Risorgimento italiano alla sua massima altezza, e più di ogni altro contribuì a conferirgli un valore universale.
Il Mazzini cominciò subito l'opera di propaganda e di organizzazione. Sorsero gruppi di affiliati alla Giovine Italia, in Genova con Jacopo e Giovanni Ruffini, in Toscana con il Guerrazzi ed il Bini, in Romagna con Luigi Carlo Farmi, in Umbria con Francesco Guardabassi, e un po' in tutta Italia, attraendo anche resti della Carboneria. Sul principio del 1832 cominciò a pubblicarsi e continuò fino al 1834, con lo stesso titolo di « Giovine Italia », anche un periodico, introdotto di contrabbando nella penisola. In esso il Mazzini svolse un'attività di scrittore continuata più tardi in altri periodici e in opuscoli, oltreché in un intensissimo carteggio, che gli dette un posto insigne nella letteratura politica, morale, religiosa italiana.
Intanto sul trono di Sardegna a Carlo Felice, ultimo ramo diretto di Savoia, era succeduto (aprile 1831) Carlo Alberto di Savoia-Carignano, il principe reggente del 1821 implicato nei moti carbonari. Dopo i fatti del 1821 la questione dell'esclusione del principe Carignano era stata sollevata da Carlo Felice, che avrebbe voluto sostituire a Carlo Alberto il figlio di lui, Vittorio Emanuele (nato nel 1820). L'Austria fu contraria e il progetto venne abbandonato; si fece però firmare al principe nel dicembre 1823 una dichiarazione con cui s'impegnava a nulla cambiare delle leggi fondamentali dello stato senza il voto di un consiglio di alti dignitari. Ciò rispondeva ai nuovi sentimenti del principe, divenuto avversissimo al liberalismo e che appena venuto al trono strinse un trattato formale di alleanza con l'Austria.
La sua salita al trono ridestò tuttavia molte speranze. Lo stesso Giuseppe Mazzini, nonostante il suo programma repubblicano, gli indirizzò una lettera pubblicata a Marsiglia nel 1831, invitandolo alla grande impresa di farsi re d'Italia. Nessun atto del nuovo re rispose a quest'appello, e il Mazzini già alla fine di quell'anno dichiarava la sua sfiducia in lui e intensificava la propaganda rivoluzionaria nello stato sabaudo. Scoperta nell'aprile 1833 l'opera di questa nell'esercito, si ebbe una severissima repressione; vi furono ventisette condanne a morte, di cui eseguite dodici (memorabili particolarmente per patriottismo e nobiltà d'animo Andrea Vochieri, fucilato ad Alessandria, per crudeltà e bassezza sbirresche il generale Galateri governatore della stessa città, che Carlo Alberto fece collare dell'Annunziata), molte a pene diverse e all'esilio; fra gli esiliati fu il sacerdote Vincenzo Gioberti. A Genova Jacopo Ruffini, carissimo al Mazzini, si uccise in carcere.
Per fatti di ben minore gravita che non quelli del 1821 e 1831 la repressione di Carlo Alberto era stata più severa; non è quindi da meravigliare se Carlo Alberto fu fatto segno all'esecrazione dei liberali, e innanzi tutto del Mazzini e dei suoi che meditarono l'assassinio del re e organizzarono una insurrezione nella Savoia. Questa fu invasa con una colonna di poco più di un migliaio di uomini, profughi italiani e d'altre nazioni; ma la spedizione, capitanata da Gerolamo Ramorino, reduce dall'aver combattuto per i Polacchi, si sciolse dopo una scaramuccia (febbraio 1834). Contemporaneamente sarebbe dovuta scoppiare un'altra insurrezione a Genova, di cui uno dei capi era il nizzardo Giuseppe Garibaldi (nato il 4 luglio 1807). Ma questi, lasciato solo, dove fuggire e fu condannato a morte in contumacia con altri compagni. La stessa condanna toccò al Mazzini nei processi del '33 dopo la spedizione di Savoia.
Il Mazzini non desistette dalla sua azione, anzi ne allargò la cerchia accentuandone il carattere internazionale, con la fondazione della Giovine Europa a Berna (1834), società divisa in tante sezioni quante erano le nazioni a cui appartenevano gli iscritti. Essa rappresentò più una affermazione d'idee che una vera azione politica; tuttavia i governi europei, specialmente quello francese, tanto premettero su quello svizzero che il Mazzini dovette abbandonare la Svizzera e recarsi in Inghilterra (1837), interrompendo per alcuni anni l'opera rivoluzionaria.
Anche in Lombardia la Giovine Italia aveva trovato adepti. La polizia, avuto sentore della propaganda mazziniana, fece una serie di arresti (1833); il processo si chiuse nel settèmbre 1835 con diciannove condanne a morte tutte commutate. Moriva in quell'anno (marzo) Francesco I e gli succedeva Ferdinando I (1835-48), minorato di mente, ed un'amnistia liberò tutti i carcerati politici, parte dei quali però vennero deportati, Nel 1838 il nuovo imperatore venne a Milano a cingere la corona ferrea (6 settembre), accolto con grandi feste seguite da un'altra amnistia. Ma i passi fatti allora e in seguito contro l'eccessivo accentramento governativo a nulla approdarono, e il breve idillio sfiori assai presto. Se esisteva un partito di alti funzionari, nobili, alto clero, austriacante per interesse e per amore del quieto vivere, le classi medie erano ormai ostili e animate da sentimenti nazionali: le illuminava e ispirava la letteratura e la pubblicistica di cui fra poco diremo.
Circa il 1840 il Mazzini riprese l'opera della Giovine Italia da Londra con un centro di organizzazione e di propaganda a Parigi. Terreno propizio fu la Romagna, ove i rivoluzionari cominciarono a ricostituirsi e ad agitarsi, tentando nel 1843 una insurrezione a Bologna, cui segui una lunga serie di condanne con sette esecuzioni capitali (1844). Un altro moto scoppiò a Rimini nel 1845: gli insorti chiedevano l'attuazione di un programma di riforme, ma l'impresa non ebbe altro effetto che il consueto strascico di processi. Ormai le carceri dello stato pontificio erano piene di condannati politici, e in Romagna l'avversione al governo era divenuta generale.
A Napoli Ferdinando II (1830-59) era salito sul trono a venti anni, dopo il breve regno del padre. Era giovane dotato di non comuni qualità personali e politiche. A lui, capo del più ampio stato e del più forte esercito d'Italia, non compromesso in alcun modo negli spergiuri e nella reazione del 1820 e degli anni seguenti, si rivolsero molte speranze, ed al suo ingresso in Napoli lo salutarono grida di « viva il re d'Italia ». Ma il suo animo, invilito da quel tanto che c'era in lui di lazzarone napoletano e infrenato da una religiosità superstiziosa e bigotta, non era capace di elevarsi a così grande ideale. D'altra parte egli intendeva governare da re assoluto, se anche geloso della sua indipendenza, incline nei primi anni molto più alla Francia che all'Austria, e favorevole a miglioramenti amministrativi. I carbonari, delusi, ordirono nel 1832 due congiure, una delle quali per uccidere il re, l'altra semplicemente per proclamare la costituzione, ambedue scoperte e punite, ma con mitezza, tanto che si narra avere i liberali bolognesi, ammirando la temperanza del re, inviato ad offrirgli la corona d'Italia, offerta che il re avrebbe rifiutato «per non saper che fare del papa». E certo il dominio pontificio era un ostacolo immediato a qualunque ingrandimento del regno di Napoli, ostacolo che il Piemonte non aveva. Vere e proprie insurrezioni avvennero nel 1837 a Penne negli Abruzzi ed a Cosenza, nel 1841 ad Aquila, seguite ora da esecuzioni capitali. Assai più gravi furono i moti di Sicilia nel 1837, a Messina, Siracusa e Catania, causati dalla persuasione che il colera, il quale faceva strage nell'isola, fosse dovuto a polveri venefiche distribuite dal governo. Un carattere costituzionalista ed autonomista tuttavia non mancò al movimento, che fu punito con disumana severità dal ministro di polizia Del Carretto. Da allora in poi il solco fra i Borboni e la Sicilia andò facendosi sempre più profondo. Le condizioni economico-sociali dell'isola, nonostante le leggi del 1812 eversive della feudalità che avevano portato un nuovo ceto di proprietari, rimanevano sostanzialmente immutate, Intanto si diffondevano nel regno la Giovine Italia e altre associazioni segrete parteciparono alla loro azione Benedetto Musolino, Luigi Settembrini, Giuseppe Massari; ma il grosso dei liberali napoletani rimase lontano dal programma mazziniano. Un comitato costituzionale a Napoli, con a capo Carlo Poerio, si manteneva in rapporto con i mazziniani. Un moto generale in Sicilia e nella Calabria fu disposto per il marzo 1844, ma scoppiò solo a Cosenza, e venne facilmente represso. Quando tutto era finito, sbarcarono il 16 giugno in Calabria, presso Cotrone, i mazziniani Attilio ed Emilio Bandiera, figli dell'ammiraglio austriaco e disertori della marina austriaca, insieme con Domenico Moro di Venezia, Nicola Picciotti di Frosinone, Domenico Lupatelli di Perugia, ed altri pochi, Invano il Mazzini aveva cercato trattenerli; essi erano persuasi che fosse necessario qualche esempio per scuotere gli Italiani. Dopo avere errato a caso per qualche giorno, vennero sorpresi e fatti prigionieri dalle truppe regie, si disse per tradimento di uno di loro, il còrso Boccheciampe. Il 25 luglio 1844, nel vallone di Rovito, dove l’11 luglio erano stati fucilati cinque colpevoli dei moti di Cosenza, i fratelli Bandiera con sette compagni affrontarono la fucilazione, cadendo al grido di « Viva l'Italia, viva la libertà, viva la patria ». La loro morte fece grande impressione e non fu pertanto inutile alla causa d'Italia.
Scarsissima di risultati immediati, l'opera mazziniana ebbe importanza grande come propaganda d'idee; fu veramente formatrice della coscienza nazionale ed agitò innanzi all'opinione europea il problema italiano, su cui l'attenzione veniva richiamata dai movimenti insurrezionali e dalle condanne giudiziarie.

tratto da Sommario della storia d’Italia di Luigi Salvatorelli - Einaudi 1938